Amendolara-18/05/2015:Profilo di Anna Maria Ortese (di Salvatore La Moglie)

Profilo di Anna Maria Ortese

 

di Salvatore La Moglie

 

Per comprendere un autore bisogna vedere come egli ha reagito di fronte alla realtà, e i modi di reagire alla realtà sono tanti. Così ha spiegato Alberto Moravia in una delle sue ultime interviste televisive e nel caso di Anna Maria Ortese questa regola vale, forse, più di qualunque altro scrittore. Infatti, la Ortese dichiara, fin da subito, che per lei la realtà è  insopportabile. Proprio da questa poetica dell’ insopportabilità, come si vedrà, sono scaturite la sua particolare reazione alla realtà e la sua particolare scrittura.

La scrittrice napoletana nasce a Roma il 13 giugno del 1914. Non ha una vita facile e vive lunghi anni di povertà e ristrettezze. Viaggia moltissimo sia in Italia che all’estero.

Dopo aver vissuto a Napoli per molti anni, nel 1975 si trasferisce a Rapallo con la sorella e solo a partire dalla metà degli anni ’80 raggiunge la tranquillità economica grazie agli incassi per i suoi libri ma anche per l’assegnazione del vitalizio previsto dalla legge Bacchelli, per il quale si   interessa fortemente il poeta Dario Bellezza.

Sostanzialmente autodidatta, l’Ortese – che ha scritto tanti articoli per giornali e riviste – inizia la sua carriera di scrittrice con Angelici dolori, una raccolta di racconti che piace tanto al realista magico Massimo Bontempelli, il quale li fa pubblicare nel 1937 da Bompiani.

Nel ’50 segue l’altra raccolta, L’infante sepolta; nel ’53, Il mare non bagna Napoli, novelle e cronache che paiono vicine alla poetica neorealista e che valgono alla scrittrice il Premio Viareggio. Nel ’58 pubblica Silenzio a Milano e I giorni del cielo; nel ’65 è, invece, la volta di uno dei suoi capolavori: L’Iguana, un romanzo che ha come protagonista il primo di tanti animali cari alla nostra autrice. Nel ’67 vince il Premio Strega con il secondo romanzo, Poveri e semplici; nel ’68 e nel ’69 pubblica altre raccolte di racconti: La luna sul muro e L’alone grigio. Nel ’75 dà alle stampe l’altro capolavoro, Il porto di Toledo e nel’79 Il cappello piumato. Seguono, nell’83 e nell’86, le  cronache Il treno russo e Il mormorio di Parigi; quindi, nell’87, due raccolte di racconti: Estivi terrori e Il sonno e in veglia. Nel ‘93 vede la luce l’altro grande capolavoro Il cardillo addolorato, un romanzo che ha un immediato e vasto successo di pubblico che impone la Ortese all’attenzione della critica e la conferma come tra i maggiori autori del ’900 italiano. Nel ’96 pubblica il romanzo Alonzo e i visionari e nel ’97 Corpo celeste che è un insieme di testi e di interviste della scrittrice.

La Ortese muore a Rapallo il 9 Marzo del 1998.

Grande scrittrice la Ortese, da alcuni accostata ad Elsa Morante, più conosciuta e apprezzata, però, all’estero che non in Italia, avrebbe rischiato l’oblio se la casa editrice Adelphi non avesse avuto il coraggio, nel 1986, di ripubblicare le sue opere e farle conoscere al grande pubblico. Questa ripubblicazione continua tuttora sotto forma di grossi volumi che comprendono più di un’opera ed è, questa, un iniziativa che, per la casa editrice, costituisce un merito e un vanto. Nonostante questo, la Ortese è tuttora una scrittrice dimenticata e poco conosciuta, come ha fatto notare, con molta amarezza,  di recente, sul Corriere della Sera (12-05-2015, p41), il giornalista Paolo Di Stefano.

