
Trebisacce-04/04/2022: COMMENTO AL LIBRO SI SALVATORE LA MOGLIE – DANTE E IL ROMANZO DELLA DIVINA COMMEDIA – L’INFERNO (di Pino Cozzo)
COMMENTO AL LIBRO SI SALVATORE LA MOGLIE – DANTE E IL ROMANZO DELLA DIVINA COMMEDIA – L’INFERNO
Il romanzo è un genere letterario basato su regole fondamentali, per sua natura mutevole, sia negli argomenti che negli stili e che non ha né una tradizione né un modello ideale a cui fare riferimento. La caratteristica principale del romanzo è quella di imitare, riflettere, deformare e sognare il mondo reale. Il termine romanzo risale all’età medievale ed era usato per indicare le lingue neolatine, dette anche lingue volgari, in opposizione alla lingua latina. La distinzione tra i prodotti romanzeschi antichi, definiti romance e il romanzo moderno, definito novel, si fonda su un mutamento nella visione del mondo e della vita; il romance vuole infatti creare un mondo ideale, nobile e distaccato dalla realtà, popolato da eroi che affermano le proprie virtù, mentre nel novel la percezione del mondo reale è sempre presente e i personaggi sono impegnati in una ricerca del senso della vita. Ma, la caratteristica più rilevante è che esso debba terminare in modo positivo, la conclusione debba essere positiva, ed è quello che accade con la Divina Commedia, perché termina con la Cantica del Paradiso, e non avrebbe potuto terminare meglio.
La materia e il “materialismo” trionfano nell’Inferno di Dante, poiché la pena più profonda pervade tutta la Cantica e non cancella il peccato, anzi, lo perpetua ed è turpe, tutto ciò che è sulla terra, per il poeta, è contaminato e necessita di purificazione: il viaggio nell’Inferno è un percorso di degradazione e di perdizione. Il paesaggio è squallido, desolato, fatto di strapiombi e dirupi, rocce e paludi, foreste spettrali, deserti immensi e distese di ghiaccio: un dipinto catastrofico, fatto di sconforto e dolore. Vi è una cappa di morte, tutto è buio e cancella il tempo, è la metafora della vita, fatta di tristezza e abbattimento. Il clima tetro in cui si sviluppano i racconti narra di una drammaticità intensa e profonda, ma anche umana, che attiene ad ogni essere, che ne pervade corpo ed anima, che segna il percorso terrestre degli uomini e delle donne, trasversale ad ogni epoca. Si leggono belle storie, come quella di Paolo e Francesca, quelle meno appassionate, come quelle di Farinata o Pier delle Vigne, di Ulisse e del conte Ugolino, fraudolenti o traditori. In tutte, però, vi è il giudizio severo, inflessibile, duro e di condanna di Dante, in una narrazione drammatica che non si percepirà più nel Purgatorio e, soprattutto, nel Paradiso. Elevata e coinvolgente è, comunque, la poesia, alto il valore linguistico, profondo l’uso della terminologia e delle rime. Il viaggio è una discesa in un abisso di conoscenza del peccato sempre più atterrita e sconvolgente, afferente a paesaggi e personaggi, di violenti scontri tra duri contrasti ed aspri tormenti, una natura inospitale e matrigna, ripide pareti rocciose e sentieri aspri da percorrere. Se, all’inizio, c’è il dramma metaforico interiore del buio e dello sconforto, vi è anche l’idillio gioioso del paesaggio del paradiso terrestre, fatto di fiori, erbe verdi ed acque limpide, che esprimono