Trebisacce-27/05/2021: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del secondo e del terzo canto dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato da Setteponti di Arezzo

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Salvatore La Moglie

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del secondo e del terzo canto dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato da Setteponti di Arezzo

 Il canto-capitolo II. Il Vestibolo o Antinferno. Il canto-capitolo III ovvero il canto degli ignavi e l’odio gramsciano di Dante per gli indifferenti, sei secoli prima

 Il secondo canto-capitolo dell’Inferno è un canto con ulteriore tecnica narrativa da romanzo con la finzione letteraria che continua per giustificare, con il lettore, il suo incredibile viaggio (Beatrice, la Ma- donna e santa Lucia come aiutanti di Dante); ed è tecnica che si avvale anche di un flashback, di uno sguardo all’indietro.

All’inizio, Dante ha invocato l’aiuto delle Muse e del suo alto ingegno nella narrazione veritiera di quanto visto nel suo viaggio e che poi avrebbe scritto per farlo conoscere agli ignari e inconsapevoli uomini: O muse, o alto ingegno, or m’aiutate; o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, qui si parrà la tua nobilitate. Però, adesso che è venuto il momento di avviarsi per questa straordinaria e inedita impresa, Dante chiede a Virgilio di sincerarsi sulla forza della sua virtù, cioè se essa è sufficiente per poter proseguire. Perché lui non è né Enea e neppure San Paolo, ai quali fu concesso di fare la loro discesa agli Inferi, nel mondo dei morti, e ha paura che la sua venuta nel Regno dell’Oltretomba non sia folle. Dante, insomma, gli chiede delucidazioni sul folle viaggio che sta per iniziare e Virgilio spiega a un Dante che appare come quei che disvuol ciò che volle e con l’anima da viltade offesa, indebolita e poco coraggiosa, che in suo favore si è mossa, dall’Alto dei Cieli, la sua amata Beatrice che ha saputo dell’impedimento di Dante (le tre fiere): Io era tra color che son sospesi (nel Limbo), quando mi è apparsa (la tua) Beatrice che mi ha spiegato che si è rivolta a me per amor divino, il quale vuole che il tuo viaggio si realizzi, tanto che per te ha interceduto anche la Madonna, che ha inviato santa Lucia da Beatrice e questa si è rivolta a me con le lacrime agli occhi affinché scendessi al più presto in tuo soccorso e io venni a te così com’ella volse: e dunque perché nel tuo cuore c’è ancora tanta viltà (e tanti dubbi)?

Dopo il racconto di Virgilio, Dante dice di farla finita con la sua virtute stanca; tanto buono ardire al cor mi corse e, tutto pieno di gioia per l’amore dimostratogli da Beatrice, replica al maestro che adesso non ha più dubbi e timori e che è tornato nel primo proposto, cioè di intraprendere il folle viaggio: Or va, ch’un sol volere è d’ambedue: tu duca, tu  segnore e tu maestro. Così, Virgilio va avanti e, insieme a lui, entra per lo cammino alto e silvestre: difficile e impervio, impraticabile (perché è una selva e perché nell’Inferno tutto è buio, tenebra, dolore e sofferenza).

 

Il canto-capitolo terzo è il canto degli ignavi, una specie umana verso cui Dante prova un particolare disprezzo e disgusto. Siamo nel Vestibolo o Antinferno che annuncia il dolore dei peccatori nella città dolente, cioè dell’Inferno e, a incutere terrore e far tentennare Dante sull’opportunità di proseguire nel folle viaggio, c’è una grande porta sulla cui sommità sono scritte queste parole di colore oscuro, cioè decisamente (in codice e) minacciose: Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore: fecemi la divina potestate, la somma sapienza e ‘l primo amore. Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io  etterna duro. Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate.

