Trebisacce-24/06/2022: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

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La Moglie Salvatore
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Simoniaci

 

 

 

 

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del canto XIX dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo. Siamo nell’ottavo cerchio o regno di Malebolge, il regno della Frode e della Malizia allo stato puro e assoluto: Terza bolgia. I protagonisti  sono i simoniaci e i papi corrotti. I simoniaci hanno come contrappasso, per analogia, di essere capovolti, messi a capofitto in buche circolari, con i piedi e le gambe sporgenti (visto che in vita operarono alla rovescia rispetto alla loro  funzione sacra); inoltre, le piante dei piedi sono eternamente attraversate da una fiamma che glieli fa continuamente dimenare e che dà ulteriore tormento, a loro che non sentirono l’ardore della fede, che non erano infiammati da essa ma da ben altro. Papa Niccolò III Orsini. L’invettiva contro i papi simoniaci e avari, ovvero “Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre…”

 

O Simon Mago, o miseri seguaci che le cose di Dio, che di bontade deon esser spose, e voi rapaci per oro e per argento avolterate; or convien che per voi soni la tromba, però che nella terza bolgia state.

Con questa apostrofe, che suona come un durissimo atto d’accusa e come un anatema, una profezia biblica già realizzata prima del Giudizio Universale e che sarà poi confermata, inizia il XIX canto-capitolo in cui si parla della terza bolgia, dove sono collocati i simoniaci, ovvero Simone, che praticava l’arte magica in Samaria, e tutti i suoi miserabili seguaci e imitatori che, come lui, hanno fatto compravendita di cose sacre, cose di Dio. Simone voleva comprare, con denaro, da (San) Pietro e da (San) Giovanni la facoltà di comunicare ai battezzati lo Spirito Santo, ma i due apostoli respinsero la sua bassa richiesta.

Dunque, Dante si rivolge idealmente a Simon Mago e a tutti quelli che come lui hanno fatto vile commercio delle cose della Chiesa e di Dio, di cariche spirituali, ecclesiastiche (il famigerato nepotismo, che oggi chiamiamo familismo) che dovrebbero essere conferite, assegnate solo ai buoni e ai virtuosi, mentre voi avidi di denaro, per cupidigia di oro e argento vi prostituite, vi vendete (al miglior offerente); ebbene, sappiate che adesso è giusto che per voi scellerati suoni la tromba del banditore quando va nelle vie della città a leggere le sentenze dei giudici; e sono io (dice Dante, il giudice-messaggero-di-dio) che annuncio con chiare parole le vostre scellerate ed empie colpe, per le quali siete puniti severamente nella terza bolgia.

Io e Virgilio eravamo già nella terza bolgia (la seguente tomba), sopra la parte del ponte che sta giusto a perpendicolo sul centro del fosso, cioè della bolgia (montati de lo scoglio in quella parte ch’a punto sovra mezzo il fosso piomba). A questo punto, Dante, con un’altra apostrofe, si rivolge esclamativamente alla Sapienza divina: O somma sapienza, quanto è grande l’opera Tua in Cielo, sulla Terra e nell’Inferno e come bene, con virtù e giustizia, distribuisci meriti e colpe, premi e castighi! (quanta è l’arte che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, e quanto giusto tua virtù comparte!).

Dante dice poi di vedere attraverso le pareti e il fondo della bolgia che era tutta di pietra di color di ferro, nerastra, fori rotondi e tutti della stessa grandezza (per le coste e per lo fondo piena la pietra lividadi fori, d’un largo tutti e ciascun era tondo). Non gli parevano meno ampi né più grandi di quei quattro pozzetti che sono nel Battistero di Firenze, fatti per ospitare i preti che battezzano oppure, secondo altri interpreti, i fonti battesimali (che que’ che son nel mio bel San Giovanni, fatti per luogo de’ battezzatori); uno dei quali, non sono passati molti anni, è stato da me rotto per salvare un uomo che stava annegando, (e questo sia suggel ch’ogn’uomo sganni) e questa sia la prova che ponga fine ad ogni inganno, equivoco malevolo su quell’episodio (perché qualcuno aveva, evidentemente, interpretato come irriverente ed empio il gesto di Dante che rompe il pozzetto per salvare la vita di un uomo).

