Amendolara-29/03/2019: Un racconto di Salvatore La Moglie: I campanelli d’oro

Un racconto di Salvatore La Moglie: I campanelli d’oro

Qui di seguito proponiamo la lettura del racconto  I campanelli d’oro più volte premiato e che, il 16 marzo, ha conquistato il primo posto al Premio Il Canto delle Muse  a Bellizzi (SA) per la Sezione Narrativa breve. Nel racconto vengono rivissute alcune scene di vita agreste tipiche della civiltà contadina, i cui valori sono ormai perduti per sempre. La redazione de La Palestra vi augura buona lettura.

Salvatore La Moglie

  

   Ogni anno, al mio paese, dopo la raccolta dell’uva, si aspettava con molta gioia  e anche con tanta ansia che aprissero i trappiti (così chiamiamo nel nostro dialetto i frantoi) per portarvi le olive a vendere o a macinare. L’ansia  consisteva nell’ignorare che tipo di annata sarebbe stata a livello di guadagno monetario. L’incognita era sempre il prezzo delle olive più che il bello o il cattivo tempo, perché i contadini lo sapevano bene che le olive si raccolgono anche con la pioggia e il vento.

   La  mia – come tante altre – era una  numerosa famiglia contadina che, per potersi rendere economicamente autosufficiente, impegnava tutta se stessa: produceva e consumava tutto quello che ricavava  dal proprio podere. La famiglia contadina era anche questo: produrre beni per poter barattare i prodotti che, con i pochi soldi che circolavano, non era possibile comprare. Fino alla fine degli anni ’60, e anche un po’ più in là, dalle mie parti si andò avanti così. Allora il mezzo di locomozione più diffuso era l’asino e, per chi poteva permetterselo, il mulo o il cavallo. Pochissimi erano quelli che possedevano un trattore con rimorchio, un motocarro o un’automobile.

   Tutte le mattine mio padre e mia madre si alzavano di buonora e, preparata l’asina, si avviavano verso la campagna che distava dal paese quattro-cinque chilometri.

   Io e i miei fratelli andavamo a scuola: le mie due sorelle alle medie, io e mio fratello alle elementari. Mio padre ci teneva molto a farci studiare, affinché noi avessimo potuto avere un futuro migliore. Lui non aveva potuto fare più della quarta elementare e ne aveva sofferto tantissimo perché amava molto i libri (ne aveva comprati alcuni) e gli piaceva molto leggere. Conosceva parecchie terzine della Divina Commedia a memoria e ogni tanto ce le declamava spiegandone il significato.

   La domenica e quando non si andava a scuola per qualche festività, anche noi ragazzi ci accompagnavamo ai nostri genitori e si partiva: di buon grado loro, e malvolentieri noi. Dico “malvolentieri” perché la raccolta delle olive non era (e anche oggi non è) proprio bella: ti stancavi da morire e, alla fine della giornata, ti ritrovavi con le mani screpolate e anche ferite per il continuo sfregamento con le foglie e i rami… Eppure le olive (i miei genitori ne erano pienamente coscienti) erano una vera ricchezza: si potevano vendere e farci un po’ di soldi; si potevano molire per fare l’olio che durava un anno o anche due; si potevano conservare nelle giare o anche in altri contenitori per consumarle durante tutto l’anno: intere, schiacciate o anche secche…

   Per noi ragazzi, però, la raccolta delle olive era vissuta come una forma di schiavitù, anche perché di soldi se ne vedevano pochi.

   Quando si partiva per andare in campagna, era una vera processione di asini e di uomini. Chi a piedi e chi in groppa. Qualcuno si attaccava alla coda di uno degli animali e procedeva secondo il ritmo imposto dalla bestia. Capitava, però, che quel vezzo di attaccarsi alla coda poteva anche andargli male, perché l’animale, ogni tanto, scalciava e – come vuole natura – defecava… Quando questo accadeva, era un ridere fragoroso con i commenti più disparati…

   La gente era povera, ma felice. O meglio, bastava poco per renderla felice.