Quest’autrice, a lungo sottovalutata dalla critica, non è stata molto amata. Qualcuno ne ha parlato come di una donna chiusa, solitaria e dal pessimo carattere. A noi non interessano, però, i giudizi riduttivi e semplicistici su una persona, ma interessa vederla e scoprirla in profondità e nella sua verità più vera e non alla superficie. Nell’ Autodizionario degli scrittori italiani del 1990, la scrittrice parlò della sua “indignazione davanti a ciò che si chiama reale”, e disse pure che “realtà, uno che sia in polemica eterna col reale, non può averne”. Pertanto, questa la sua conclusione: “Anna Maria Ortese non sa cosa ha voluto, né chi è“. Parole, quelle della Ortese, che ribadiscono quell’insopportabilità della realtà alla quale si accennava all’inizio e che fa di essa un’autrice molto vicina alla poetica di Montale e di Moravia, ai quali, pure, la realtà stava così stretta e nella quale vivevano così male e in disarmonia. Le parole della Ortese sembrano riecheggiare così bene il celebre finale di una poesia di Montale in cui il poeta afferma di poter dire di sapere solo “ciò che non siamo” e “ciò che non vogliamo”. E, dunque, non è tanto nella linea del neorealismo che la Ortese potrebbe essere inserita (anche se solo come “compagna di viaggio”) ma andrebbe accostata a quella dei grandi del ‘900: alla linea Svevo-Pirandello-Tozzi -Moravia, alla linea, cioè dei grandi narratori che, seppure realisti, avevano in uggia la realtà e rappresentavano la vita e gli uomini in una maniera del tutto particolare. Una linea nella quale – sia detto per inciso – è accostabile anche il grande Italo Calvino, che preferiva piuttosto un albero come postazione per vedere e raccontare la realtà invivibile e insopportabile della civiltà postmoderna.

Si è parlato, per l’Ortese, di realismo magico, alla Bontempelli, per intenderci. E in che cosa consiste il realismo magico? Consiste in un’arte capace di ricavare, dalle vicende di tutti i giorni, il momento fantastico, magico, irreale o anche surreale, attraverso il gioco dell’intelligenza e dell’ironia; un’arte nella quale il confine tra realtà, mito, fantasia e favola non sia per nulla definito e dove tutto ciò che è razionale appare irrazionale e tutto ciò che è irrazionale finisce per apparire razionale. In tutto questo vi erano suggestioni surrealistiche e pirandelliane e l’ironia (al posto dell’umorismo del grande siciliano) doveva essere la forma artistica che consentiva una superiore lucidità, una particolare maniera di presentare il reale e di decifrarlo.

Premesso questo, va ribadito e precisato che, in verità, la Ortese sfugge ad ogni collocazione rigida in una corrente letteraria o in una linea. Essa è soltanto accostabile ma non rigidamente inseribile. E questo perché vari sono i motivi della sua ispirazione artistica e perché continuo è stato il suo sperimentare forme e modalità di espressioni. Da questo sperimentalismo e dal particolare realismo è derivata la particolare scrittura della Ortese: una scrittura sempre alla ricerca di un equilibrio tra reale e surreale, realtà e fantasia, incanto e disincanto, verità e mistero e nella quale prosa e poesia convivono in magica armonia, anche quando, forte, è la mimesi del parlato popolare.

Se la Ortese destruttura la realtà non è per evitarla ma per ricrearla e rappresentarla secondo il suo mondo interiore e secondo la sua particolare visione che tanto ci ricorda quella di Calvino con la sua ineffabile leggerezza. La nostra autrice non è mai stata un’intellettuale impegnata ma certo non chiudeva gli occhi di fronte ai mali del mondo e della società  in cui viveva. E’vero che in un celebre racconto fa dire a un personaggio che il mondo sarebbe meglio non vederlo, tanto è brutto. Ma la scrittrice, nonostante tutto, lo racconta, questo mondo, con quel particolare realismo di cui si è detto e da un punto di vista indubbiamente esistenzialistico ed espressionistico.

Il dolore, la morte, la solitudine, l’indifferenza, l’apatia, la crudeltà, il destino, la sofferenza, il male di vivere, il mistero che ci circonda (in questo mondo e nell’oltre-mondo); lo stupore e l’ingenuità adolescenziali; il degrado sociale, la povertà, la tristezza; il nonsenso, l’assurdità e la paradossalità della vita; l’infelicità, la malattia, il male che gli uomini fanno ai propri simili senza una particolare ragione…: questi sono i motivi e i temi più ricorrenti nell’opera di Anna Maria Ortese, raccontati in maniera onirica, gotica, fiabesca, visionaria, surreale, magica, paradossale, allegorica.

Nel suo sconfortato vivere, in totale solitudine e isolamento culturale, la “zingara assorta in un sogno” (cosi la definì Vittorini) pensava che la pietà fosse il sentimento di cui più avevano bisogno gli uomini e che potesse essere il giusto rimedio alla rovina del mondo. Un mondo che vede, lucidamente, procedere verso il caos e il disastro, senza molte speranze, “abitato da dannati” che si fanno del male. In un simile mondo e in una realtà così mutevole e sfuggente non resta, forse, che valorizzare la bontà degli animali i quali – ora come iguana, poi come puma e infine come cardellino – finiscono per essere simboli e metafore positivi da contrapporre all’orrore di una realtà che ci nega ogni illusione, ogni forma di evasione e ci impedisce di sognare per poter sopravvivere ad una vita e a un mondo che ci fanno inorridire.