la metafora del sentire umano che si avvicina alla meta agognata: la beatitudine. D’altronde, l’esperienza del Paradiso, per Dante, resta qualcosa che non si può narrare con parole umane, poiché è il vivere dell’anima che si annulla, nella contemplazione della verità e della celestiale visione. E’ una verità fatta di luce e raggi di sole, che si fa più viva ed intensa a mano a mano che l’animo si accosta a Dio, e Beatrice, sua splendida guida, rappresenta insieme la grazia e la certezza rivelate, ed è per questo che la sua beltà diventa tanto più sfolgorante, quanto più procede il viaggio e quanto più ci si avvicina all’ambita meta. E, per far ciò, il Poeta narra continue similitudini, tratteggia spettacolari quadri, che nessun abile scenografo avrebbe saputo rappresentare, dipinge magiche coreografie, in cui il vero protagonista è il fantasmagorico gioco di luci che si rincorrono e si trasformano. Nella Commedia, convivono numerose e sottese informazioni, vi si trova rigore strutturale, un riscontro tra le tante corrispondenze espresse, una complessa simmetria di riferimenti o situazioni narrative, ma Dante sa magistralmente esprimerle e metterle insieme, fornendone un quadro completo ed armonioso. L’ordine col quale il Poeta rimette tutto insieme ripropone una complessità di situazioni narrative, e costituisce una gabbia in cui vengono rinchiuse tutte le anomalie del mondo. La meta ultima, Dio, traguardo del lungo viaggio, rappresenta per Dante qualcosa che non è possibile esprimere a parole, che non è appannaggio dell’umana specie, pur esaltandone la dolce posizione del cuore. In esso si trovano le anime dei giusti, dei beati, dei timorati, di coloro che sono vissuti di grazia, non vi è gerarchia, non vi è differenza, non vi è primo o ultimo, non vi sono posti a scalare, non vi è un solo spazio, ma si comprendono tutti gli spazi in cui indulgere benevolmente e seraficamente.
L’incipit dell’autore nella prefazione riferisce di come per i giovani sia più accattivante utilizzare il cellulare, chattare sui social, darsi appuntamento nei locali per consumare qualcosa, piuttosto che leggere Dante, e, nello specifico, la Divina Commedia. Insomma, si cerca di crearsi un mondo di finzione e di illusioni. Ma c’è un antidoto all’illusione, ed è la conoscenza, è l’applicazione, perché si superi anche l’antinomia tra mondo degli adulti e mondo dei giovani, poiché l’esistenza è unica e si ha un unico, comune scopo. Chi si accinge a esplorare la vita deve essere educato a riconoscere le promesse ingannevoli e a non prestarvi fede, anche se i messaggi inviati dai mezzi di comunicazione sono che l’aspetto probante della vita è il piacere, e non esiste alcuno sforzo o impegno, per guadagnarsi, con la quotidiana applicazione, il diritto a vivere una dignitosa esistenza, onde poi svegliarsi un giorno, guardarsi allo specchio e ritrovarsi frastornati, per essere venduti poi come merce di scambio. Ovviamente, la nostra generazione è più legata a Dante e ai suoi insegnamenti, che sono numerosi, perché la Commedia ha settecento anni e non li dimostra, è sempre attuale, possiede indicazioni ed insegnamenti trasversali, che, con l’età si guardano con occhi sempre diversi, perché essa è uno stupendo mix di fede e ragione.
