Trebisacce-15/01/2020: La chimica e la poetica della memoria e della scrittura come strumenti di resistenza e di opposizione alla banalità del male  nell’opera  Il sistema periodico  di Primo Levi ( di Salvatore La Moglie)

Salvatore La Moglie

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

 

La chimica e la poetica della memoria e della scrittura come strumenti di resistenza e di opposizione alla banalità del male  nell’opera  Il sistema periodico  di Primo Levi

 

di Salvatore La Moglie

Presentiamo qui di seguito una riflessione su Il sistema periodico di Primo Levi scritta da Salvatore La Moglie per un progetto dell’ITCG di Trebisacce caldeggiato dalla Dirigente scolastica prof.ssa Brunella Baratta e diretto alla rivalutazione e riscoperta di un capolavoro della letteratura italiana del ‘900 che tanta importanza ha avuto come testimonianza sull’orrore dei lager nazisti e della Shoah. Qui la proponiamo come un importante contributo per il mese della Memoria per tenere sempre vivo il ricordo di ciò che è stato e che non dovrà più accadere. Subito dopo seguirà una poesia dello stesso prof. La Moglie intitolata appunto Per non dimenticare (la Redazione de La Palestra).

 

                                       

 

 

 

 

 Il sistema periodico di Primo Levi

                   

 

 

Il Sistema periodico di Primo Levi (Torino 31 luglio 1919-11 aprile 1987) è un libro straordinario che, nel 2006, la  Royal Institution of Great Britain, la prestigiosa accademia delle scienze inglese, ha definito il miglior libro di scienza che sia stato mai scritto. La straordinarietà di questo lavoro, forse davvero il più primoleviano di tutti (secondo Italo Calvino, a lui così vicino), consiste nell’originalità, ovvero nella struttura, nell’impianto dell’opera: attraverso 21 elementi della Tavola Periodica elaborata da Dmitrij Mendeleev  nel 1869 Levi racconta altrettanti episodi di vita: ad ogni elemento è legato un particolare episodio, un pezzo di vita, un racconto-memoria, un racconto-ricordo che, quasi come delle illuminazioni, delle proustiane intermittenze del cuore vengono scritti per immortalare momenti curiosi, particolari e, il più delle volte, dolorosi della vita che vorremmo cancellare, tanto ci fanno male, ma che, poi, riteniamo come un dovere tenerli in vita e renderli eterni in quanto non sono soltanto episodi della nostra vita, autobiografici ma vicende che da personali finiscono per diventare universali e, quindi, metafore della condizione umana, della condizione di sofferenza e di dolore che gli uomini subiscono da parte di altri uomini che, erigendosi a razza superiore e pura dominante, come per es. quella ariana tanto esaltata da Hitler, finiscono per infliggere sistematicamente il Male ai propri simili, fino a studiare a tavolino campi di concentramento, forni crematori, camere a gas e altre nefandezze che per loro sono banali. Di questa banalità del male – espressione cara alla filosofa Hannah Arendt – sono pieni i librimemoria, i romanzi-testimonianza di Primo Levi che, ormai, si può certamente definire uno dei più grandi scrittori del Novecento e di livello internazionale. I suoi romanzi, racconti e saggi sono famosi in tutto il mondo e immortali sono ormai opere come Se questo è un uomo (1947), La tregua (1963), Storie naturali (racconti, 1966), Vizio di forma (racconti, 1971), La chiave a stella (1978) Lilìt e altri racconti (1981), La ricerca delle radici (1981), Se non ora, quando? (1982), I sommersi e i salvati (1986).