Dante è letteralmente terrorizzato e dice al maestro che il significato di quelle parole gli risulta duro, ovvero doloroso, terribile, terrorizzante, angoscioso: Queste parole di colore oscuro vid’io scritte al sommo d’una porta; per ch’io: “Maestro, il senso lor m’è duro”. Dante è spaventato a morte e Virgilio lo capisce subito, da persona accorta qual è e lo richia ma con severità affettuosa: devi smetterla di essere pauroso, indeciso e tentennante e non devi farti prendere dalla viltà: devi distruggere ogni dubbio che ti possa rendere vile! Io ti ho già avvertito che ti avrei guidato per l’Inferno, dove ci sono i peccatori che soffrono terribilmente perché non hanno seguito il vero bene che è Dio e non hanno la possibilità di vederlo (hanno perduto il ben dell’intelletto). Quindi, Virgilio, per rincuorarlo, mette la sua mano in quella di Dante, gli fa un sorriso, come dire: non aver paura, fidati di me, e lo introduce dentro alle segrete cose, cioè nell’arcano, ignoto e misterioso mondo dell’oltretomba che è inaccessibile ai vivi (fino ad allora, solo San Paolo ed Enea avevano avuto questo privilegio): Ed elli a me, come persona accorta: “Qui si con- vien lasciare ogni sospetto; ogni viltà convien che qui sia morta. Noi siam venuti al loco ov’io t’ho detto che tu vedrai le genti dolorose c’hanno perduto il ben dell’intelletto”. E poi che la sua mano alla mia pose con lieto volto, ond’io mi confortai, mi mise dentro alle segrete cose.

Camminando camminando, Dante e Virgilio incominciano a sentire sospiri, pianti e alti guai che risuonavano per l’aere sanza stelle e sanza tempo tinta, cioè nell’atmosfera infernale eternamente senza luce, sempre oscura, buia e appena appena in penombra, tanto che io al cominciar ne lagrimai. Dante è subito preso da pietà, è commosso e incomincia a piangere mentre diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d’ira, voci alte e fioche, e suon di man con elle fanno tutto un tumulto doloroso e la scena diventa sempre più impressionante e spaventosa. Le anime degli ignavi emettono suoni, esclamazioni, improperi reciproci, ecc. in vario modo e in diverse lingue ma anche in maniera che appare disumana e giungono fino a picchiarsi, a dare di mano l’una contra l’altra e, tu che leggi le terzine, non vedi anime ma corpi sofferenti che non sanno più come placare e dare sfogo al loro terribile dolore. Dante ha come un cerchio alla testa, la testa cinta, cioè piena, stordita dall’orrore e chiede al maestro che cos’è quel che sente e chi sono quelle anime così distrutte dal dolore. Virgilio gli spiega che quelle anime così sofferenti, disperate e irose sono gli ignavi, cioè coloro che in vita non si schierarono, non presero parte agli eventi, non parteciparono attivamente alla vita sociale e civile e si mantennero, opportunisticamente e per vigliaccheria, neutrali, non facendo nulla per impedire il Male o per favorire il Bene e vivendo, sulla terra, senza alcun titolo d’onore o infamante: Questo misero modo tengon l’anime triste di coloro che visser sanza infamia e sanza lodo e si ritrovano insieme alla schiera degli angeli che, quando c’è stata la ribellione di Lucifero, si mantennero neutrali, non si schierarono né con lui e né con Dio; per questo non sono gradite ai cieli e neppure le profondità infernali li vogliono perché i peggiori rei (peccatori) non ne avrebbe alcun gloria. Dante domanda ancora che cos’è che tanto grava su di loro e che le fa tanto soffrire e lamentare; Virgilio risponde che soffrono così tanto perché non hanno alcuna speranza di morte, cioè della seconda morte, quella spirituale, dell’anima dopo quella corporea, e la loro oscura vita è così abietta e squallida da essere invidiosi e desiderosi di ogni altra sorte: Mischiate sono a quel cattivo coro de li angeli che non furon ribelli né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. Caccianli i ciel per non esser men belli, né lo profondo inferno li riceve, ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli. Questi non hanno speranza di morte, e la lor cieca vita è tanto bassa, che ‘nvidïosi son d’ogne altra sorte. E ti dirò di più: Fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna: non ragioniam di lor ma guarda e passa: il mondo non vuole che di loro sia lasciato alcun ricordo, la misericordia e la giustizia divine provano sdegno nei loro confronti: non è neppure il caso di parlare di loro: guarda velocemente e vai avanti!…

