Amendolara-21/10/2018: Il cocchio alato del tempo, un romanzo di Salvatore La Moglie

Salvatore La Moglie

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie 

Il cocchio alato del tempo, un romanzo di Salvatore La Moglie

Qui di seguito pubblichiamo il settimo capitolo del romanzo di  Salvatore La Moglie.  Buona lettura.

VII

«La lettura costeggia tutto il percorso della mia vita e mi è di conforto dovunque. Mi consola nella vecchiaia e nella solitudine. Rende più leggero il peso di un ozio noioso e mi libera in qualunque momento delle compagnie fastidiose. Se il dolore non è eccessivo o troppo acuto lo attenua. Spesso per distogliermi da un pensiero sgradevole ricorro ai libri: finiscono facilmente per assorbire tutta la mia attenzione e mi sottraggono ad esso».

Montaigne

 

«Venuta la sera… entro nel mio scrittoio… entro nelle antique corti degli antiqui uomini… et non sento per 4 hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte, tucto mi trasferisco in loro».

Machiavelli

 

«Da tempi immemorabili il problema precipuo dell’uomo è stato il bisogno di spiritualizzare l’esistenza umana, di elevarla su uno speciale piano d’immoralità, al di sopra dei cicli della vita e della morte che caratterizzano tutti gli altri organismi viventi».

  1. Becker

 

 

 

 

 

     «Papà, che cos’è per te la letteratura?». Eravamo seduti nella stanza-libro. Mi guardò fissamente. Quindi incominciò a parlare. «La letteratura, come tutta l’arte,è la confessione che la vita non basta. Così la definisce un grande di questo secolo: Fernando Pessoa». «Il poeta è un fingitore che finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente…».

     «Sì, Sandro, il grande Pessoa, l’inquietante Pessoa…», ribatté e subito continuò:     

    «È vero, l’arte spesso è frutto della nostra insoddisfazione esistenziale, della nostra insoddisfazione esistenziale, della nostra infelicità e la vita può bastare solo alle bestie… Se non sbaglio, è stato Beppe Fenoglio a dire che la felicità non fa romanzo, mentre Sartre ritiene che la letteratura nasca dal risentimento. E basterebbe pensare a Dante e alla ‘Divina Commedia’… Tutto questo è vero: la felicità, di solito, non porta sulla via dell’arte, e su questa difficile via sono portati piuttosto gli animi infelici, non tutti gli insoddisfatti scrivono o dipingono o scolpiscono… Non tutti sono Dante, Petrarca, Leopardi…».

«È vero», dissi.

«Sì, è così. E allora vuol dire che per la letteratura, per l’arte di nasce e ne nasce solo un certo numero. E per questi esse sono come una seconda natura».

«Ora ritorniamo alla domanda iniziale…».

«Che cos’è per me la letteratura…», disse e, dopo una breve pausa riprese: «La letteratura per me è tante cose. È innanzitutto una poetica, cioè una visione globale del mondo. La vita è concepita come letteratura e così finisce per diventare la vita stessa. In questo momento mi viene in mente una frase di Gesualdo Bufalino: «Se non esistesse la letteratura, morirei»… La letteratura è, dunque, una particolare forma di vita e fare letteratura costituisce un particolare forma di conoscenza. Giudico la creazione letteraria tra le più affascinanti avventure che a un uomo siano date di vivere. Una delle avventure più piacevoli e più straordinarie della nostra mente… Un viaggio meraviglioso in cui realtà e fantasia si confondono e in cui, anzi, tutto viene ricreato, reinventato. Una volta il poeta, colui che aveva ricevuto il dono di scrivere era assimilato alla divinità: il poeta creare come un dio. E, in verità, lo scrittore crea realtà, uomini e situazioni rendendoli verosimili. Al lettore sembrerà di vederle sotto gli occhi, di toccarle con mano le cose che legge. Potere della parola (ti ricordi? Ne parlammo…), potere del pensiero. L’uomo, dice Pascal, non è che una debole canna ma una canna che pensa… Potere della fantasia. La fantasia governa il mondo, dice Napoleone. E potere della memoria. La memoria è il ricettacolo e l’astuccio della scienza, dice a sua volta Montagne…».

Si fermò. Dopo un po’ disse: «Sandro, mi prenderesti un bicchiere d’acqua, per piacere?».

Mi alzai e andai in cucina. Riempii il bicchiere che piaceva a lui, quello con l’impugnatura. Quindi ritornai da lui.