La scrittrice metafisica (così l’ha definita Alfredo Giuliani) sente forte l’esigenza di un infinito (proprio nell’accezione leopardiana), di un altrove, di un mondo invisibile (da contrapporre a quello visibile così terribile) e soffre disperatamente perché è sempre più consapevole di non essere adatta al mondo in cui vive, di essere profondamente diversa da esso. Di qui il sentimento di solitudine e di autoemarginazione che ne consegue, fino alla scelta di un volontario esilio, fino a chiudersi in casa. Magari per vedere le telenovele brasiliane ( perché – dice- “sono come i sogni”) e soprattutto per leggere e per scrivere. E scrivere che cos’è? E’ “cercare la calma, e qualche volta trovarla. E’ tornare a casa. Lo stesso che leggere. Chi scrive e chi legge realmente, cioè solo per sé, rientra a casa; sta bene”. Ma, soprattutto, scrivere è per l’Ortese necessario e vitale per trovare almeno un equilibrio, un ordine interiore, soggettivo negli “abissi senza speranze che circondano l’Universo”.

Nel Cardillo addolorato c’è un passo allucinato, che riecheggia un celebre pensiero di Blaise Pascal sul perché della nostra esistenza e di quella del mondo, che merita di essere citato in quanto ci fa comprendere meglio la personalità complessa dell’Ortese: “Ogni tanto, di notte o verso l’alba, mi sveglio con un dolore che è il più disperato e intollerabile di tutti quelli che ho conosciuto. Non so dove mi trovo…

Dove sia collocato l’universo, ecco cosa non so. Né come si chiami. E che cosa sia, e di chi sia. Da anni, mi pare, l’idea di queste infinite strade stellari mi si presenta, la notte, e mi fa gelare, sognare, tremare. Dove sono? Chi – io – fra miriadi di abitanti la Terra, da ogni tempo Cosa, la Terra, fra miriadi di pianeti, di soli, e che cosa questa galassia fra le altre galassie?…Ma il luogo soprattutto vorrei sapere, e so che non saprò mai: dove tutto ciò è presente, e il suo vero nome, e, se non ha nome, il perché di questo silenzio sul nome”.

E’ questa la Ortese che dice di non sapere nulla e che vorrebbe sapere tutto su se stessa e sul mondo in cui si sente, esistenzialisticamente, gettata. E’ questa la Ortese che vorrebbe conoscere la verità del mondo, che vorrebbe che fosse svelato il mistero dell’essere e dell’universo. Perché “ogni cosa è intimamente inconoscibile” e “l’inconoscibile è il vero”, scrive la scrittrice, convinta com’è che la vera realtà, in fondo, è quella che non si conosce e che non si vede e, nel mondo, “tutto ciò che si vede e accade è incantato e spaventoso”. Ma di questo mondo ignoto e misterioso la Ortese è sempre attratta e sempre all’insegna del sogno, della visionarietà, dell’utopia, dell’illusione. Non è un caso che tra i suoi autori più amati ci sia E.A. Poe.

Anna Maria Ortese, donna schiava e solitaria, non concede facilmente interviste ai giornalisti. Un anno prima della morte riesce, però, ad intervistarla il settimanale di Panorama. E’ il mese di marzo, esattamente un anno prima della scomparsa. Di quell’intervista è utile estrapolare alcune dichiarazioni che ci aiutano a comprendere meglio la personalità complessa e inquieta della scrittrice: “(…) La mia vita è fatta di assenze. (…) Su di me si dicono cose cattive: che io sia solitaria, asociale. (…) E un poco è vero: la solitudine è stata la mia salvezza e la mia forca. Ma potevo essere diversa? Vengo da una famiglia miserissima che non mi ha lasciato nemmeno il tetto. Dal ’60 ho vissuto con 20 mila lire al mese della pensione di mio padre. Ho sopportato una vita perfida, in guerra con la fame”. L’Italia è un Paese straniero? “Certo. E quelle mie impressioni si sono dilatate. L’Italia oggi è un Paese che ci trascina come relitti. Che ci chiude nel suo delirio di fisicità che ha invaso piazze, scuole e università. La parola è diventata solo grido. Il lusso l’unica luce”. E lo scrittore chi è? “Forse è solo un naufrago. E il libro è uno strano oggetto che un ragazzo getta fra le onde. (…) Quanti libri nascono oggi per essere subito ingoiati? Quanti scrittori? Perché tra la vita degli uomini e il libro non c’è più alcuna comprensione”. L’Italia è un Paese che “disprezza la memoria. Le leggi di una volta, gli scrittori, la lingua, i costumi, la bellezza o la pietà sono considerate perversione antiche. Ma soprattutto sento che in questo Paese la vita umana è diventata così drammatica che si muore di dolore solo a pensarci. (…)”.