Il Sistema periodico è del 1975 anche se la stesura di uno dei racconti risale al 1940. Protagonisti sono 21 elementi: Argon (col quale inizia e in cui parla di tutti i suoi parenti di origine ebraica e li assimila appunto all’argon, gas nobile, inerte, inoperoso ed estraneo, cioè che tende ad estraniarsi, ad autoisolarsi proprio come l’ebreo che viene isolato ma che tende anche all’autoisolamento)  Idrogeno,  Zinco, Ferro, Potassio, Nichel,  Piombo, Mercurio, Fosforo, Oro, Cerio, Cromo, Zolfo, Titanio, Arsenico, Azoto, Stagno, Uranio, Argento, Vanadio, Carbonio. Di questi solo Piombo e Mercurio risultano essere racconti di fantasia. Nei racconti il narratore è lo scrittore-chimico Primo Levi secondo il quale la chimica era una poesia, la più alta e più solenne di tutte le poesie e la esalta come la grande amica che per tutta la vita, dai tempi del fascismo e delle leggi razziali fino all’esperienza traumatica del lager e di Auschwitz (dove non era un uomo ma solo il numero 174517), lo ha salvato e tenuto in vita. Non solo ma la chimica si era rivelata come l’unico antidoto, l’unica forma di resistenza e di opposizione al fascismo e poi al nazismo e al Grande Male da essi rappresentato. Il fascismo esigeva il conformismo, il pensiero unico che non ammette alternative e invece la chimica è ragionamento, è pensiero divergente, è  esperimento, verifica, consente di sbagliare, implica la dialettica domande-risposte, insegna a vigilare con la ragione; il fascismo e il nazismo vogliono la purezza della razza e invece il chimico Levi è fiero di essere impuro perché l’impurezza è alla base di ogni cosa: (…) Sono io l’impurezza che fa reagire lo zinco, sono il granello di sale e di senape. L’impurezza, certo: poiché proprio in quei mesi iniziava la pubblicazione di “La Difesa della Razza”, e di purezza si faceva un gran parlare, ed io cominciavo ad essere fiero di essere impuro (Zinco).

Insomma, durante la sua esperienza di chimico, Levi matura e acquisisce una solida coscienza di antifascista nonostante il regime mussoliniano avesse fatto di tutto per anestetizzare le coscienze con la sua pervasiva e onnipresente propaganda. I fari di giovani come lui che poi diventeranno partigiani sono Gramsci, Salvemini, Piero Gobetti, i fratelli Rosselli, ecc. La chimica, dunque, come arma di contestazione dell’ideologia nazi-fascista ma anche come straordinario strumento che consente di leggere, decodificare e comprendere una realtà e un mondo che appaiono sempre più incomprensibili, inspiegabili e alla rovescia. All’irrazionalità e alla menzogna del mondo a una dimensione del fascismo e all’irrazionalità e all’inspiegabilità dell’universo concentrazionario imposto a milioni di esseri umani dal regime hitleriano, fanno da contraltare la chimica e la scienza che rappresentano, appunto, il loro contrario e cioè razionalità, bellezza, giustizia, verità, uguaglianza tra gli uomini e anche una forma particolare di poesia: la poesia della bellezza del creato, della natura in cui tutto è chimica e dove gli elementi del sistema periodico convivono in perfetta armonia. La chimica, insomma, come una luce, un faro nel cuore della notte di un’Europa che, chiudendo gli occhi sul Male del nazismo per anticomunismo, era spaventosamente avviata verso la catastrofe e la carneficina della Seconda Guerra Mondiale rischiando di essere nazificata; ma, alla fine, proprio grazie alla Russia comunista si riuscì a sconfiggere il nazismo, ovvero l’incarnazione del Male Assoluto che, appunto, banalmente, aveva ridotto milioni di esseri umani in maniera tale che Levi si chiedeva se quello nei lager era davvero un uomo: se questo è un uomo.

Dunque, la chimica per Levi fu tante cose e soprattutto, insieme alla scrittura, fu memoria: è la memoria legata a episodi  e vicende dell’esperienza in laboratorio con gli elementi del sistema periodico che gli consente di mettere insieme, anche se senza un ordine cronologico, una  microstoria di un microcosmo (che vuole rispecchiare la macrostoria e il macrocosmo) fatto di pezzi di vita che devono mettere ordine nella nostra esistenza e comporre una sorta di mosaico dove, tutto si tiene e dove i conti tornano, grazie anche ai tanti flash back che la memoria, volontaria e involontaria, riesce a ordinare e rendere precisi e leggibili anche dopo alcuni decenni, dopo che, in verità, sarebbe stato meglio cancellare certe dolorosi ricordi che ancora fanno male, perché si sa che le antiche ferite sanguinano sempre e a nulla vale l’opera del tempo. Ma, in Levi, la memoria è un dovere: occorre ricordare sia per cercare di comprendere e soprattutto per non dimenticare perché, come ammoniva George Santayana, coloro che non ricordano il passato, sono condannati a ripeterlo. Il sonno della ragione genera mostri, ha lasciato detto il grande pittore Francisco Goya e così anche quello della memoria. Nel Sistema periodico la scrittura e la chimica hanno anche questa particolare funzione, cioè quella di ricordare, di non dimenticare ciò che è stato perché potrebbe ritornare. E così la chimica, da asettica e burocratica disciplina scientifica, finisce per diventare chimica dei sentimenti, poesia della vita che mai non muore, chimica militante, appunto come la chiama Levi e, quindi, non qualcosa di insensibile e puramente laboratoriale ma qualcosa di vivo e di vitale, legato alla nostra esistenza, alle nostre vicende, agli episodi, alle occasioni, alle esperienze, alle passioni, ai desideri, ai sentimenti, anche a quello dell’antifascismo e, infatti, la prima presa di coscienza sulla realtà, anche su quella politica dominata dal regime dittatoriale fascista, Levi la acquisisce grazie alla chimica e al suo lavoro nei laboratori e nelle fabbriche  dove si fanno esperimenti chimici.