«Che bel bicchierone!», esclamò. Quindi bevve lentamente fino a svuotarlo.

«Avevo la gola secca», disse.

Dopo una pausa ricominciò a parlare.

«La letteratura per me non rappresenta soltanto un modo, una tecnica, uno strumento per analizzare e quindi conoscere la realtà, la società e gli uomini ma anche un efficace strumento di autoanalisi, un modo particolare di conoscere noi stessi, il nostro mondo interiore…».

«Da quando Svevo», lo interruppi, «ha scritto la ‘Coscienza di Zeno’ siamo più consapevoli di questo».

«Sì, Sandro, ma credo che la letteratura sia sempre stata una maniera speciale di conoscere se stessi, di scavare nella propria personalità per scoprire e rivelare al fine di liberarci da certi pesi…  L a  l e t t e r a t u r a  è

 

 

terapeutica e liberatoria, un rimedio ai mali umani direbbe Menandro. Essa ci alleggerisce la vita e ci rende meno penoso il male di vivere… e anche quello di morire… La letteratura», continuò, «ci consente di fuggire, di viaggiare al di là delle colonne d’Ercole… Essa ci consente di vivere su di un piano più alto, ci consente una superiore visione delle cose. Siamo nel mondo, eppure essa ci consente di fuggire dal mondo… La letteratura ci offre un’alternativa di vita; ci fa viaggiare lontano oltre i confini dell’universo. La letteratura è vita e sogno, impegno ed evasione, realtà e utopia. La letteratura può essere reazionaria e rivoluzionaria, può essere conservatrice e può cambiare il mondo».

«Pensa: il mondo cambiato dalla letteratura: come sarebbe bello!», esclamai. Dentro di me vi era una gioia che non saprei descrivere.

«Sì, sarebbe molto bello. Ma questa è solo un’utopia…».

«Sì, una bella utopia».

Ci fu una breve pausa. Poi mio padre riprese la parola.

«La letteratura… la lettura, lo scrivere… ci consentono di uscire dalla banalità quotidiana, dalla prosa bassa e mediocre della vita di ogni giorno e ci fanno vivere in una dimensione poetica in un mondo orribilmente impoetico. Ci consentono quella che io chiamo la ‘quinta dimensione’…».

«La quinta dimensione…», ripetei e aggiunsi «Mi piace questa definizione. Mi piace molto…». Quindi proseguii: «Attraverso la letteratura noi possiamo dunque allontanarci dal giorno che passa e possiamo salire sulla ‘navicella del nostro ingegno’, dove alzeremo le vele ‘per correre migliore acque’?».

«Bravo, Sandro, proprio così!», disse con volto sorridente, contento della mai conclusione. Subito aggiunse: «Vedo che Dante sta entrando pure nel tuo cuore».

«Sì, sta entrando nel mio cuore, anzi è già entrato… E pensare che alle scuole superiori l’odiavo tanto…».

«Non era colpa tua. La maggior parte degli insegnanti ha sempre fatto odiare Dante. E Dante, come disse una volta per radio Mario Tobino, è buono come il porco».

«Buono come il porco…».

«Sì, perché del porco non si butta niente, è tutto buono. E così è per Dante».

«Dante resta un poeta ancora insuperato, non è così?».

«Sì Sandro. Dante è il più grande di tutti. Di tutti! E non morirà mai».

«Tu me lo citi sempre, ricordi ancora interi passi in modo perfetto…».

«Sì ancora li ricordo bene».

«Peccato che non tutti conoscano Dante, un uomo così grande…».

«Una personalità oserei dire unica sia come poeta che come uomo».

«Un uomo», ribattei, «che soffrì tanto per colpa della malvagità e della stupidità dei suoi simili…».

«Simili solo fisicamente…».

 

 

«Certo, solo fisicamente».

Ci fu una breve pausa. A rompere il silenzio fu mio padre.

«Leggendo ‘lo sacrato poema a cui pose mano e cielo e terra’ ti puoi accorgere di che pasta siano fatti gli uomini e come, sostanzialmente, quelli di oggi siano come quelli di prima, se non peggiori… Ci sono tutti i tipi umani, tutti i vizi e tutte le virtù. Basterebbe leggere solo questa grande commedia umana per farsi un’idea esauriente di quell’essere chiamato uomo».

«Dovrò leggere più completamente e più approfonditamente questo libro».

