Amendolara-23/08/2018: Il cocchio alato del tempo, un romanzo di Salvatore La Moglie

Salvatore La Moglie

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie 

Il cocchio alato del tempo, un romanzo di Salvatore La Moglie

Qui di seguito pubblichiamo il quinto capitolo del romanzo di  Salvatore La Moglie.  Buona lettura.

 

V

«Parliamo dell’amore nella civiltà occidentale moderna, ci domandiamo se la struttura sociale della civiltà occidentale e lo spirito che ne deriva siano propizi allo sviluppo dell’amore. La risposta è negativa. (…) La gente capace d’amare, nel sistema attuale, è l’eccezione; l’amore è per necessità un fenomeno marginale nella società occidentale moderna… perché lo spirito della società basata sulla produzione è tale, che solo l’anticonformista può difendersi con efficacia contro di essa».

  1. Fromm

 

Il disadattamento, l’inettitudine in senso sveviano o l’indifferenza in senso moraviano finiscono per essere – grazie alla consapevolezza, cioè alla dolorosa presa di coscienza sulla realtà – delle forme di adattamento che ci rendono addirittura più protetti e difesi dei cosiddetti adatti alla vita. Adatti in senso darwiniano-sveviano. Paradossalmente, il debole, costruendosi la sua corazza d’acciaio, risulterebbe, alla fin fine, più forte e quindi più adatto di chi appare idoneo alla vita di tutti i giorni. A soccombere sarebbero loro, gli adatti… Ecco perché Zeno Cosini sopravvive, anche se il suo animo è amareggiato e la sua coscienza è lacerata dal dubbio su una apocalisse rigeneratrice. Il malato Zeno Cosini si rivelerà il più sano. Sopravvive al male di vivere, mentre il cognato, così idoneo alla vita e così apparentemente invidiabile, muore, soccombe. Il disadattamento cosciente aiuta a vivere. Ecco perché Moravia in una intervista su una rivista ha detto che la disperazione è vita. Per Moravia indifferenza, noia, disperazione sono sinonimi e sono anche sinonimi di inettitudine, di inadeguatezza, di insufficienza cioè di fronte alla vita e alla realtà.

Praticamente, essere coscienti che la realtà e il mondo sono quello che sono e probabilmente saranno sempre quello che sono e, allo stesso tempo, essere coscienti della propria diversità e sentirsi incapaci di poter aderire ad essi come un eroe, ecco che tutto questo ci rende più forti, ci munisce di una lorica che, stranamente, finirà per renderci meno vulnerabili.

Così, l’inettitudine, la disperazione finiscono per essere delle particolari forme di vita, modi particolari di esistenza. Moravia, in “1934”, fa dire al protagonista di essere alla ricerca della compagna adatta per poter stabilizzare la propria disperazione: rendere stabile un modo di essere nella realtà. Quella di Moravia non è la disperazione che porta al suicidio, è la disperazione: rendere stabile un modo di essere nella realtà. Quella di Moravia non è la disperazione che porta al suicidio, è la disperazione che

 

 

porta all’accettazione dolorosa della realtà, ad una forma cioè di adattamento nel disadattamento, nel disgusto, nella nausea di una vita in autentica e priva di amore e di valori veramente umani. Certo, si tratta di una forma di vita che non persuade della propria effettiva esistenza, come la definisce lo stesso Moravia nella “Noia”.

Il personaggio antieroe ha paura della vita, è un irresoluto, un abulico, un malato nel volontà, un devitalizzato, un inerte, un passivo, ecc. Stranamente, però, questo tipo umano è affetto da una disperata vitalità, cioè da una disperata voglia di vivere e di sentirsi vivo: vorrebbe essere un eroe quando sa di non esserlo: vorrebbe vivere una vita avventurosa quando sa che la sua è tutta interiore. Zeno Cosini avrebbe voluto essere come Napoleone Bonaparte, l’eroe risoluto e deciso (altro che Amleto!…) che prende la realtà di petto e la piega ai suoi desideri. I personaggi di Svevo come quelli di Pirandello che si vedono tragicamente vivere, hanno tutta una grande ansia di vivere, di fare, di agire. Sono degli infelici che – coscienti del proprio stato di insoddisfazione, della propria ansia e della propria inquietudine – vorrebbero uscire da quell’infelicità e vivere una vita diversa: uscire da una vita per viverne un’altra o altre…

«Posso?…».

La voce di zia Laura, anche se bassa, mi fece trasalire. Ero nel tempio di mio padre e stavo leggendo alcune pagine di appunti scritti di getto su Svevo, Pirandello, Moravia e altri scrittori collocabili nel clima del Decadentismo.

«Scusami, Sandro. Mi dispiace…», disse con tono compunto.

«No, zia, non preoccuparti. Mi ero così sprofondato nella lettura da non rendermi conto neppure del luogo in cui mi trovavo».

