Amendolara-31/08/2018: Il cocchio alato del tempo, un romanzo di Salvatore La Moglie

Salvatore La Moglie

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie 

Il cocchio alato del tempo, un romanzo di Salvatore La Moglie

Qui di seguito pubblichiamo il quarto capitolo del romanzo di  Salvatore La Moglie.  Buona lettura.

 

IV

 

 

«Ho passato la maggior parte della mia vita a scrivere. È un’attività solitaria. Si sta seduti nella propria stanza, e si scrive. E dalla solitudine si entra in contatto con tutti».

 

  1. Bellow

 

«I libri sono il miglior approvvigionamento che ho trovato in questo umano percorso».

 

Montaigne

 

«Non vedo una totale incompatibilità tra il vivere e il pensare… Sono esistite persone che hanno eliminato del tutto la vita. (…) Un Leopardi ha veramente rinunciato alla vita? Io non credo, non credo affatto. Se  misuriamo la vita in mesi, in anni, in settimane o anche in fatti, in viaggi, in esperienze, in donne, in amori, in affari, in azioni… allora si può dire veramente che Leopardi ha vissuto ben poco, insomma. Ma ha poi veramente vissuto ben poco? Questo rimane un punto interrogativo».

 

 

 

 

«La guerra continua. Ormai sono due settimane».

Montale

 

«E continuerà ancora per molte settimane. I serbi sono un popolo troppo fiero», ribattè mio padre con la testa china sul libro. Poi la sollevò e tolse gli occhiali. Mi guardava. Io ripresi a parlare.

«Sembra che l’uomo abbia paura della pace. È come se, instaurando stabilmente la pace, la storia dell’uomo fosse destinata a finire. Storia uguale guerra…».

«Vedi, Sandro, finché gli uomini avranno le loro passioni, le loro ambizioni, i loro desideri, i loro sogni… finché esisteranno l’invidia, la gelosia, la prepotenza, l’arroganza, l’istinto di sopraffazione, il sentimento di superiorità che porta dritto al razzismo e alla scarsa considerazione degli altri… finché esisteranno tutte queste cose e anche altro, la pace perpetua sarà solo un sogno».

«Dunque, all’uomo non resta che sognare?…».

«Gran parte della nostra vita è fatta di sogni, di illusioni, di speranze…».

 

 

«Che di solito non realizziamo…».

«Sì, è così. Eppure bisogna sognare, desiderare, illudersi, sperare… altrimenti tutto sarebbe senza senso, tutto sarebbe assurdo. Dare un senso alla vita può condurre a follia ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio, è una barca che anela al mare eppure lo teme… Hai letto Edgar Lee Masters?».

«Questo mondo è tutto un disincanto, sembra che niente riesca ad incantarci, ad illuderci… Abbiamo perso l’innocenza dell’incanto, quella sensazione così bella e dolce di fronte alla vita e al mondo. La modernità e la postmodernità hanno ucciso tante cose… Vorrei leggerti un pensiero di monsignor Gianfranco Ravasi a questo proposito. Ascolta…».

Prese dal lato sinistro del tavolo un grosso quaderno sul quale trascriveva le frasi e i pensieri degni di essere citati.

«‘L’uomo moderno ha perso il gusto di stare con gli occhi ora aperti ora socchiusi sulle meraviglie del mondo. Non conosce più il gusto dello stupore, non ha più l’innocenza dello sguardo, non riesce più a sostare, tacendo e contemplando’… Belle parole, vero? La scienza e la tecnica», concluse, «hanno ucciso il sogno e la fede, eppure non si può fare a meno di entrambe…».

«Ma allora come viverla la vita?».

«Bisognerebbe viverla in modo non totalmente disincantato (perché altrimenti ci porterebbe alla noia, allo scetticismo e perfino al cinismo e all’indifferenza) e neppure in modo totalmente incantato (perché altrimenti ci porterebbe a prendere tante di quelle cantonate che è meglio evitare)».

«Dunque, sia la visione disincantata che quella incantata sono da evitarsi?».

«Sì, occorrerebbe essere capaci di conciliare le due cose, di raggiungere una sintesi. Una vita vissuta all’insegna del disincanto può condurci a una forma di disumanizzazione, come pure una vissuta all’insegna dell’incanto può portarci a sbattere all’infinito all’insegna dell’incanto può portarci a sbattere all’infinito la testa contro il muro della realtà».

«Il problema è sempre la realtà, non è così?».

«Sì, Sandro, è così. Cozziamo sempre contro il muro spesso della realtà. E la realtà non è mai come noi la vorremmo, è sempre diversa da noi. Ecco perchè», concluse, «il più delle volte siamo insoddisfatti, infelici, disadattati…».

«‘Inetti’, come i personaggi di Svevo».

«Non solo di Svevo ma di tanti altri grandi del Novecento, tutti oppressi dalla realtà sfaccettata, mutevole e molteplicemente interpretabile».

«E anche crudele e spietata…».

«E cinica e assurda…».

«Di qui l’‘inettitudine’, l’inadeguatezza cioè alla realtà, l’incapacità di vivere la vita di tutti i giorni….».

 

 

«Sì, perché quei personaggi (che sono poi un riflesso del loro creatore) sono degli illusi, degli incantati che credono che la realtà sia come sono loro. E invece… e invece è ben diversa e così ci vanno a sbattere e prendono le cantonate».

«Ecco perché bisognerebbe essere un po’ disincantati…».

«Proprio per poter prevenire qualche cantonata».

Ci fu una pausa non molto lunga, dopo la quale presi la parola.

«Gli scrittori appartenenti al Decadentismo sono molto interessanti.

Dovrò mettermi a leggerli in modo sistematico. Ne ho letti solo pochi».