   Ricordo che la nostra asina era letteralmente terrorizzata dalla voce spronante – ah!.. ah!..- di zio Giacinto, un vecchietto di piccola statura e alquanto magro che andava quasi tutti i giorni in campagna con i miei genitori e che, con noi ragazzi, faceva da caporale.

   Zio Giacinto – che chiamavamo così, secondo l’uso del paese – era per noi quasi come uno della famiglia. Era stato grande amico del nonno paterno, del  quale parlava con grande ammirazione. «Grand’uomo», diceva rivolgendosi a noi. «Oggi non ci sono più uomini come quelli…». Mio nonno lo aveva battezzato e, quindi, c’era il comparatico, quello che dalle mie parti si chiama il “San Giovanni”.

   Con la sua coppola sulle ventitré, zio Giacinto camminava sempre a piedi lungo il tortuoso e impervio tragitto che conduceva in campagna. Non voleva mai mettersi sull’asina. «Camminare», diceva, «fa bene alla salute». Fumava la sua sigaretta fatta di tabacco avvolto in una sottilissima cartina (la sigaretta dei poveri!..) e, dopo aver fumacchiato, tirava dalla tasca della giacca un pezzetto di pane al quale univa oggi una cipolla e domani delle olive o dei fichi secchi.

   Di tanto in tanto, prendeva a parlare e la sua robusta voce metteva un’istintiva paura alla povera asina che, pertanto, accelerava il passo per evitare che zio Giacinto – com’era solito fare – le appioppasse qualche sonora pacca sulla groppa o la punzecchiasse con qualche pezzo di legno appuntito. Era un uomo un po’ rude ma, in fondo in fondo, era anche molto buono e generoso.

   Una volta in campagna, l’asina ritrovava la sua pace legata al tronco del fico d’India: mio padre le portava un bel mucchio di fieno che essa divorava lentamente ma con grande appetito. Quindi si prendevano le scale, le tende, i sacchi e i secchi e si andava sotto l’ulivo. Prima di stendere le tende, si raccoglievano le olive che erano cadute nei giorni precedenti o la notte prima. Mia madre era velocissima e riempiva il suo secchio da dieci chili quando noi non avevamo raccolto neppure la metà… Il più lento era mio fratello. Zio Giacinto – che seguiva tutti noi con attenzione da tedesco – si divertiva a prenderlo in giro: «Ehi, la sai una cosa? Sei tanto veloce che mi fai annuvolare gli occhi!..» E subito dopo aggiungeva minaccioso: «Cerca di muoverti, se no qui ti faccio stare fino a stanotte!..».

   Se capitava di lasciar dietro di noi delle olive, zio Giacinto ci redarguiva da far paura. I suoi occhi diventavano rossi per l’ira e il suo volto giallo e verde per la tensione. Munito com’era di una frusta d’ulivo, ci faceva dono di qualche colpetto sulle anche o sulla schiena per dirci che non avevamo raccolto scrupolosamente.

   Mio padre – che osservava la scena con un leggero sorriso – quando lo vedeva con gli occhi infuocati, si metteva a recitare la terzina dantesca in cui si descrive Caronte che batte gli ignavi a colpi di remo:

                               

Caron demonio, con occhi di bragia

loro accennando, tutti li raccoglie;

batte col remo qualunque s’adagia.

 

   Zio Giacinto, che non capiva il significato di quelle parole, si crucciava un po’ e diceva a mio padre: «Compare Vincè, cerca di parlare come parliamo dalle nostre parti, se no chi ti capisce!?..». E si toglieva la coppola per darsi una imbarazzata grattatina sulla testa, mentre mio padre se la rideva sotto i baffi…

   Io e i miei fratelli, proprio non riuscivamo a capire perché zio Giacinto la facesse così lunga e andasse così in bestia se solo lasciavamo dietro di noi qualche oliva.