In Argento Levi spiega in cosa consiste il suo libro al collega Cerrato che lo ha invitato a una cena per festeggiare, insieme ad altri, le nostre nozze d’argento con la Chimica. Si tratta, praticamente, di una dichiarazione di poetica, cioè di una visione della chimica applicata alla letteratura. Quello che intendo scrivere, spiega Levi all’amico, non sono altro che storie della chimica solitaria… a misura d’uomo: Gli dissi che andavo in cerca di eventi, miei e d’altri, che volevo schierare in mostra in un libro, per vedere se mi riusciva di convogliare ai profani il sapore forte ed amaro del nostro mestiere, che è poi un caso particolare, una versione più strenua, del mestiere di vivere. Gli dissi che non mi pareva giusto che il mondo sapesse tutto di come vive il medico, la prostituta, il marinaio, l’assassino, la contessa, l’antico romano, il congiurato e il polinesiano, e nulla di come viviamo noi trasmutatori di materia; ma che in questo libro avrei deliberatamente trascurato la grande chimica, la chimica trionfante degli impianti colossali e dei fatturati vertiginosi, perché questa è opera collettiva e quindi anonima. A me interessavano di più le storie della chimica solitaria, inerme e appiedata, a misura d’uomo, che con poche eccezioni è stata la mia: ma è stata anche la chimica dei fondatori, che non lavoravano in équipe ma soli, in mezzo all’indifferenza del loro tempo, per lo più senza guadagno, e affrontavano la materia senza aiuti, col cervello e con le mani, con la ragione e la fantasia.

Con ironia e autoironia, più spesso amara, e talvolta anche con calviniana leggerezza, Levi riesce a rendere accessibile la chimica anche a chi ne sa poco e, pertanto, il suo libro finisce per avere anche un carattere divulgativo e pedagogico. Per Primo Levi la chimica e l’esperimento in laboratorio erano come cercare la chiave interpretativa della realtà, una chiave per le grandi verità che era sicuro che non avrebbe trovato nella scuola, dove somministravano tonnellate di nozioni che digeriva con diligenza, ma che non gli riscaldavano il cuore. La chimica, per lui, era un metodo, uno strumento particolare di comprensione del mondo, un particolare grimaldello che gli consentiva di trovare la legge, l’ordine in lui, attorno a lui e nel mondo (così apprendiamo in Idrogeno). La sua chimica militante gli fa dire (in Nichel) che: Siamo chimici, cioè cacciatori: nostre sono “le due esperienze della vita adulta” di cui parlava Pavese, il successo e l’insuccesso, uccidere la balena bianca o sfasciare la nave; non ci si deve arrendere alla materia incomprensibile, non ci si deve sedere. Siamo qui per questo, per sbagliare e correggerci, per incassare colpi e renderli. Non ci si deve mai sentire disarmati: la natura è immensa e complessa, ma non è impermeabile all’intelligenza; devi girarle intorno, pungere, sondare, cercare il varco o fartelo. Dopo un entusiasmante esperimento chimico Levi, sempre in Nichel, scrive: Pensavo di aver aperto una porta con una chiave, e di possedere la chiave di molte porte, forse di tutte. Pensavo di aver pensato una cosa che nessun altro aveva ancora pensato, e mi sentivo invincibile e tabù, anche di fronte ai nemici vicini, ed ogni mese più vicini. Pensavo, infine, di essermi presa una rivincita non ignobile contro chi mi aveva dichiarato biologicamente inferiore.

In un’altra storia di chimica militante, in Oro, c’è il racconto della cattura e della prigionia di Primo Levi come partigiano antifascista. La libertà è come l’oro, è qualcosa di prezioso, anzi non ha prezzo, sembra dirci l’autore tra le righe. Scrive Levi che lui e i suoi amici scrivevano poesie ed erano antifascisti ma che il fascismo aveva operato, per anni, negativamente sulle coscienze: Se non sbaglio, tutti scrivevamo poesie… Scrivere poesie tristi e crepuscolari, e neppure tanto belle, mentre il mondo era in fiamme, non ci sembrava né strano né vergognoso: ci proclamavamo nemici del fascismo, ma in effetti il fascismo aveva operato su di noi, come su quasi tutti gli italiani, estraniandoci e facendoci diventare superficiali, passivi e cinici.