«Eh, figlio mio, tu cominci a somigliare molto a tuo padre… già gli somigli fisicamente, se poi gli somiglierai anche nello spirito… Sai, continuò, «a lui piacerebbe molto. Più di una volta mi ha detto che quando  si può lasciare questo mondo sapendo che c’è qualcuno che ti continua, che ama le cose che hai amato tu, se non come te almeno quasi come te, allora puoi anche morire felice».

«Questo sarebbe bello per chiunque», dissi e aggiunsi: «Anche a me un giorno farebbe piacere sapere che…».

«Allora dovrai sposarti, ragazzo mio», m’interruppe la zia. «Dovrai pensare a metter su famiglia…».

«Sposarmi?».

«Si, sposarti».

«Ma io, io…».

«‘Io’ cosa?».

«Ma io non ci penso neanche!…».

«Certo, ancora sei giovane, ti sei appena laureato… Posso capirlo. Ma più in là dovrai pur pensarci su seriamente. I figli», concluse con un mezzo sorriso, «si fanno in due…».

 

 

«Anche se oggi, grazie ai progressi della scienza, una donna può avere un figlio senza che vi sia un rapporto sessuale…».

«Sì, sì… le sentiamo quasi tutti i giorni queste notizie, sono all’ordine del giorno. Fecondazione artificiale, uteri in affitto, ovodonazione, clonazione e via dicendo».

«Ecco: potrei farmi clonare, così mi eviterei la noia del matrimonio…».

«Ma perché non vuoi sposarti, Sandro? Perché?».

«Ma zia!… Non si fa altro che parlare e sentire di matrimonio falliti, di migliaia di divorzi all’anno, della donna che vuol comandare a bacchetta il marito…».

«Sì, sì… è vero. Si divorzia facilmente, ci si lascia per un niente facendo pagare ai figli… Sì», continuò, «in effetti la donna di oggi non è più la donna di oggi non è più la donna di cinquant’anni fa o anche di quarant’anni fa ancora rispettosa del proprio ruolo. Oggi la donna è molto cambiata, è più coscienze dei propri diritti e vuole le cose che l’uomo ha sempre avuto…».

«La prima cosa che la donna ha avuto (e ha chiesto a partire dal ’68) è stata la parità sessuale», ribattei e subito aggiunsi: «La donna non ha mai digerito che l’uomo potesse avere più di una donna, mentre a lei avere più di un uomo costava (e forse costa ancora…) un certo epiteto…».

«È vero, Sandro, ma si tratta di un fatto di civiltà e di parità nelle opportunità che la vita può offrire. Perché l’uomo sì e la donna no? Io», continuò rabbuiandosi in viso, «ho amato un solo uomo, quando avevo più o meno la tua stessa età. Fu un amore bello, vissuto con intensità per alcuni anni… Poi, quando avevamo deciso di rendere stabile il nostro amore con il matrimonio, lui… lui fu colpito da un male incurabile che, nel giro di poco tempo, me lo portò via…».

Due grosse lacrime le uscirono subito dai suoi dolcissimi occhi.

Ci fu un lungo silenzio durante il quale la guardai con tenerezza. Mentre piangeva il suo sguardo era rivolto verso il pavimento. L’abbracciai.

«Zia, scusami… È tutta colpa mia… scusami», le dissi con tono compunto. Con un fazzolettino di carta si asciugava intanto le lacrime.

«Non è colpa tua, Sandro. Non è colpa tua…», ribatté dolcemente, quindi continuò: «Fu un amore troppo bello… Non si sarebbe più potuto ripetere…».

Parlava guardando nel vuoto. Poi si abbandonò sulla poltrona.

«E così decidesti di non amare più nessun altro e rinunciasti alla possibilità di essere felice…».

«Sì, non ne volli più sapere. Poi tuo padre si sposò e nascesti tu…».

«E diedi il colpo di grazia alla tua vita…», la interruppi con addosso un forte senso di colpa.

«No, ragazzo mio, non devi sentirti in colpa. Io avevo già rinunciato… Sarò all’antica ma sono convinta che si ama veramente una sola volta».

Dopo una brevissima pausa, riprese a parlare.

 

 

«Non devi sentirti in colpa, né mai io ti ho vissuto come la causa della mia mancata felicità (del resto, chi può dire che conoscendo un altro uomo sarei stata felice?…). Siamo stati poco fortunati io e tuo padre. Entrambi abbiamo avuto la nostra grande storia d’amore ed entrambi l’abbiamo vista concludersi tragicamente… Anche lui non ha voluto più saperne. Ad entrambi sei bastato tu: sei stato la nostra ragione di vita…».

«E invece avreste potuto rifarvi una vita…».

«Sia io che tuo padre la pensiamo allo stesso modo: o sei fortunato e felice subito o non lo sarai mai. Noi siamo stati felici per un po’ di tempo e la felicità dura poco… Specialmente quando l’amore è troppo grande: sembra che un vero amore sia tale solo se è destinato a finire con la morte… Tuo padre mi citava una volta una frase di Hemingway che recita più o meno così: quando due persone si vogliono molto bene, finisce sempre male…».