Segue la descrizione della condizione (umana…) dei dannati in quella bolgia, con calzante similitudine in chiusura: Fuor della bocca a ciascun soperchiava d’un peccator li piedi e delle gambe infino al grosso, e l’altro dentro stava. Le piante erano a tutti accese intrambe; per che sì forte guizzavan le giunte, che spezzate averìen ritorte e strambe. Quale suole il fiammeggiar delle cose unte muoversi pur su per la strema buccia, tal era lì dai calcagni alle punte: Fuori dalla buco di ciascun pozzetto sporgevano i piedi di ciascun dannato e le gambe si vedevano fino alla coscia, mentre il resto del corpo stava all’interno. Le piante dei piede erano entrambe bruciate, per cui le gambe guizzavano, venivano dimenate con tanta forza (per il terribile dolore), al punto che (per provare un po’ di refrigerio o per evitare quel supplizio) avrebbero spezzato corde di ogni specie, di vimini o di erba intrecciata. Come la fiamma sulle cose unte, oleose è solita scorrere sulla superficie, così, allo stesso modo, succedeva per i loro piedi, dai calcagni fino alle punte.

Dante riconosce tra i dannati il papa Niccolò III e chiede a Virgilio: Chi è colui, maestro, che si cruccia guizzando più che li altri suoi consorti e cui più roggia fiamma succia?: Chi è questo peccatore che, più degli altri suoi compagni di sorte (di pena, di sventura…) si mostra crucciato, infastidito, sofferente (per la sua triste punizione) e al quale una fiamma più rossa e più viva succhia, lambisce i piedi? Virgilio replica così alla curiosità di Dante: Se vuoi che io ti conduca (sollevandolo e portandolo sulle braccia, v. i versi 43-44) laggiù lungo la parete rocciosa più interna e che è più bassa (perché tutto il piano di Malebolge pende verso il pozzo che è al centro), potrai sapere direttamente da lui chi è e per quali colpe è così punito (da lui saprai di sé e de’ suoi torti). Dante gli dice che: A me è gradita, mi è caro tutto quello che a te piace (tanto m’è bel, quanto a te piace): tu sei la mia guida e colui che decide (segnore) e sai che io non mi allontano dalla tua volontà, e conosci, sai leggere anche i miei pensieri, ciò che non dico (e sai ch’i’ non mi parto dal tuo volere, e sai quel che si tace).

Anche questa volta Virgilio ha intuito che il suo discepolo desidera parlare con un certo particolare dannato. Così giungono in su l’argine quarto, cioè sull’argine che separa la terza dalla quarta bolgia: voltano, girano e discendono tenendosi sulla sinistra (a mano stanca) laggiù nel fondo della bolgia stretto, malagevole e pieno di fori (la giù nel fondo foracchiato e arto). Il buon Virgilio tiene protettivamente Dante stretto al suo fianco (ancor della sua anca) e non lo depone per terra se non quando giungono al foro di quel peccatore che si lamentava con le gambe, cioè esprimeva la propria sofferenza e il proprio tormento agitando ripetutamente le gambe (di quel che si piangeva con la zanca).

L’impietoso, ironico, sarcastico e satirico Dante ci ha offerto, ancora una volta, una di quelle plastiche, realistiche e indimenticabili scene, vere e proprie sequenze cinematografiche di film di horror o di romanzo di horror. Il giudizio morale è severissimo e le parole che esprimono la sua durissima, implacabile condanna continuano, spietate e sferzanti, a completare il quadro e la scena di una condizione (umana…) terribile, avvilente e mortificante, proprio di chi in vita ha mortificato e avvilito le cose sacre facendone basso ed empio mercimonio invece di guardare verso l’Alto, alle cose spirituali e celesti e, quindi, tradendo il proprio ufficio e venendo meno al proprio compito di vicario di Cristo sulla Terra e di Pastore della Chiesa che guida le anime alla felicità spirituale: O qual che se’ che ‘l di su tien di sotto, anima trista come pal commessa, se puoi, fa motto: Chiunque tu sia, che stai alla rovescia, a testa in giù, anima malvagia, piantata come un palo nella terra, parla, se pure ti riesce. Segue una pungente similitudine: Io stava come ‘l frate che confessa lo perfido assessin, che poi ch’è fitto, richiama lui, per che la morte cessa: Io stavo come sta il frate vicino al sicario, cioè all’assassino traditore che uccide per denaro (vuol dire: con la testa piegata fino a terra per farsi sentire dal dannato): a Firenze il sicario veniva punito con la pena della propagginazione, ovvero mettendolo con la testa conficcata in una buca, in una fossa che veniva riempita di terra fino a farlo morire soffocato. Si narra che il condannato, per allontanare ancora un per po’ la morte e avere un ultimo respiro, chiedesse di essere confessato da un frate, il quale per ascoltarlo doveva piegarsi fino a terra.