   Un giorno non ne potemmo più e, quasi all’unisono, io e mio fratello gli dicemmo: «Zio Giacì, ci potete spiegare,  per piacere, perché vi arrabbiate tanto se lasciamo per terra qualche oliva?».

   Ricordo che zio Giacinto si fece serissimo. Rivolgendosi a mio padre gli disse: «Compà Vincè, la gioventù di oggi non capisce niente…». E, dopo un po’, aggiunse: «Glielo vuoi dire tu o glielo dico io?».

   Mio padre aveva capito che la lezione voleva darcela lui e, così, gli rispose: «Compare Giacì, diglielo tu, che certamente glielo spiegherai meglio di me…».

   Zio Giacinto, come investito di chissà quale missione, guardandoci a turno negli occhi e indicando le olive con un gesto simultaneo della testa e della mano sinistra, disse: «Lo sapete come le chiamava queste la buonanima di vostro nonno?».

   Io e mio fratello – seriosi ma anche curiosi di appurare il  mistero che  il buon vecchio stava per rivelarci – rispondemmo candidamente con un semplice: «No».

   «E allora ve lo dico io», rispose zio Giacinto che subito aggiunse: «Li chiamava : i campanelli d’oro ».

   «I  campanelli d’oro!?..», esclamammo con una smorfia delle labbra e subito dopo aggiungemmo: «E perché?».

   «Perché», replicò con la sicurezza del vecchio saggio, «quando noi, con le nostre mani, facciamo velocemente piovere le olive dalla pianta, si urtano fra di loro e creano un rumore… anzi un suono che sembra come quello delle campane in festa…E’ come se tanti campanelli suonassero tutti insieme, ma senza stonare: perché quello che fanno le olive è un suono dolce e pieno di armonia…».

    «E perché sarebbero di oro questi campanelli?», domandò mio fratello alquanto incredulo, mentre io stavo a bocca aperta e con lo stupore del fanciullo che sente un incredibile racconto.

   «Perché?», rispose stupito anche lui, ma della nostra ignoranza e  ingenuità . «Ma perché…», riprese subito, scuotendo un po’ la testa, «ma perché le olive sono una ricchezza!.. Sono l’oro dei poveri!.. Noi ci mangiamo tutto un anno e anche più di un anno, con le olive… E con l’olio? Quanto tempo ci mangiamo con l’olio? Il buon olio d’oliva!.. Quello che voi mettete sul pane…Quello che vostra madre mette nella minestra… nell’insalata…nel vaso di terracotta per conservare le salsicce…Quello che mettiamo anche sulle ferite o quando abbiamo un gonfiore o una ammaccatura da qualche parte…Quello che – se l’annata è buona – ci fa guadagnare un po’ di soldi, a noi poveretti… Ecco, per tutte queste cose, vostro nonno (che possa avere sempre il paradiso…) chiamava campanelli d’oro queste benedette olive» – e mentre diceva queste parole si piegò per prenderne dalla tenda una manciata – «che a voi giovani non piace tanto raccogliere e che, per sbrigarvi e andare avanti, seppellireste sottoterra…».

   Io e mio fratello ci guardammo per qualche secondo con la faccia di chi vuol dire: «Hai capito che lezione che ci ha fatto zio Giacinto!..».

   Io e i miei fratelli riflettemmo molto su quello che ci aveva detto zio Giacinto, cose che lui aveva imparato da un nonno che noi non avevamo avuto la fortuna di conoscere.

   Da quel giorno cominciammo ad andare più volentieri in campagna per raccogliere le olive e, ogni volta che dall’alto delle scale pioveva sulle tende, sentivamo un forte, intenso e, allo stesso tempo, soave e armonioso scampanellio. Erano i campanelli d’oro.

   Io, quel suono, lo sento ancora.