Allora l’Italia è un Paese geneticamente violento? La scrittrice risponde spiegando che cos’è per lei la violenza e perché ama gli animali: “Nelle mani piagate di un poverino che mendica, nel grattacielo sporco che offende la città, io vedo la violenza. Ma la violenza è uno spettro universale. Togliere il respiro della libertà agli uomini è violenza. Strappare la vita e la felicità ad un piccolo animale è violenza. Anni fa vidi l’immagine di un bambino nero in braccio alla madre. I suoi occhi gridavano ho fame, ho sete, aiutatemi! Ecco, quegli occhi sono entrati dentro i miei e io guardo il mondo con loro. Per questo amo tanto gli animali: perché queste creature, che alcuni insolenti considerano oggetti, sono invece un genere fantastico che ci aiuta a vivere. Sono la tregua. Solo gli animali possono ospitare la purezza che gli uomini hanno perso. Vede, per me la natura è un ponte tra gli uomini e l’intelligenza. (…)”.

Segue poi una domanda sulla politica e sulla giustizia: non servono a niente? Anche qui la risposta è negativa e pessimisticamente amara: “Sembra di no. Questo Paese è devastato e la politica balbetta nel vuoto. Io auspico una politica innocente e senza colori. Ho conosciuto in passato un grande presidente, Luigi Einaudi. Vorrei che gli uomini della politica mettessero la loro intelligenza al servizio di questo Paese per ricostruirlo come lui aveva fatto”… “L’ho già detto: non sono astratta né beneficiaria della destra né della giustizia della sinistra. Anzi detesto la giustizia! Quella parola che si arroga il diritto di far morire in un carcere un uomo solo perché ha rubato. Che peccato è il furto davanti all’assassinio? Davanti al disprezzo del dolore? Il carcere se non vi sono pericoli per altre persone, rimane per me un arbitrio e un orrore. Il soccorso, quello che sì è la giustizia. Correre per chiunque gridi sete o fame o disperazione. (…)”.

Quali sono, per la Ortese, gli scrittori veri? “ Ho ammirato tanto Elsa Morante: aveva una grande considerazione di sé. Mi spiace non aver mai incontrato Pasolini. Leonardo Sciascia è stato un maestro. (…)”.

E Anna Maria Ortese che scrittore è? “ Non so nemmeno se sono stata uno scrittore. Mi avevano talmente convinta di non essere niente. Sono arrivata a Rapallo nel ’75 che credevo di essere morta. Ho continuato a scrivere perché era l’unica cosa che avevo. Poi, dieci anni fa, ho incontrato l’Adelphi ed è tornato un lapillo di vita. Forse ho scritto per cercare una tregua. Non l’ho mai trovata”.

L’intervista si chiude con una riflessione sulla vita della scrittrice, “tra l’incanto e l’orrore”. Questa la risposta. “ E’ vero. Le cose abbaglianti del mondo mi possiedono. Come se fossi sempre davanti a uno spettacolo impetuoso. Così vivo tra gli eterni incanti e infiniti terrori. Ma il primo incanto rimane quello di poter partecipare alla vita. Qualcosa che soprattutto i bambini e i giovani dovrebbero sapere”.

Questo è quanto ha lasciato detto la Ortese nella sua intervista a Panorama, che ci conferma nelle nostre convinzioni sulla grande umanità e sulla straordinaria complessità di questa autrice che è ormai considerata un pilastro della letteratura italiana del ‘900. Eppure, nella sua grandezza, era semplice e dotata di vera umiltà. Infatti, in Corpo celeste, ha scritto quasi un’epigrafe sulla passione di una vita: quella di scrittore: “Ecco, ho finito. Ho finito anche di essere uno scrittore – se mai lo sono stata – ma sono lieta di averlo tentato. Sono lieta di aver speso la mia vita per questo. (…).”

E noi di questo le siamo infinitamente grati. Anche perché se è vero, come diceva lei, che “la libertà è respiro”, scrivere è il più bel respiro della vita, perché è quando scriviamo che lo sentiamo più forte.

Di questi respiri ha sempre vissuto Anna Maria Ortese.