(Inferno I, 42)
E’ il canto introduttivo della Commedia, in cui Dante erra, impaurito e smarrito, in una intricata selva, senza sapere nemmeno perché vi sia capitato. Poi, intravede un gioioso colle illuminato dai raggi del sole, e il suo cuore si rallegra. Ma per poco, perché tre fiere gli impediscono il passaggio, una lonza, un leone e una lupa, che gli smorzano la speranza di poter progredire. Il vate Virgilio, però, si palesa ed indica al Poeta la via per salvarsi; per attraversare il regno della perdizione, della penitenza e della condanna eterna, dovrà sperimentare il peccato e il riscatto dalla colpa, e solo così potrà ascendere al regno della Luce e delle beatitudini, per riposare nella contemplazione della perfezione e della verità. Virgilio incarna la guida ideale in questa prima parte del “grande viaggio” e rappresenta la ragione e il bel discorrere umano, pacato, che sa fornire giusti consigli, in tutto una figura paterna, che si rende manifesto nella melodiosità della parola e nella tranquilla fermezza dell’eloquio. Paura e speranza, angoscia e tranquillità, peccato e salvezza sono i contenuti fondanti del canto, che vengono esplicitati con le immagini del buio e della luce, carichi di realismo e di allegorie. La “selva oscura” come simbolo del peccato e della perdizione, e il “dilettoso monte” come simbolo della speranza e del luogo sicuro. La leggerezza e la rapidità della lonza offrono l’immagine della lussuria, come abbandono lascivo al piacere, alle passioni incontrollate, allo svago e al diletto o al divertimento fine a sé stesso. Il paesaggio, dunque, inteso come uno stato d’animo, nel bàratro spaventoso dell’Inferno, in una rappresentazione che appare colma di intenso raccoglimento e profondo stupore, come a dire, l’umanità è ben poca cosa, e l’orrore del peccato la sovrasta. Per Dante, invece, è necessaria una trasformazione della coscienza, un irrobustirsi nell’uomo interiore, grazie allo Spirito di Dio, per cui dobbiamo essere strumenti della Sua presenza con la parola e le opere, per favorire una completa comunione col Lui, con un impegno e un rinnovamento seconda l’anima.
(Inferno I)
“Tu sei il mio maestro e il mio autore preferito, sei colui dal quale ho tratto il mio bello stile letterario, che mi ha tributato tanta fama”. Inizia la meravigliosa avventura di Dante nella fitta e buia selva che lo spaventa, nella quale si sente smarrito e terrorizzato, ma, ad un tratto, scorge una figura, quella di Virgilio, che gli appare come un’ombra, che gli addìta la strada attraverso la quale potrà salvarsi, non prima di aver percorso il regno della perdizione, del dolore e della penitenza. Il Vate guiderà il Poeta nell’oltretomba, e sarà il simbolo per antonomasia della ragione, della pacatezza, del pensare umano. Si rende visibile nel discorrere con Dante, nel suo ardito consigliarlo, nel suo benevolo prendere decisioni per l’allievo. E’ il Magister, che manifesta una delicatezza di parola e una fermezza di espressione. L’oscurità dell’ambiente, l’allegoria del luogo sono il simbolo figurativo dello smarrimento fisico e morale delle tenebre spirituali. Lì, quel già piccolo uomo sembra ancora più confuso e sperduto, e l’opprimente peccato che aleggia fa apparire la persona un nonnulla, e l’orrore del vizio il tutto. Questa umana e dolorosa condizione ci dice che il peccato è entrato nel mondo e, con esso, la morte. Anche Gesù ha assunto la condizione umana, ha provato angoscia e dolore, ha emanato forti grida e lacrime, ma si è sempre abbandonato alla volontà del Padre, così come Dante deve affidarsi a Virgilio, prima, e Beatrice, dopo, per superare indenne questo irto cammino. Tutto ciò per dimostrare che ognuno di noi, dopo la vita terrena, trova un’esistenza ancora più alta, donando la sua definitiva adesione a Dio, e senza il pericolo di perderlo. La vita dei defunti è felice per i giusti e un po’ più triste per i malvagi. E’ vero, è un concetto difficile da assimilare, ma ognuno dovrà comparire davanti al tribunale supremo di Dio per rendere conto del proprio operato. Questo è l’alto insegnamento che ci viene dato.