Dante guarda e poi ancora guarda per vedere se riconosce qualche anima e, a un certo punto, vede un’insegna, un vessillo, una specie di bandiera attorno alla quale si ritrovano e riuniscono tutti gli ignavi e che si muoveva veloce; la fila, la schiera di questi dannati era sempre più consistente tanto che Dante non credeva che ce ne fossero tanti; comunque, riesce a riconoscerne uno: E io, che riguardai, vidi una ‘nsegna che girando correva tanto ratta, che d’ogne posa mi parea indegna; e dietro le venìa sì lunga tratta di gente, ch’i’ non averei creduto che morte tanta n’avesse disfatta. Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto. Tra i dannati riconosce l’anima non di Ponzio Pilato (che si lavò le mani sul caso politico di Gesù Cristo) ma più probabilmente di Celestino V, al secolo Pietro Angelerio detto Pietro da Morrone, l’ombra di colui che fece per viltà il gran rifiuto, perché eletto, suo malgrado, papa nel 1294, finì per dimettersi e ritirarsi in un eremo favorendo, in tal modo, l’avvento, sul soglio pontificio, del poco amato (da Dante) Bonifacio VIII (al secolo Benedetto Caetani), pontefice del tutto politico e del tutto adatto al ruolo per il quale non era tagliato il buon Celestino, papa spirituale, distante dalle manovre politiche della Chiesa e certamente inorridito dalla corru- zione e dalle ricchezze accumulate da essa in tanti secoli, per cui si parlerà di Patrimonium Sancti Petri, il Patrimonio di San Pietro, contro il quale Dante sfogherà la propria ira e il proprio sdegno con una celebre invettiva rivolta idealmente all’imperatore Costantino quasi urlando: Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco Patre!, cioè papa Silvestro I (canto XIX, Inferno). Il Sommo Poeta credeva, e non poteva essere diversamente, alla famosa donazione che, secondo un falso testo messo in piedi ad arte tra le mura dei palazzi della Chiesa, voleva che Costantino le avesse donato, nella persona di papa Silvestro I, i domini dell’Impero Romano d’Occidente e riconosciuto al Papato la sua superiorità sul potere dell’Imperatore: In considerazione del fatto che il nostro potere imperiale è terreno, noi decretiamo che si debba venerare e onorare la nostra santissima Chiesa Romana e che il Sacro Vescovado del santo Pietro debba essere gloriosamente esaltato sopra il nostro Impero e trono terreno. Il vescovo di Roma deve regnare sopra le quattro principali sedi, Antiochia, Alessandria, Costantinopoli e Gerusalemme, e sopra tutte le chiese di Dio nel mondo… Finalmente noi diamo a Silvestro, Papa universale, il nostro palazzo e tutte le province, palazzi e distretti della città di Roma e dell’Italia e delle regioni occidentali… Lorenzo Valla, grande umanista e fondatore della moderna filologia, venne due secoli dopo Dante e per questo il Poeta Sacro credeva, come tutti gli altri, a quel falso documento (una vera e propria truffa con cui il Papato si arrogava la pretesa di un potere temporale che non gli sarebbe dovuto spettare tuttavia, visto che il suo compito avrebbe dovuto essere esclusivamente spirituale). Documento-truffa che il Valla smascherò come tale nel 1440 (De falso credita et ementita Constantini donatione: Sulla Donazione di Costantino falsamente attribuita e falsificata, messo poi nell’indice dei libri proibiti dalla Chiesa della Controriforma) proprio dopo un’attenta e accurata analisi testuale, linguistica e anche storica, dalla quale emerse che il latino con cui era stato scritto il celebre documento non era il latino del IV secolo ma quello intorno ai tempi di Carlo Magno!… Quindi, Dante comprende subito (incontanente intesi e certo fui) che si trattava della setta dei cattivi, cioè dei vili, che sono a Dio spiacenti ed ai nemici sui, ovvero invisi, malvisti sia da Dio che da Satana e dai suoi seguaci. Anticipando di sei secoli il pensiero di Antonio Gramsci, Dante mostra di avere una particolare antipatia e ripulsa per questo tipo di essere umano che il padre del comunismo italiano, in un articolo per la Città Futura (11 febbraio 1917), definì   indifferenti e spiegava perché odiava gli indifferenti: Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che ‘vivere vuol dire essere partigiani’. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare… Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera.

È la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può gene- rare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile.

Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.

I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo con- tributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.

Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

Credo che le parole chiare e precise di Gramsci siano la migliore spiegazione del sentimento di disgusto e di disprezzo del Divino Poeta nei confronti degli ignaviindifferenti, lui che tanto aveva pagato e sofferto per aver partecipato alla vita politica e per essersi esposto e schierato; lui che pensava a costruire la città futura della felicità terrena e spirituale, la felice città terrena, dell’uomo e la felice (agostiniana) città celeste, città di Dio. Pertanto, la legge del contrappasso (per contrasto) che applica a questa categoria di peccatori e dannati è estremamente dura, quasi spietata e viene attuata in una duplice modalità: innanzitutto, gli ignavi, che in vita non ebbero il coraggio di schierarsi con la bandiera di nessun partito, preferendo rimanere neutrali e di non esporsi, (quando, magari, la loro presa di posizione avrebbe potuto cambiare il corso delle cose), adesso sono costretti a correre in eterno dietro una incolore insegna che è sempre in continuo e rapido movimento e non si ferma mai (e io, che riguardai, vidi una insegna che girando correva tanto ratta, che d’ogni posa mi parea indegna); inoltre, gli ignavi, che da vivi furono così passivi e indifferenti, adesso sono punzecchiati e infastiditi, per l’eternità, da terribili insetti e il sangue che scende fin giù ai loro piedi e che si mescola alle lacrime di dolore che escono dai loro occhi diventa un ghiotto pasto per disgustosi e fastidiosi vermi, cioè, spiega  il Sapegno, di animali tra i più vili: Questi sciaurati che mai non fur vivi, erano ignudi, stimolati molto da mosconi e da vespe ch’eran ivi. Elle rigavan lor di sangue il volto, che, mischiato di lagrime, ai lor piedi da fastidiosi vermi era ricolto.

Ma non finisce qui. Infatti, nel procedere e nel guardare attraverso l’oscurità infernale, Dante si accorge che ci sono molti dannati vicino alla riva di un grande fiume (che è l’Acheronte del mondo pagano), dannati che appaiano ansiosi e impazienti di passare da una parte all’altra del fiume, cioè di attraversarlo e, quindi, di andare incontro al loro tremendo supplizio da scontare in eterno. Chiede lumi a Virgilio ma, questi, un po’ infastidito, gli risponde che le cose gli saranno ben chiare (ti fier conte) quando saranno sulla trista riviera d’Acheronte. Dante capisce di essere stato preso dalla fretta di sapere e, quindi, di esser stato alquanto inopportuno e, così, con gli occhi bassi per la vergogna del rimprovero del maestro (con li occhi vergognosi e bassi), se ne sta zitto zitto fino all’arrivo davanti alla riva del fiume (infino al fiume del parlar mi trassi).

Ad un certo punto, dinanzi agli occhi dei due Poeti, si presenta la scena di Caronte, personaggio della mitologia classica, figlio dell’Erebo e della Notte, che qui diventa demonio-custode, demoniaco guar- diano dell’Acheronte, diavolo-traghettatore degli ignavi verso il loro eterno destino di sofferenza e di espiazione della pena, senza alcuna possibilità di salvezza: Ed ecco verso noi venir per nave un vecchio, bianco per antico pelo, gridando: “Guai a voi, anime prave! Non isperate mai veder lo cielo: i’ vegno per menarvi all’altra riva nelle tenebra etterne, in caldo e ‘n gelo.