«Sì, sono scrittori importantissimi, sono quelli che hanno creato il romanzo moderno. Credo che non si possa vivere senza aver letto Svevo, Pirandello, Proust, Kafka, Mann, Musil, Joyce e altri ancora».

«Ho finito da poco», dissi con un certo orgoglio, «di leggere ‘La noia’ di Moravia, un autore che adoro».

«Anch’io amo molto Moravia. Hai visto come definisce la realtà in questo romanzo?».

«La paragona a una coperta corta: se la tiriamo sui piedi sentiamo freddo al petto, se la tiriamo su petto sentiamo freddo ai piedi…».

«Proprio così… La realtà…», disse guardando nel vuoto. «Purtroppo, dobbiamo sempre fare i conti con la realtà finisce sempre per tradirci e farsi beffa di noi. Soltanto i libri non ci tradiscono mai, sono l’unica realtà vivente che non ci inganna e che ci è amica. Solo noi possiamo tradirli non sapendoli leggere».

«Molto bello quello che dici, papà. I libri come realtà vincente…».

«Sì, perché nei libri troviamo autori e personaggi che cercano di dirci qualcosa, di lanciare dei messaggi, dei messaggi che vogliono aiutarci a vivere, ad affrontare meglio la realtà».

«I libri aiutano a vivere… eppure non fanno ricchezza».

«Certo, il più delle volte la cultura non paga, non dà utili, lo diceva anche Montale. Ma posso dirti che in mezzo ai miei libri io mi sono sempre sentito un uomo ricco anche nei momenti in cui i soldi in casa erano contatti. Vedi, figlio mio», concluse, «non c’è ricchezza più grande di quella spirituale, di quella che ci viene dalla cultura. Un uomo senza cultura è come un animale e una casa senza libri, come ha detto il poeta Ignazio Buttitta, è una stalla. Cioè, la casa degli asini…».

«Tu hai il culto dei libri».

«Sì, sono quasi un fanatico dei libri. Se potessi, comprerei tutti i libri del mondo e farei della mia casa un’immensa casa-libro. Ma questa è un’utopia irrealizzabile come tutte le utopie…».

«Eppure sarebbe così bello!».

«Vedi, prima ti dicevo che in qualcosa, anche in una sola piccola cosa, bisogna pur credere per poter dare un senso alla vita se vogliamo che non ci appaia solo assurda, senza senso e crudele. Io ho scelto i libri…».

«Perché proprio i libri?».

 

 

«Ognuno su questo mondo ha le sue preferenze, le sue tendenze, le sue fissazioni, le sue manie, le sue fobie… Io ho sempre avuta quella dei libri. Forse perché i libri mi hanno offerto una realtà altra, forse perché mi hanno consentito di evitare la prigione, la noia della banalità quotidiana. I libri mi hanno consentito di conoscere altri mondi, altre persone, altre realtà, altre esperienze ecc. e mi hanno sempre fatto sentire e vivere come fuori da questo mondo, quasi in un ‘aldilà’ extraterrestre».

«Dunque, i libri come realtà altra e i libri come fuga dalla realtà e dal mondo…».

«Sì, ma anche i libri come presa di coscienza della realtà, i libri come una realtà totale particolare, nel senso cioè che sono contemporaneamente realtà e sogno: uno stare nel mondo e fuori dal mondo allo stesso tempo».

«Quello che dici è molto interessante, molto. Ma dimmi una cosa, papà…».

«Cosa?…».

«So che hai scritto dei liberi, romanzi, racconti, poesie… Perché non li hai mai pubblicati?».

Mi guardò fisso negli occhi, poi li alzò guardando verso sinistra. Dentro uno di quei cassetti della biblioteca c’erano i suoi manoscritti.

«Certo, avrei potuto pubblicarli. Li aveva letti uno scrittore famoso al quale erano piaciuti, e forse anch’io avrei potuto diventare uno scrittore importante… Ma autobiografiche e ho sempre avuto delle remore a renderle di pubblico dominio. Quando pubblichi un lavoro finisce di essere tuo e diventa di tutti».

«Questo è vero, ma bisogna pur farsi conoscere, far conoscere il proprio pensiero, la propria visione del mondo…».

«Certo, è così. Ma io ho sempre avuto come una forma di gelosia delle mie cose, dei miei pensieri, delle mie storie… Forse ho sbagliato, avrei dovuto…».

«No, papà, non sentirti in colpa. Bisogna fare ciò che si sente di fare».

«Tu sei più saggio di me, figlio mio. Ma sappi una cosa: quando io non ci sarò più, quello che non ho fatto io dovrai farlo tu. Ti affido i miei manoscritti».

Rimasi un momento a guardarlo con occhi meravigliati e labbra semiaperte.

«Per me», dissi con emozione, «per me è un grande onore… È la cosa più bella che mi potevi chiedere».

«Sì, dopo la mia morte…», disse guardando i libri che ci circondavano.

«Che venga, però, il più tardi possibile».

«Ma no tanto tardi», ribatté sorridendo, «altrimenti quando sarò pubblicato?…».

Dopo una breve pausa ricominciò a parlare.

 

 

«Ho sempre odiato la notorietà, l’essere famosi… Ho sempre preferito la riservatezza, il vivere appartato cercando di raggiungere una saggezza che non so se ho mai raggiunto…».

«La saggezza: ecco una cosa importante nella vita!», esclamai e subito aggiunsi: «Vorrei essere tanto saggio… Ma che cos’è poi la saggezza? In che cosa consiste veramente?».

«Di questo parleremo più in là. Ora mi sento un po’ stanco. Vado a buttarmi un po’sul letto».

«Allora ci vediamo più tardi».

«Sì, ma nel pomeriggio».

«D’accordo».