Tuttavia presto avvenne una profonda maturazione e una decisiva presa di coscienza sulla realtà e sul mondo che viveva la propria notte: Nel giro di poche settimane ognuno di noi maturò, più che in tutti i vent’anni precedenti. Uscirono dall’ombra uomini che il fascismo non aveva piegati, avvocati, professori ed operai, e riconoscemmo in loro i nostri maestri, quelli di cui avevamo inutilmente cercato fino allora la dottrina nella Bibbia, nella chimica, in montagna. Il fascismo li aveva ridotti al silenzio per vent’anni, e ci spiegarono che il fascismo non era soltanto un malgoverno buffonesco e improvvido, ma il negatore della giustizia; non aveva soltanto trascinato l’Italia in una guerra ingiusta ed infausta, ma era sorto e si era consolidato come custode di una legalità e di un ordine detestabili, fondati sulla costrizione di chi lavora, sul profitto incontrollato di chi sfrutta il lavoro altrui, sul silenzio imposto a chi pensa e non vuole essere servo, sulla menzogna sistematica e calcolata. Ci dissero che la nostra insofferenza beffarda non bastava; doveva volgersi in collera, e la collera essere incanalata in una rivolta organica e tempestiva: ma non ci insegnarono come si fabbrica una bomba, né come si spara un fucile.

Ci parlavano di sconosciuti: Gramsci, Salvemini, Gobetti, i Rosselli; chi erano? Esisteva dunque una seconda storia, una storia parallela a quella che il liceo ci aveva somministrata dall’alto? In quei pochi mesi convulsi cercammo invano di ricostruire, di ripopolare il vuoto storico dell’ultimo ventennio, ma quei nuovi personaggi rimanevano “eroi”, come Garibaldi e Nazario Sauro, non avevano spessore né sostanza umana. Il tempo per consolidare la nostra preparazione non ci fu concesso: vennero in marzo gli scioperi di Torino, ad indicare che la crisi era prossima; vennero col 25 luglio il collasso del fascismo dall’interno, le piazze gremite di folla affratellata, la gioia estemporanea e precaria di un paese a cui la libertà era stata donata da un intrigo di palazzo; e venne l’8 settembre, il serpente verdegrigio delle divisioni naziste per le vie di Milano e di Torino, il brutale risveglio: la commedia era finita, l’Italia era un paese occupato, come la Polonia, come la Jugoslavia, come la Norvegia. In questo modo, dopo la lunga ubriacatura di parole, certi della giustezza della nostra scelta, estremamente insicuri dei nostri mezzi, con in cuore assai più disperazione che speranza, e sullo sfondo di un paese disfatto e diviso, siamo scesi in campo per misurarci…

E, ancora, ecco cosa si legge, in Cromo, sul mestiere di scrivere che lo aveva sempre aiutato nel duro mestiere di vivere, come lo chiamava Cesare Pavese a Levi così caro: Lo stesso mio scrivere diventò un’avventura diversa, non più l’itinerario doloroso di un convalescente, non più un mendicare compassione e visi amici, ma un costruire lucido, ormai non più solitario: un’opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s’industria di rispondere ai perché. Accanto al sollievo liberatorio che è proprio del reduce che racconta, provavo ora nello scrivere un piacere complesso, intenso e nuovo, simile a quello sperimentato da studente nel penetrare l’ordine solenne del calcolo differenziale. Era esaltante cercare e trovare, o creare, la parola giusta, cioè commisurata, breve e forte; ricavare le cose dal ricordo, e descriverle col massimo rigore e il minimo ingombro. Paradossalmente, il mio bagaglio di memorie atroci diventava una ricchezza, un seme; mi pareva, scrivendo, di crescere come una pianta. Ero pronto a sfidare tutto e tutti, allo stesso modo come avevo sfidato e sconfitto Auschwitz e la solitudine… È lo spirito che doma la materia, non è vero? Non era questo che mi avevano pestato in testa nel liceo fascista e gentiliano?…