«Un libro, Sandro, con il quale Dante ha compiuto un viaggio oltre le colonne d’Ercole, oltre i limiti consentiti alla mente umana. Un libro che è sì potuto nascere dal risentimento e dalla sofferenza ma che si presenta subito, sin dalle prime pagine, come il libro che vuole salvare il mondo e gli uomini che lo abitano. Un libro-visione, un libro-profezia, un libro-sogno, un libro- utopia…».

«Quello di cui si parlava prima… Il mondo salvato dalla letteratura…».

«Sì, Sandro, l’utopia…», disse e subito continuò: «Su Dante è meglio smettere perché non si finirebbe mai. Piuttosto, leggilo tutto e poi se ne riparla».

Ci fu una lunga pausa durante la quale ciascuno meditava sulle cose dette. Io soprattutto.

Mi assunsi il compito di rompere il silenzio.

«Papà, te la posso dire una cosa?».

«Certo, ragazzo mio. Tutto quello che vuoi».

«Sai, a volte mi sembra che tu abbia un cuore da bambino. Sei così puro, così innocente e sensibile…».

«I poeti sono tutti ‘bambini’», rispose con un mezzo sorriso sulle labbra. Quindi aggiunse: «E non bisogna vergognarsi di essere un ‘bambino’, in un mondo così stupidamente ‘adulto’. Avere un cuore da bambino non è una vergogna. È un onore. E sai chi l’ha detto questo?».

«Non saprei…».

«Ernest Hemingway. Un uomo così apparentemente forte, virile, vincente, ‘adatto’…».

«Bisogna essere fanciulli, dunque».

«Avere un cuore da fanciullo ci aiuta a sognare, a superare la realtà. Avere la mente da adulto ci aiuta a stare coi piedi per terra e ad affrontare meglio la realtà. L’uomo», continuò, «deve essere capace di sintesi: deve saper essere un misto di cuore e di mente se vuole vivere la vita nel mondo migliore possibile. La mente deve saper frenare il cuore quando va frenato,  e il cuore deve saper frenare la mente, impedendole di essere ottusa e sciocca».

«Beato chi trova un equilibrio tra impulso e ragione!…».

«Bravo, vedo che Shakespeare ti piace…».

 

 

«Moltissimo».

«Vedi, Sandro», disse dopo una brevissima pausa, «uno dei problemi di fondo nella nostra esistenza è la ricerca di un equilibrio stabile tra i vari sentimenti e le varie spinte, le varie molle che sono dentro il nostro animo. Tutto sta nel trovare il baricentro…».

«Il baricentro?…».

«Sì, Sandro. Il punto centrale dell’equilibrio. Se si riesce a trovare quello», concluse, «si riesce a trovare ciò che dovrebbe praticamente coincidere con la saggezza che, nella vita pratica, dovrebbe consistere in un misto di acceleratore e di freno: due pedali tenuti a bada contemporaneamente».

«Sì eviterebbero parecchie cantonate, non è così?».

«Sì, Sandro».

«Ma quando per esempio si ama», obiettai, «come si fa a far funzionare questo meccanismo solo apparentemente semplice ma nella pratica così complicato? Come si fa a perdere e a mantenere simultaneamente il controllo di sé?».

«In amore è difficile, lo so… più che in ogni altra cosa… E mettere il piede sul pedale del freno perché noi abbiamo dei dubbi o perché tra noi e la persona che amiamo interferiscono i pregiudizi sociali o i nostri familiari, ecco che allora l’amore diventa difficile, si trasforma in una grande sofferenza. Io ne so qualcosa…», concluse con tono  malinconico, guardando nel vuoto.

Lo guardai fissamente. Anche lui mi guardò. Capì che volevo sapere qualcosa della sua vita schiva e riservata fino alla segretezza.

«L’amore è sofferenza, ragazzo mio, e anche quando cerchi di usare  quel meccanismo non puoi fare a meno di soffrire. Cuore e mente, sentimento e ragione lottano tra di loro. questo accade in generale; nella fase dell’innamoramento soprattutto. E si verifica in modo ancora più lacerante quando la storia d’amore che stai vivendo è una storia bella per te ma non per chi ti circonda o per l’ambiente in cui vivi. L’amore è fatto di spasmi e di piccole sofferenze già quando si vive una storia ‘normale’, figuriamoci quando se ne vive una ritenuta (dagli altri e dalle convenzioni sociali) ‘impossibile’… Allora è davvero la morte, perché nessuno ti capisce fuorché il tuo povero cuore, e ti senti solo con te stesso. Ed è così», concluse, «che l’amore finisce sempre per essere un po’ amaro… Io, quando conobbi tua madre, avevo ben venti anni più di lei… Poteva essere quasi mia figlia, capisci?».