L’anima mal nata che risponderà a Dante gridando per farsi sentire, proprio come faceva il sicario traditore (un papa paragonato a un assassino: assassino di dio!) è Niccolò III, ovvero Giovanni Gaetano Orsini, papa dal 25 novembre del 1277 al 22 agosto del 1280, cioè appena due anni. Fu gran simoniaco, nepotista e avidissimo di ricchezze, nonché grande sostenitore di Bonifacio VIII (grande nemico di Dante) e della politica antimperiale (Dante era per la collaborazione tra le due grandi Autorità universali per la felicità e il bene dell’umanità).

Dunque, el gridò: “Se’ tu già costì ritto, se’ tu già costì ritto, Bonifazio? Di parecchi anni mi mentì lo scritto. Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio per lo qual non temesti torre a ‘nganno la bella donna, e poi di farne strazio?”: Niccolò III (ma è finzione letteraria utilizzata da Dante per poter inserire Bonifacio VIII tra quei puniti) crede che a parlare sia il suo collega, appunto, Bonifacio VIII, morto nel 1303 e, pertanto, il Poeta non potendolo collocare in quella bolgia, crea volutamente l’equivoco facendolo nominare da un morto che, prevedendo il futuro, sa che è lì che il grande collega peccatore finirà a fargli compagnia, ma spingendolo più in giù e occupando il posto che era suo: così funziona il meccanismo della pena in quella bolgia. Nel creare una esilarante commedia degli errori o degli equivoci che dir si voglia, Dante fa dire a Niccolò, e per due volte, perché meravigliato: Sei tu, Bonifacio, già qui ma, diversamente da noi, in posizione eretta? Come dire: non ti aspettavo così presto (a prendere il mio posto): il libro in cui è scritto il futuro mi ha ingannato di parecchi anni. Ti sei già saziato di quelle ricchezze per le quali non ti facesti scrupolo di prenderti con l’inganno la Chiesa, il pontificato e, quindi, il Potere, per poi fare scempio della Chiesa e offenderla e prostituirla con la pratica della simonia… Potere che era soprattutto politico, e pare che Bonifacio avesse fatto di tutto per convincere, ingannevolmente, il buon Celestino V a rinunciare e a fare quello che Dante chiama il gran rifiuto che gli avrebbe, appunto, spianato la strada del facile pontificato ottenuto con la frode, l’inganno, il denaro e, insomma, con la corruzione.

Di fronte alle parole del dannato, Dante dice che: Tal mi fec’io, quai son color che stanno, per non intender ciò ch’è lor risposto, quasi scornati, e risponder non sanno: Io diventai, come quelli che per il fatto di non comprendere ciò che gli è stato detto, rimangono confusi, come scornati, imbarazzati, impacciati, come  vergognosi e non sanno cosa rispondere (perché non riescono a credere a quel che hanno appena sentito…). Perciò, Virgilio (che si è avveduto dello stato d’animo di stupore e di imbarazzo di Dante), suggerisce subito al suo discepolo come uscire da quell’equivoco: Dilli tosto: ‘Non son colui, non son colui che credi’, ripetuto due volte come quegli due volte, per farsi ben sentire, aveva fatto la sua domanda. Dante dice subito ciò che gli è stato ordinato. Dopodichè, Niccolò, indispettito e irato per il fatto di esser caduto in una sorta di trappola e, quindi, di essersi smascherato con le sue stesse parole e aver lavato in pubblico i panni sporchi della Chiesa, facendone emergere la grande corruzione e il basso livello morale, tutti storse i piedi, comincia a storcere, a dimenare con forza i piedi e, sospirando e con voce di pianto, dice a Dante: Dunque, cosa vuoi sapere da me? Se ti importa tanto (ti cal cotanto) sapere chi sono, e per questo hai percorso l’argine di questa bolgia, devi sapere che io sono stato un papa (sappi ch’i fui vestito del gran manto, papale); ma, in verità, sono appartenuto alla famiglia degli Orsini  (e veramente fui figliuol dell’orsa: cioè degno di questo nome: l’orso non è mai sazio, brama sempre di mangiare ed è legatissimo alla sua prole: metafora per dire che Niccolò era avidissimo di denaro e Potere per se stesso e i suoi consanguinei), e tanto cupido di ricchezze, di denaro (appunto!…) per avanzar li orsatti, cioè per favorire, avvantaggiare gli orsacchiotti, per arricchire e dar più potere ai suoi parenti, nipoti (nepotismo-familismo) e, così, nel mondo dei vivi, ho messo in borsa le tante ricchezze e qui (a causa delle mie colpe: sete di denaro, ricchezze e Potere) ho messo la mia anima, me stesso in una infelice borsa-buco-trappola-mortale.