Infine, memorabile è il racconto finale Carbonio, ovvero il racconto della storia di un atomo di carbonio col quale Levi dice di voler concludere il libro. Un libro che non è un trattato di chimica e neppure  un’autobiografia, se non nei limiti parziali e simbolici in cui è un’autobiografia ogni scritto, anzi, ogni opera umana: ma storia in qualche modo è pure. In verità, avrebbe voluto essere, una microstoria, la storia di un mestiere e delle sue sconfitte, vittorie e miserie, quale ognuno desidera raccontare quando sente prossimo a conchiudersi l’arco della propria carriera, e l’arte cessa di essere lunga. Proprio verso il carbonio – dice Levi al lettore – ho un vecchio debito, contratto in giorni per me risolutivi. Al carbonio, elemento della vita, era rivolto il mio primo sogno letterario, insistentemente sognato in un’ora e in un luogo nei quali la mia vita non valeva molto: ecco, volevo raccontare la storia di un atomo di carbonio… Il carbonio, infatti, è un elemento singolare: è il solo che sappia legarsi con se stesso in lunghe catene stabili senza grande spesa di energia, ed alla vita sulla terra (la sola che finora conosciamo) occorrono appunto lunghe catene. Perciò il carbonio è l’elemento chiave della sostanza viventeSi può dimostrare che questa storia, del tutto arbitraria, è tuttavia vera. Potrei raccontare innumerevoli storie diverse, e sarebbero tutte vere. Il numero degli atomi è tanto grande che se ne troverebbe sempre uno la cui storia coincida con una qualsiasi storia inventata a capriccio. Potrei raccontare storie a non finire, di atomi di carbonio che si fanno colore o profumo nei fiori; di altri che, da alghe minute a piccoli crostacei, a pesci via via più grossi, ritornano anidride carbonica nelle acque del mare, in un perpetuo spaventoso girotondo di vita e di morte, in cui ogni divoratore è immediatamente divorato…

Insomma, bisogna dire proprio che Levi è riuscito benissimo sia nel mestiere di chimico che in quello di scrittore che lui, nel Sistema, definisce il mestiere di rivestire i fatti con parole. La chimica militante da una parte e la letteratura, la scrittura dall’altra gli hanno consentito la possibilità di poter testimoniare sul cuore di tenebra costituito dall’orrore dei lager nazisti e di imprimere in più di un libro la memoria delle atrocità di cui l’uomo è capace e sulle quali resta sempre assordante il silenzio di Dio.  E il pur laicamente religioso Levi ha poi finito per non credere in Dio: C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo, ha dichiarato una volta in un’intervista. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre, ha lasciato detto il chimico-scrittore Primo Levi. Conoscere, cercare di comprendere la radice del Male, testimoniare attraverso la memoria, la scrittura, la letteratura e magari anche con l’arma della chimica affinchè giustizia e verità possano trionfare sul Male e sulle offese del mondo e della Storia: questo è quello che ha fatto magistralmente Primo Levi, per il quale ci appaiono davvero appropriate le parole che Herbert Marcuse ha scritto in Eros e civiltà: Dimenticare sofferenze passate significa dimenticare le forze che le provocarono, senza sconfiggerle. Le ferite che guariscono col passare del tempo sono anche ferite, che contengono il veleno. Contro questo fatto di arrendersi al tempo, il restaurare i diritti del ricordo, quale veicolo di liberazione, è uno dei compiti più nobili del pensiero

          

Salvatore La Moglie

         

Per non dimenticare

    

 

Auschwitz, Mauthausen, Dachau, BergerBelsen,

Treblinka, Buchenwald… luoghi di sofferenza

e di morte, moderne dantesche bolge per felici

luoghi di lavoro spacciate con tanto di insegna

all’entrata: Arbeit macht frei, il lavoro liberi

rende… e quindi felici e contenti… E si lavorava

certo, eccome!, e poi nel più atroce dei modi si

moriva già nella dignità e nell’umanità colpiti.  

Sistematico annientamento morale psicologico

spirituale e infine anche corporale. Ne sapeva

qualcosa Primo Levi che ogni giorno se questo è

un uomo si chiedeva. E per resistere a tanto banale

male più di un libro scrisse per  un’esigenza certo

personale ma anche per consegnare la memoria

dell’incredibile orrore alle generazioni future e ignare.

E sembra impossibile e irreale che l’uomo – che

pure raggiunge così alte vette – possa arrivare a

progettare cose tanto ripugnanti e abiette. E forse

non si sbaglia il Poeta quando scrive che la vita

oscilla tra il sublime e l’immondo con qualche

propensione per il secondo…

E dunque: riflettere e ricordare  per non

dimenticare perché, come ha insegnato il 

Santayana, chi non ha memoria del passato a

riviverlo è condannato. Tenendo sempre presente

nella mente che esiste una sola razza, quella umana.