«Sì», risposi brevemente. Subito riprese la parola.

«Era stata una delle mie alunne e finì che ci innamorammo: lei dell’uomo maturo, di bell’aspetto e forse anche intelligente…; io della ragazza bella, occhi azzurri e capelli neri, ma anche sveglia e con tanta voglia di imparare. Alla fine degli studi, prendemmo a frequentarci. In classe era stata una vera sofferenza, un tormento quasi quotidiano. Ma anche

 

 

fuori non fu di meno… Fuori c’era la gente e c’erano le leggi e i pregiudizi sociali. E i pregiudizi sono duri a morire: crollano le piramidi, ma i pregiudizi restano…».

«Aveste vita molto difficile…».

«Sì, Sandro. La gente e anche i miei parenti non riuscivano a perdonare l’amore tra un quarantenne e una ventenne. Noi ci amavamo moltissimo e spesso ci incontravamo di nascosto per sfuggire chi non riusciva a capirci. Anche tua zia, i primi tempi, non riusciva a capire, poi, però, cambiò atteggiamento e cercò di favorire quell’amore disperato… Intanto gli anni passavano inesorabilmente e nel giro di poco tempo i tuoi nonni morirono. Restammo soli e la zia, anch’essa poi con la sua pena d’amore chiusa nel suo cuore…».

«Sì, lo so…».

«Lo sai?…».

«Sì, me ne ha parlato».

«Lei, come me, è stata sempre gelosa della sua vita privata. Se ti ha raccontata la sua storia è perché ti vuole molto bene. La zia», concluse con gli occhi lucidi, «ti vuole bene come un figlio. Per lei sei suo figlio…».

Ero commosso. Come avrei potuto non esserlo?

Cercai di sciogliere il nodo alla gola e brevemente domandai:

«E poi?».

«E poi finì sull’altare… Dopo quasi dieci anni di sofferenza… Ma  la vita mi stava riservando il peggio…».

Aveva gli occhi pieni di lacrime. Tirò dalla tasca un fazzoletto di carta e le asciugò.

«Scusami, Sandro, per questo momento di debolezza…», disse con voce fioca.

«papà, ma cosa dici? Sei grande, sei forte!…», dissi alzandomi dalla poltrona. Lo abbracciai. Avevo un nodo alla gola. Poi lo sciolsi dicendo:

«Non ti cambierei con nessun altro padre al mondo. Questo lo devi sapere».

Dopo un po’ ci riaccomodammo sulle nostre poltrone. Fu lui a prendere la parola.

«La vita non è stata molto generosa con me… Ho evitato la Seconda Guerra Mondiale ma non ho potuto evitare di sapere che il mio amato fratello (lo zio Sandro) vi aveva lasciato la sua giovane vita… Poi fu la volta di un altro caro fratello nei primi anni Cinquanta, e anche lui piuttosto giovane. Poi i miei genitori a poca distanza di tempo e… e infine la donna che amavo… Non so ancora quando, ma so che adesso è il mio turno…».

«Papà», dissi con volto turbato, «di questo non devi neppure parlare. Non sei così vecchio e io… e io vorrei che tu da questa terra non te ne andassi mai…».

«Figlio mio, tu parli con il cuore. Parli da figlio che vuole bene… ma la morte prima o poi dovrà pur venire…».

«La morte… Che brutta parola!».

 

 

«La morte è una necessità, non è altro che una necessità. Si deve morire. pensa», aggiunse, «se tutti quelli che sono nati da che mondo è mondo non fossero morti…: la terra sarebbe un formicaio, non ce la farebbe a contenere quelli di prima, quelli di adesso e quelli di dopo… Non ce la farebbe».

«E dunque bisogna morire…».

«Sì».

«Ma allora che senso ha avuto nascere, venire al mondo?».

«Forse nessun senso. Siamo noi che, una volta su questo mondo, dobbiamo dare un senso alla nostra vita se non vogliamo morire due volte…».

«La morte dev’essere qualcosa di terribile…», dissi col tono di chi prova ribrezzo.