Dopo aver confessato le proprie colpe e il contrappasso che è costretto a pagare, Niccolò prosegue il suo racconto dicendo che sotto la sua testa sono stati spinti giù, precipitati gli altri papi che lo hanno preceduto nel commettere il peccato di simonia e che stanno appiattiti nelle fessure della roccia, nel fondo delle buche (di sotto al capo mio son li altri tratti che precedetter me simoneggiando, per le fessure della pietra piatti: si noti il neologismo simoneggiare, come a voler evidenziare la diffusione, l’invasività e il dilagare di questo grande male che affliggeva la Chiesa e la faceva deviare dal giusto cammino). La giù cascherò io altresì quando verrà colui ch’i credea che tu fossi allor ch’i’ feci ‘l subito dimando: Anch’io precipiterò laggiù quando qui verrà Bonifacio VIII, che io ho creduto che fossi tu quando ho fatto la frettolosa, irriflessiva domanda (di cui si pente…). Ma più è ‘l tempo già che i piè mi cossi e ch’io son stato così sottosopra, ch’el non starà piantato coi piè rossi: chè dopo lui verrà di più laida opra  di ver ponente un pastor sanza legge, tal che convien che lui e me ricopra. Novo Iason sarà, di cui si legge ne’ Maccabei; e come a quel fu molle suo re, così fia lui chi Francia regge: (Purtroppo, ahimè…) è più lungo il tempo che io ho passato a cuocermi, a bruciarmi i piedi e che sono stato così conficcato a testa in giù (per 20 anni) che il tempo che trascorrerà Bonifacio con i piedi arrossati per le fiamme, cioè nella stessa posizione: perché dopo di lui (che morirà nel 1303 e quindi ci starà per circa 11 anni, fino al 1314)  verrà a sostituirlo un altro papa ben peggiore, dedito a opere ben più sporche, basse e vergognose, ovvero papa Clemente V (Bertrand de Got, della Guascogna, papa dal 1305 al 1314, anno della morte; uomo avidissimo di denaro e ricchezze e grande simoniaco, colpevole anche di aver trasferito la sede pontificia in Avignone e di aver osteggiato l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, in cui Dante tanto aveva sperato). Clemente fu un papa che visse e governò nella più piena illegalità e immoralità, soprattutto ignorando ogni legge etica e comandamento religioso e divino (un pastor sanza legge). Clemente sarà il Nuovo Giasone, di cui si parla nel libro II dei Maccabei, e come verso Giasone fu condiscendente, cedevole, arrendevole il re Antioco IV Epifane, dal quale comprò con 440 talenti la carica di sommo sacerdote, promettendogli una somma superiore se gli avesse consentito di fondare istituzioni di tipo ellenistico, così, allo stesso modo con Clemente lo sarà da Filippo IV il Bello, re di Francia (grande oppositore di Bonifacio; si veda l’episodio del famoso schiaffo di Anagni che, probabilmente, fu soltanto morale), dal quale avrebbe acquistato l’appoggio per la sua elezione a papa, con promessa di ricambiare, in futuro, tale appoggio: infatti, concederà al re più di una cosa e, tra queste, di versargli tutte le decime (la decima parte) delle rendite dei beni ecclesiastici per 5 anni.