La scena (che è da sequenza cinematografica) è di uno spaventoso realismo, spaventoso sia nel senso letterale che nel senso di eccezionale: Caronte, vecchio con barba bianca perché ormai da secoli a guardiano infernale, guida la sua trista imbarcazione e urla minaccioso alle anime malvagie e dannate (più corpi che anime…) che ormai, poveri loro!, perché non hanno alcuna speranza di salvezza e di luce (cioè di salire in Paradiso) e lui è lì proprio per trasportarli da una parte all’al- tra del fiume, nelle oscurità infernali, dove proveranno ogni tipo di pena. Poi, rivolgendosi a Dante, che gli appare uomo vivo qual è, gli dice, sempre con tono minaccioso: tu che sei corpo e non anima, separati e allontanati da questi che ormai non sono più del mondo dei vivi e sono morti anche spiritualmente (e tu che se’ costì, anima viva, partiti da cotesti che son morti). Vedendo, però, che Dante non si sposta di un millimetro (ma poi che vide ch’io non mi partiva), Caronte replica che: il tuo viaggio avverrà per altre vie e con altri mezzi, con un’imbarcazione più leggera cioè non penosa come questa che accoglie gli ignavi (per altra via, per altri porti verrai a piaggia, non qui, per passare: più lieve legno convien che ti porti): per te occorre ben altro per raggiungere la meta che ti sei prefisso, cioè quella verso l’isola del Purgatorio che conduce, poi, alla salvezza. Insomma, Caronte è come se dicesse a Dante: meglio per te se lasci stare questa folle impresa del viaggio infernale, ma Virgilio (il   duca) che ha capito dove vuol andare a parare il demonio infernale e che a quella folle impresa ci tiene eccome, risponde con tono deciso e sicuro: Caròn, non ti crucciare: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare: (caro) Caronte, non ti devi arrabbiare: (il viaggio di quest’uomo) è voluto da Dio, dal Cielo, dove si può e si vuole ogni cosa e, dunque, non domandare altro (perché ogni domanda sarebbe inutile). E, infatti: Quinci fuor quete le lanose gote al nocchier della livida palude, che ‘ntorno alli occhi avea di fiamme rote: Caronte, traghettatore della torbida palude infernale, si calma, lui che si era così acceso da avere gli occhi e il volto rosso-fiamma, di fuoco per l’ira. Però, la sua ira minacciosa ha spaventato a morte le anime abbattute dei moralmente e spiritualmente miserabili ignavi (quell’anime ch’eran lasse e nude) che, infatti, cambiano colore e battono i denti non appena sento- no le dure e crudeli parole di Caronte (cangiar colore e dibattìeno i denti, ratto che inteser le parole crude). Il loro estremo dolore e la loro terribile disperazione è rappresentata da Dante con quello spaventoso realismo di cui si è parlato e che è felicemente onnipresente in tutta la Commedia e nell’Inferno in modo particolare. Quei poveri corpi… volevo dire quelle povere anime: bestemmiavano Dio e lor parenti, l’umana spezie e ‘l  luogo e ‘l tempo e ‘l seme di loro semenza e di lor nascimenti. Bestemmiano tutti e tutto: Dio e i loro genitori, la specie umana, il luogo e il tempo in cui erano stati concepiti, la loro stirpe, i capostipiti, i padri dei loro padri, il seme del seme della loro miserabile origine, cioè fino ad Adamo… (Come dire: se non fossimo nati, se il primo uomo non avesse dato inizio alla specie umana, adesso non saremmo qui a soffrire… le pene dell’Inferno…). Dopo questo disperato sfogo, piangendo forte e a dirotto, si riuniscono tutte insieme sulla riva del fiume infernale (poi si raccolser tutte quante insieme, forte piangendo, alla riva malvagia) che è il luogo che attende tutti coloro che non hanno avuto timore di Dio (ch’attende ciascun uom che Dio non teme). Caronte, con i suoi occhi e il suo volto rosso come la bracia per l’ira che ha verso questi dannati, fa loro dei cenni minacciosi affinché si riuniscano tutti sulla sua nave e dà dei colpi di remo sulla schiena di chi temporeggia, di chi indugia perché sa cosa lo attende per l’eternità: Caron dimonio, con occhi di bragia, loro accennando, tutti li raccoglie, batte col remo qualunque s’adagia. E, a te che leggi, sembra di vederla questa scena così potentemente realistica, di quel realismomimesis (imitazione della realtà ma soprattutto resa realistica anche di qualcosa così irreale e fantasioso come l’Oltremondo dantesco) di cui parla così bene l’Auerbach.

Dopo la scena di Caronte che stimola i passivi ignaviindifferenti a suon di colpi di remo, Dante propone all’esterrefatto e attonito lettore una delle sue splendide similitudini (di cui la Commedia è piena): Come d’autunno si levan le foglie l’una appresso de l’altra, fin che ‘l ramo vede a la terra tutte le sue spoglie, similemente il mal seme d’Adamo gittansi di quel lito ad una ad una, per cenni come augel per suo richiamo: Come durante l’autunno le foglie cadono l’una dopo l’altra fino a che il ramo (come una persona…) che le accoglieva le vede tutte per terra come dei morti, allo stesso modo i peccatori, i malvagi discendenti di Adamo si gettono, si lanciano da quella riva una dopo l’altra (dopo le occhiatacce di  Caronte…) come gli uccelli che rispondono a un richiamo e, insomma, come il falcone al richiamo del falconiere. E così vengono trasportati sulle scure acque (così sen vanno su per l’onda bruna) dell’Acheronte e, prima che siano discese dalla parte opposta (di là), da quest’altra parte (di qua) ancora si raccolgono, si riuniscono e si ritrovano altre anime dannate (nuova schiera s’auna).