«La morte», disse con la sua voce di vecchio saggio, «è il contrario della vita. Non appena nasciamo, sappiamo che moriremo e noi siamo gli unici animali ad avere questo privilegio… Una volta in vita, apprendiamo le nozioni di tempo, di nulla e di eternità e, legate a queste, anche quelle di passato, presente e futuro. Come pure quella di Storia la quale, vista in termini di morte, potrebbe essere definita come il più grande cimitero del mondo…».

Si fermò. Io riflettevo su quello che aveva detto finora. Poi riprese a parlare.

«Ma la morte, come tante altre cose di questo mondo, è relativa. C’è chi non vorrebbe morire mai e c’è chi desidera la morte fino a giungere al suicidio; c’è chi muore vecchissimo e chi giovanissimo; c’è chi vive ma è come se fosse morto e c’è chi dopo essere morto vive ancora per millenni… Vedi», continuò, «da un secolo a questa parte… sarebbe meglio dire mai come da un secolo a questa parte, tutti i valori e i concetti fondamentali della vita sembrano aver perso ogni assolutezza e tutto è diventato relativo. Terribilmente relativo… La verità, la libertà, la giustizia, l’amore, la fede… tutto è relativo. Dio stesso non è un Dio assoluto ma da secoli ormai è un Dio relativo. C’è il Dio dei cattolici e c’è il Dio dei musulmani, come c’è quello dei protestanti e via dicendo. Anche credere è diventato difficile in mezzo a tanto relativismo. Persino la conoscenza è relativa: non conosciamo che una minima parte, anche di noi stessi. Tutto è relativo e soggettivo, anche la bellezza e la bruttezza. Così come la vita e la morte. Ciascuno di noi ha la sua concezione della vita e della morte. Per me la vita può essere vissuta non vedendo all’orizzonte che un solitario e materialistico andare verso la morte e il nulla, mentre per un altro la morte può essere vissuta non vedendo all’orizzonte che il gioioso andare insieme a tanti altri verso una nuova vita, la vera vita, quella spirituale…».

«L’ateo e il credente…».

«Sì, il materialista e lo spiritualista. Le due grandi concezioni del mondo… Se si potessero conciliare», concluse, «forse riusciremmo a vivere in modo più armonico, almeno con noi stessi…».

 

 

Mentre parlava teneva in mano una penna che, ogni tanto, agitava.

«Ma chi è che vive, diciamo così, meglio: il materialista o lo spiritualista?».

«Indubbiamente, per chi crede in un dio la vita, con tutte le sue storture, è accettata e vissuta con la rassegnazione di chi crede, appunto, che un dio buono e misericordioso ha già stabilito il suo imperscrutabile piano per lui come per tutta l’umanità. Anche le cose più crudeli che possano capitargli sono interpretate alla luce di questa visione provvidenzialistica. Pensa», concluse, «ai ‘Promessi Sposi’ e potrai capire meglio il tutto».

«Per il materialista, invece…».

«Per il materialista, per colui che ha una visione nuda e cruda della realtà tanto da sfociare nell’ateismo, la vita è certamente più dura da passare. È due volte più difficile. Intanto, il credente – oltre alla rassegnazione su questa terra – ha anche la fede e la speranza che, una volta morto, lo attende una nuova vita, anzi la vera vita. Anche se soffre su questa terra, sarà poi premiato in eterno nell’aldilà dove lo attende il Padre…».

«Invece», lo interruppi, «l’ateo vive senza, come definirli?… senza questi ‘valori aggiunti’…».

«Sì, Sandro. Proprio così», ribatté e continuò: «Il non credente è privo di questi puntelli. A sorreggerlo è soltanto la sua visione realistica, pratica delle cose; una visione disincantata e scettica. Nel credente prevale la fede, nell’ateo il dubbio. Il dubbio che, se portato alle estreme conseguenze, ti fa dubitare anche del dubbio stesso…».

«Sembrerebbe che il credente dovrebbe essere un uomo più felice del materialista ateo, o sbaglio?».

«In effetti, dovrebbe essere così. L’ateo è meno felice perché soffre senza alcuna fede». Egli, però, aggiunse subito, «non è schiavo di nessun dio e questo lo fa sentire più libero e più padrone di sé. Ma la libertà è forse una pura illusione…».