Quindi, Dante dice (ed è finzione letteraria, perché, lui, le parole che dirà, le voleva dire…) di non sapere sé s’i’ mi fui qui troppo folle, se sia stato troppo temerario, di essersi spinto, cioè, troppo oltre visto che parlava con un vicario di Cristo sulla Terra!… Perché gli risponde a questo metro, cioè con questo tenore, adeguato al tono del discorso papale sullo sputtanamento (brutta parola che, però, è calzante) di tutti i papi e della loro grande e devastante corruzione che imprime sul corpo sacro della Chiesa una macchia indelebile e il flagrante (in imperterrita continuazione!…) tradimento del messaggio cristiano di povertà, moderazione e rifiuto di ogni inutile attaccamento ai beni terreni per aspirare, invece, ai beni spirituali che ci rendono migliori. Dunque, Dante, rivolgendosi con un (irriverente…) tu, chiede a Niccolò: deh, or mi di’: è quanto tesoro volle nostro Segnore in prima di san Pietro ch’ei ponesse le chiavi in sua balia?: Orsù,  dimmi, sentiamo (un po’): quanto denaro chiese, volle nostro Signore da San Pietro, prima che gli affidasse le chiavi del Regno dei Cieli, cioè prima che lo eleggesse capo della Chiesa (e primo papa)? Dante dà lui stesso la risposta perché è sua intenzione mortificare il corrotto papa e lanciare la sua invettiva durissima, fortemente polemica e corrosiva contro gli uomini di Chiesa e, pertanto, contro la corruzione della Chiesa soprattutto da alcuni secoli fino ai suoi tempi per avidità di denaro, ricchezze, beni materiali di ogni genere e, quindi, di Potere terreno, politico: il famoso o famigerato potere temporale dei papi e della Chiesa, fonte di ogni Male e della stessa infelicità degli uomini: Certo non chiese se non ‘Viemmi retro’. Né Pier né li altri tolsero a Mattia oro od argento, quando fu sortito al luogo che perdè l’anima ria. Però ti sta, chè tu se’ ben punito; e guarda ben la mal tolta moneta ch’esser ti fece contra Carlo ardito. E se non fosse ch’ancor lo mi vieta la reverenza delle somme chiavi che tu tenesti nella vita lieta, io userei parole ancor più gravi; chè la vostra avarizia il mondo attrista, calcando i buoni e sollevando i pravi. Di voi pastor s’accorse il Vangelista, quando colei che siede sopra l’acque puttaneggiar coi regi a lui fu vista; quella che con le sette teste nacque, e dalle diece corna ebbe argomento, fin che virtute al suo marito piacque. Fatto v’avete Dio d’oro e d’argento: e che altro è da voi all’idolatre, se non ch’elli uno, e voi ne onorate cento? Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!…

Insomma, Dante è uno che non le manda a dire e, così, a Niccolò, che, suo malgrado, gli ha fornito l’occasione per sfogare tutto il suo risentimento e la sua indignazione nei confronti della corruzione della Chiesa e del Papato, gliele canta di santa ragione (è proprio il caso di dirlo… e, infatti, poi dirà che mentre lui gli cantava cotai note…). E dunque: Certo, il Signore, Gesù non chiese a Pietro denaro ma solo di seguirlo, di andare dietro di lui. Né Pietro né gli altri apostoli pretesero oro o argento da Mattia quando fu scelto per sorteggio al posto del traditore Giuda Iscariota. Perciò resta dove sei, perché sei a ragione, adeguatamente, ben punito. E conserva, custodisci bene (il tono è ironico, anzi sarcastico) il denaro ottenuto dalle decime e dai beni ecclesiastici (o, secondo una creduta leggenda, l’oro bizantino datogli per appoggiare una congiura antiangioina che avrebbe dovuto scatenare la rivoluzione dei Vespri Siciliani). E se non fosse che anche qui (nell’Inferno) me lo impedisce il rispetto per l’autorità spirituale (del papa) che tu rappresentasti (nonostante tutto…) nella vita terrena, userei parole ben più pesanti. Ma, in effetti, le dice perché l’obiettivo non è solo puntare il dito contro il singolo papa ma contro tutto il Papato e la Chiesa corrotti: perché la vostra (dei papi e degli altri alti prelati) cupidigia, sete di denaro e di ricchezze corrompe il mondo, lo rende malvagio, lo intristisce e lo rende infelice (per tutte le conseguenze che genera), calpestando i buoni e innalzando i malvagi (che vanno ad occupare cariche e posti che dovrebbero essere riservati ai buoni). A voi papi corrotti pensava San Giovanni Evangelista quando, nell’Apocalisse, fece la sua profezia per cui vedeva la Chiesa (la magna meretrix, la grande meretrice, la grande corrotta) che governa le nazioni, i popoli in cui ha il suo potere spirituale, vendersi, amoreggiare spudoratamente con i re (per il potere temporale); quella Chiesa che era nata dotata dei sette doni (i sette colli di Roma) dello Spirito Santo (o dei  Sette Sacramenti) e che trasse la sua forza, il suo vigore dai Dieci Comandamenti (i primi dieci re di Roma) finchè al pontefice piacque la via della virtù, delle cose spirituali. (Ma, poi, quando vi siete fatti corrompere dalla brama dei beni terreni e del potere politico) avete fatto dell’oro e dell’argento un idolo pagano da adorare; e che differenza c’è tra voi e gli idolatri, se non che questi ne adorano uno e voi invece cento (di pezzi di metallo prezioso; vuol dire: voi siete cento volte peggio di quelli!)?