Al cortese Virgilio (maestro cortese) non resta che rispondere e spiegare al curioso ma anche sempre più spaventato inorridito e meravigliato (per tutto quel che vede e vedrà) protagonista e narratore Dante (che aveva posto l’interrogativo) che tutti quelli che muoiono senza la grazia divina (nell’ira di Dio) si ritrovano qui, provengono da ogni parte e sono rapide e veloci nell’attraversare il fiume (e pronti sono a tra- passar lo rio) poiché la giustizia divina le stimola, le sprona in maniera tale che la paura della pena si trasforma in desiderio di affrontarla ed espiarla per porre fine alla disperazione (si che la tema si volve in disio): proprio come in un condannato a morte, l’orrore della pena vicina diventa ansia di farla finita al più presto, spiega ancora magistralmente il Sapegno che fa notare, anche, come in quelle anime c’è soprattutto il senso di una disperazione senza scampo e questo proprio nel riconoscimento di una volontà ineluttabile, che è quella di Dio.

Virgilio dice ancora amorevolmente al suo figliuol, cioè a Dante, che per quel luogo lì, cioè l’Acheronte, non passa mai anima che sia morta in grazia di Dio, ma solo malvagie e, dunque, se Caronte ti ha parlato in quel modo, cioè si è lamentato e indispettito per la tua presenza come uomo vivo da queste parti, puoi ormai capire bene il significato delle sue parole, e cioè che il tuo viaggio è ben altra cosa: Quinci non passa mai anima buona; e però, se Caron di te si lagna, ben puoi sapere ormai che ‘l suo dir sona.

Dopo che Virgilio ha detto queste parole (finito questo), ecco che, ad un tratto, la terra di quel luogo buio e orribile si è messa a tremare così forte (la buia campagna, tremò sì forte) che il ricordo di quello spavento ancora mi fa sudare freddo (che dello spavento la mente di sudore ancor mi bagna): da quella terra di dolore e lacrime (la biblica valle di lacrime…) si è sprigionato un terremoto con un vento tanto forte (la terra lagrimosa diede vento) da provocare degli spaventosi e accecanti lampi, fulmini (che balenò una luce vermiglia), la cui luce così rossa mi ha tanto colpito da farmi perdere i sensi, da farmi svenire (la qual mi vinse ciascun sentimento) e, quindi, da farmi cadere per terra come l’uomo che prende sonno, che si addormenta: e caddi come l’uom che ‘l sonno piglia. In un altro canto Dante chiuderà dicendo: E caddi come corpo morto cade, e questo gli succede ogniqualvolta gli capita di vivere una particolare situazione di forte emozione, di tensione morale, spirituale e psicologica che implica tormento e turbamento interiore, commozione, pietas   ed empatia con anime di dannati che, pur se collocate nel mondo infernale, sono come da lui “giustificate” o comunque comprese nella grandezza e particolarità del loro peccato, della loro colpa. Si pensi a Francesca da Rimini o ad Ulisse o al conte Ugolino, tanto per fare alcuni esempi che appaiono emblematici dell’umanità e dell’umanesimo di Dante: sì, umanesimo: perché Dante, nella Commedia, sembra anticipare la parola umanesimo. Egli sembra dire, in ogni canto, che se l’uomo non sarà capace di compiere una vera e propria rivoluzione culturale incentrata sui veri valori morali e spirituali e di mettere al centro l’uomo e la sua umanità in quel contesto chiamato mondo-in-cui-viviamo, allora per l’uomo è la fine, non ci sarà alcuna speranza di salvezza e lui vuole salvare l’uomo e il mondo per l’oggi e per il domani. Da poeta autentico, vero qual era, egli non scrive solo per i contemporanei ma soprattutto per i posteri, per quelli che verranno dopo e che il suo tempo chiameranno antico, ma che avranno ancora bisogno della sua alta parola poetica ed etica che, se ben compresa, può condurre alla salvezza.