«Vuoi dire che, in effetti, noi non siamo mai veramente liberi e che non abbiamo nessun potere su di noi?», dissi interrompendolo subito. La libertà è uno di quegli argomenti sui quali occorrerebbe riflettere in modo serio e approfondito.

«La libertà è avere un potere assoluto su se stessi. Così la pensava Montagne e io sono d’accordo con lui», replicò e aggiunse: «Credo, però, che nessuno sia in grado di poter affermare questa libertà assoluta. Nemmeno un dio: anche gli déi hanno i loro condizionamenti… Il concetto di libertà enunciato da Montaigne nella realtà non esiste, è solo auspicabile. Nella realtà è vero soltanto che abbiamo più di un condizionamento…».

«E dunque, possiamo solo illuderci di essere liberi…».

«Sì, Sandro. Basti pensare soltanto al fatto di essere inseriti nell’ingranaggio, nel meccanismo spesso perverso della società con le sue leggi non sempre giuste e il dilemma è sciolto».

«Dunque», insistetti, «la libertà non esiste?».

 

 

«Io sono convinto che siamo tutti a ‘sovranità limitata’ e che solo raramente riusciamo ad essere pienamente liberi. Anche colui che riesce ad avere un potere enorme non è mai completamente libero. Del resto», concluse, anche la nozione di libertà e relativa… Prendere o lasciare…».

«Prendere o lasciare…» ripetei e subito aggiunsi: «La vita è davvero curiosa…».

«Sì, Sandro. Nella vita è tutto un prendere o lasciare. E bisogna avere tanta pazienza. Occorre essere un po’ accorti e cercare di prendere ciò che c’è di meglio e di buono e lasciare ciò che c’è di peggio e di cattivo». Si fermò, poi riprese a parlare.

«Tuo nonno mi diceva spesso: ‘figlio mio, la vita è difficile da passare e beato chi la sa passare’. Parole di chi ha già vissuto e sa cosa la vita sia».

«Parlavate spesso della vita, con il nonno?».

«Sì, e i suoi consigli, i suoi suggerimenti sono stati per me la più grande eredità», rispose e continuò: «La più grande eredità che un uomo possa lasciare a chi ha messo al mondo è il proprio modello di vita  vissuta secondo i valori della rettitudine, dell’onestà, della bontà, della lealtà, della giustizia e della verità».

«Praticamente, un modello di vita cristiano…».

«Sì, Sandro, ma non occorre essere cristiani o musulmani o che so altro per essere in un certo modo. Anche un ateo può rivelarsi un buon cristiano, più del cristiano stesso. Ne ho conosciuti tanti di cristiani professanti, quelli che vanno sempre in chiesa… eppure com’erano falsi e malvagi, figlio mio. Com’erano così poco cristiani… D’altronde», concluse, «la storia ci insegna che la Chiesa stessa è stata così poco cristiana…».

«Basterebbe pensare all’Inquisizione…».

«Sì, e a tante altre cose che lo stesso Papa ha condannato. Detto questo, però, restano incontestabili alcuni meriti storici e culturali della Chiesa nei secoli».

Dopo una brevissima pausa presi la parola.

«Il pregiudizio sociale di derivazione religiosa (per restare in tema di ateismo…) vuole, tuttavia, che l’ateo sia un malvagio, proprio in quanto un senza-dio».

«Hai detto bene: il pregiudizio! Il pregiudizio viene anche usato a scopo ideologico-politico. Pensa che in Italia è stato usato (evito di andare più indietro negli anni…) in senso anticomunista dal secondo dopo-guerra fino, praticamente, ai giorni nostri. Ancora durante le elezioni politiche del 1976, la Chiesa e i democristiani continuavano a dire nei loro comizi che i comunisti mangiavano i preti e i bambini…».

«L’ateismo usato come strumento di lotta politica, per il potere!… E questo nell’Italia di poco più di vent’anni fa!…», esclamai con volto e tono stupefatti.

 

 

«Il potere userà sempre il pregiudizio perché confida nell’ignoranza e nelle paure delle masse. Il pregiudizio», concluse, «aiuta il potere a perpetuarsi».

«Il potere!», esclamai e subito aggiunsi: «Tiberio, che di potere se ne intendeva, diceva: ‘Voi non sapete qual mostro sia il potere’… Dev’essere terribile il potere e anche averne tanto…».

«Come pure averne poco o niente… È rimasta famosa la massima di Giulio Andreotti, cioè di uno che ne ha avuto tanto: ‘Il potere logora chi non ce l’ha’. Ed è vero…».