Segue la celebre invettiva con protagonista la falsa donazione di Costantino: Ahi, Costantino, di quanto male è stato causa, ha cioè generato, non la tua conversione al Cristianesimo, ma quella donazione che tu facesti al primo papa (Silvestro I), ricco di potere temporale. (Secondo la leggenda, pare che Costantino, come segno di riconoscenza verso ilpapa che lo aveva guarito dalla lebbra, avrebbe donato alla Chiesa il dominio su Roma, dando inizio al suo potere politico, temporale. Si è già visto che Dante credeva a questa leggenda ma lui la attualizza per esprimere la propria analisi e visione storica in merito e per scagliare i suoi pungenti strali contro la Chiesa corrotta, che ha deviato dalla lezione di Cristo sulla povertà e sul regno di Dio che non era e non è di questo mondo. Il Sapegno parla giustamente di violenza del polemista e di tristezza dello storico).

Mentre Dante sbatte in faccia a Niccolò quelle chiare, precise, dure e inequivocabili parole con il tono appropriato (e mentr’io li cantava cotai note), sarà stato per rabbia impotente o per rimorso di coscienza (cioè per piena consapevolezza del male commesso da lui e dagli altri papi, ma forse non per pentimento), ecco che si dimena, si agita, si mette a scalciare con entrambi i piedi (o ira o coscienza che ‘l mordesse, forte spingava con ambo le piote). Dante dice di credere che, certamente, a Virgilio la sua invettiva (così ben documentata) sia piaciuta e, infatti, egli ha ascoltato attentamente le sue parole con un sorriso sulle labbra, con volto soddisfatto (con sì contenta labbia sempre attese lo suon delle parole vere espresse) per le verità sbattute in faccia ai papi e alla Chiesa corrotti (parole sincere e vere pronunciate con passione  e franchezza e, quindi, come dire: gliele hai dette bene e precise!). E Virgilio gli dimostra l’affetto e l’approvazione paterna prendendolo nuovamente in braccio come un figlio da proteggere e da salvare (la Ragione è sempre al suo fianco): perciò (però) lo prende e tiene stretto con tutt’e due le braccia e, dopo averlo tutto sollevato fino al petto, risale per la via, per il tragitto, il percorso da dove era disceso, cioè il pendio dell’argine (rimontò per la via onde discese). Non era stanco di portalo così stretto a lui, finchè non giunge sulla sommità del ponte, la parte più altra e centrale, che fa da passaggio, da ponte, cioè unisce  la  quarta alla quinta bolgia (sì men portò sovra ‘l colmo dell’arco che dal quarto al quinto argine è tragetto). In quel punto, Virgilio depone Dante delicatamente (quivi soavemente spuose il carco, cioè Dante che è prezioso carico umano), come delicatamente lo ha portato in braccio su per il ponte impervio, ripido, malagevole e alto tanto che costituirebbe un difficile e duro cammino, passaggio anche per bestie abituate a certe impervietà come le capre (soave per lo scoglio sconcio ed erto che sarebbe alle capre duro varco). Da lì, dall’alto del ponte, gli appare un’altra bolgia (la quarta: indi un altro vallon mi fu scoperto).