«Come Romeo e Giulietta… Amore e morte… Chissà perché gli amori più belli sono quelli impossibili», conclusi guardando la pallida luce del sole attraverso i vetri della porta-finestra.

«Sembra che sia proprio così», ribatté con volto triste. Poi riprese: «Oh Romeo, Romeo, perché sei Romeo?… In questo interrogativo retorico di Giulietta c’è tutta la consapevolezza del loro amore disperato e impossibile e la certezza che esso è destinato a finire male. Con poche parole Shakespeare è stato capace di spiegare una vita, anzi due vite…».

«Come sei profonda zietta cara, come sei profonda e sensibile… e intelligente», le dissi baciandola sulla guancia sinistra.

Ci fu una pausa. Quindi ricominciai a parlare.

«Ti confesso, zia, che io non ho ancora incontrato il grande amore. Ho conosciuto alcune ragazze ma c’è stato solo sesso e mai vero amore. Mi sono persino chiesto se oggi sia possibile la grande storia d’amore. Perché questo è un mondo troppo disumanizzato e alienato per poter generare amore. Viviamo in un’epoca così prosaica, così poco poetica, così poco sentimentale…».

«È vero, figlio mio. Questi sembrano tempi avari di sentimenti e di poesia. Tutto è mercificato e banalizzato. Non ci può essere spazio per i bei sentimenti in un mondo che corre solo verso il denaro, il successo e il piacere dei sensi».

«Io, zia, mi chiedo spesso cosa significhi la parola ‘amore’, perché mi pare che sia quella meno usata dagli uomini che stanno per affacciarsi al terzo millennio… L’uomo post-industriale», conclusi «sembra aver fatto dell’amore uno straniero su questa terra».

«Purtroppo, il verbo amare è quello più preso in giro…», ribatté e subito continuò: «Amare significa essere disposti a soffrire. Se non sei disposto a soffrire, non imbarcarti sulla nave senza destinazione dell’amore. Quando ami non ti chiedi neppure come e dove quell’amore ti porterà: ami e basta. In quel momento ti ‘perdi’, ti allontani da te stesso, esci dal tuo egoismo,

 

 

dalla tua solitudine e ti ‘trasferisci’ in un’altra vita. Dunque, amare significa anche essere disposti a ‘perdersi’, a perdere se stessi per darsi totalmente ad un’altra persona. L’amore», concluse, «o è totale o non è».

«Dunque, in generale, l’amore implica una grande disposizione dell’animo umano al bene, implica un forte sentire e anche una forte passione?».

«Sì, Sandro, l’amore è tutto questo. E del resto», aggiunse, «tu mi insegni che etimologicamente la parola ‘passione’ vuol dire sofferenza».

«E quindi avere una passione significa possibilità di sofferenza?».

«Certo, ma anche possibilità di essere felici, di vivere momenti della nostra vita unici ed irripetibili. È vero», aggiunse, «che una forte passione ci può arrecare una grande sofferenza o può persino condurre alla distruzione di noi stessi, ma cosa sarebbe l’uomo senza una passione? Tutto è passione  e senza passione non si fa niente».

«E le passioni possono essere gioia e dolore…».

«Sì, gioia e dolore», ripeté e subito aggiunse: «Tutto nella vita è gioia e dolore. se gli uomini riflettessero su questo e l’accettassero come nuda e cruda verità della vita, forse vivrebbero con meno amaro in bocca…».

In quel mentre suonò il citofono.

«Vado io», disse zia Laura.

Era il postino col suo carico di riviste e di libri che ogni mese giungevano puntuali.

«C’è carta stampata per tuo padre», disse la zia dal corridoio. Poi aggiunse: «Potresti scendere tu a ritirarla?».

«Certo, zia», risposi e scesi in fretta giù per le scale.

Giù non trovai solo il postino. Trovai anche mio padre. Faceva ritorno da una delle sue passeggiate mattutine.

Il postino ci salutò garbatamente e con molto rispetto. Una volta mi aveva detto: «Suo padre mi incute rispetto. Sembra una persona d’altri tempi…».

Una persona d’altri tempi… Tempi migliori, meno corrotti? Più autentici e più umani? Dunque, i nostri sono l’opposto di quelli di una volta, quando la gente era più semplice, più genuina, più leale, più solidale, più umana e più vera? E allora è proprio vero che più la civiltà avanza più l’uomo indietreggia? Era questo uno dei problemi fondamentali di cui discutevo con mio padre, il mio Grande Vecchio. La conclusione era più o meno questa: in un mondo disumanizzato come il nostro, in cui l’assuefazione al male costituisce una nuova forma di barbarie, non vi può essere spazio per i sentimenti più nobili e per gli ideali e i valori più veri. La cosa più grave è che l’uomo è incapace di ribellarsi a questo stato di cose e accetta e subisce tutto passivamente. Sembra accontentarsi della televisione, del computer, del telefonino e delle ferie estive sotto un ombrellone idiota, senza preoccuparsi che qualcosa di buono accada.

«Verrà un altro luglio, e ci guarderemo in viso».

 

 

Non è così che scrive Pratolini nella «Costanza della ragione»?