«Allora, che fare? Cos’è giusto: averne tanto, poco o niente?».

«Ti rispondo con una frase del grande Goethe: beato colui che si trova nella posizione di non dover né ubbidire né comandare…».

«E già… Ma come si fa ad essere in questa condizione? Una condizione quasi da dio…».

«Probabilmente Goethe invidiava Dio», ribatté e aggiunse: «Il buon Dio che, dall’alto dei cieli, può sorridere vedendo come quaggiù ci barcameniamo…».

«Dio: ecco il problema!…».

«Dopo migliaia di anni di civiltà, gli uomini hanno tuttora il problema di Dio e chissà per quanto tempo ancora…».

«Come te lo spieghi?», domandai cercando di prevedere la risposta.

«Nonostante il cammino che ha fatto», incominciò, «l’uomo non sa ancora liberarsi dalla tutela di un dio. È come un bambino che ha bisogno di essere tenuto per mano, come se non sapesse camminare con le proprie gambe… L’uomo ha bisogno di Dio in quanto non sa spiegarsi razionalmente certe cose, certi aspetti un po’ misteriosi della sua esistenza. Forse», concluse, «Dio è il nostro bisogno di giustizia e di verità che non riusciamo a vedere soddisfatto su questa terra (e infatti gli uomini di chiesa sostengono che ci rifaremo di tutto nell’aldilà…). Forse la religione è un bisogno psicologico e Dio uno stato d’animo. Spesso penso a Marx (che ha liquidato la religione come l’oppio dei popoli) e penso a Dostoeskij (che per tutta la vita è stato tormentato dal problema di Dio)…».

«Proprio poco tempo fa», lo interruppi inopportunamente, «mi è capitato di leggere una frase di Beaudelaire su Dio, che mi è molto piaciuta. Dio è il solo essere che per regnare non ha bisogno neppure di esistere…».

«Beaudelaire è stato un grande dissacratore. A modo suo, un rivoluzionario. Basti pensare», concluse, «a quello che fece nella poesia…».

Ci fu un lungo silenzio. Quindi presi la parola.

«Papà, ho incominciato a leggere la Bibbia, ti dispiace se…».

«Ma cosa dici, Sandro?…», m’interruppe subito. «Tu devi leggerla», aggiunse sottolineando «devi». Quindi continuò: «Anch’io ho letto questo grande libro… Vedi, ragazzo mio, un uomo di cultura, un uomo intelligente non deve avere pregiudizi verso ciò che non appartiene al suo sistema di idee. Egli deve essere aperto a tutte le posizioni culturali o ideologiche, deve

 

 

leggere di tutto cercando di capire e cercando di valutare attentamente con giudizio, intelligenza, onestà e obiettività. Ricordati», concluse, «che da un libro c’è sempre qualcosa da apprendere, chiunque l’abbia scritto e da qualsiasi parte ideologica o culturale esso provenga».

«Papà», dissi guardandolo con ammirazione, «io non avrò mai la tua intelligenza…».

«Io, alla tua età», disse sorridendo e alzandosi dalla sua amata sedia,

«non ero mica intelligente come adesso (posto che ora lo sia)…».

Si avvicinò a me e mi diede un buffetto sulla guancia destra. Sorrisi anch’io. Poi gli domandai: «Un uomo cosa deve fare o non fare per potersi definire intelligente?».

«Deve dubitare di tutto ma anche del suo stesso dubbio; deve saper parlare e tacere al momento giusto; deve sempre pensare con la propria testa, ma non trascurare consigli e suggerimenti; deve essere libero da pregiudizi e da superstizioni; deve sapere che esiste la causa ma anche il caso; non deve mai dare per definitivamente acquista una qualsiasi cosa e mai nulla per scontato perché le cose della vita sono relative, instabili e mutevoli, soggette al caso e all’imprevedibile. Un uomo intelligente è tutte queste cose e anche altro, ma soprattutto deve essere umile e semplice nella vita e grande nel pensare. Porto sempre con me», aggiunse concludendo,

«un pensiero del poeta William Wordsworth: vivere con semplicità e pensare con grandezza».

«Papà, voglio imparare ad essere un uomo intelligente. Sarò un caso isolato di questi tempi, ma non voglio incamminarmi su vie già troppo battute».

Mi abbracciò commosso. Poi, con gli occhi lucidi, disse: «Sei un  ragazzo prezioso».