(Inferno II)
DANTE: IL CANTO I DELL’INFERNO E IL CAMMINO DELLA REDENZIONE
di Pino Cozzo
Dante ancora una volta ha timore di affrontare il temerario passo, poiché teme che le sue virtù non siano tali da sostenerlo e guidarlo nel viaggio ardimentoso dell’oltretomba. Con il corpo corruttibile, Enea scese nel regno delle tenebre, ma Iddio aveva stabilito che da lui e dai suoi discendenti sarebbe nata Roma, la grande, che prima avrebbe conquistato e unificato il mondo, e poi, sarebbe stata la sede del successore di Cristo e di S. Pietro. E ancora, S. Paolo sarebbe diventato il soldato di Cristo, dopo essere stato il suo più acerrimo persecutore. Virgilio, come al solito, rimprovera Dante di essere vile e pavido, e gli racconta che, mentre si trovava nel Limbo, venne a cercarlo una donna, nobile e bella, che gli chiede di soccorrere il Sommo poeta, smarrito e pauroso nella selva oscura del peccato e del disimpegno, atterrito dalla presenza delle tre fiere, e lo prega di riportarlo sulla via della salvezza e della tranquillità. C’è nel Cielo una donna gentile e splendida a cui piace ciò, Maria Vergine, la madre di Gesù e di tutta l’umanità, che fece chiamare Santa Lucia e le affidò Dante. La santa andò da Beatrice, donna tanto amata e venerata in vita dal poeta, con i suoi lucenti e splendidi occhi come stelle, con la sua voce angelica e ferma, e perciò appare chiaro che egli, protetto da queste siffatte e cotali donne, debba superare i suoi timori, deve ricercare e ritrovare il coraggio e la serenità, deve insomma scuotersi dal torpore e confermarsi nel proposito di affrontare quel periglioso viaggio, che tanti insegnamenti e ammonimenti lascerà nell’umanità di ogni tempo e di ogni luogo. Il canto dunque vive e si fonda su sulla solita eccelsa poesia, sospeso tra il cielo e la terra, tra le ombre e il fulgore, tra l’incertezza e la verità. La notte buia della morte del Cristo, che già prefigurava tristi presagi, è stata benigna testimone del più amorevole disegno di Dio. A lei è toccato di avvolgere gli insani gesti con il suo manto pietoso, lei è stata scelta per confondere ed offuscare le menti. Ha nascosto una trama immobile e sospetti prestabiliti. Gli astri e le stelle, atterriti, si sono occultati. Nessuna colpa, la sua, ché merito, anzi, ne ebbe di dare al mondo a sua intrinseca natura. Il suo greve sguardo e il suo volto scuro si sono sciolti in un sorriso e in un abbaglio, e il sole è tornato a risplendere, ed essa è diventata luce di speranza. Gli eccelsi esempi di conversione che vanno da S. Paolo a San Francesco d’Assisi, da S. Agostino al Manzoni, ed altri, meno roboanti che accadono quotidianamente, ci narrano che tutti noi, prima o poi, sentiamo una Voce, alla quale in molti diamo ascolto. La risurrezione non è solo o tanto la vittoria di Cristo sulla morte e quindi un suo trionfo, ma è soprattutto la causa della nostra gioia e della nostra salvezza, della certezza che se Lui è riuscito a far questo, anche noi, che siamo suoi fratelli, possiamo essere eredi della stessa sorte nell’eternità. Egli, dunque, regna con la forza dell’amore, perché è stato servo umile e obbediente, che ha ascoltato il Padre e, con mansuetudine, ha donato sé stesso. La storia resta, oggi, una drammatica lotta tra il bene e il male, e Cristo vive in essa, per orientarla, se solo noi riusciamo a dare ascolto alla Sua voce e ai Suoi insegnamenti, attraverso le tante attuazioni della verità, della libertà, della bellezza, della pace, della natura, per attuare la vocazione dell’uomo, quella dell’amore e della fratellanza, con un’attenzione agli ultimi.
Inferno Canto III
Qui, si vive nell’eterno e irreversibile dolore, si sta tra la gente che non ha alcuna speranza di poter un giorno migliorare la propria condizione di anime perdute, si inizia a parlare di giustizia e di divino potere, si viene invitati, anzi ammoniti, ad abbandonare ogni più flebile speranza nell’entrare in questi ambienti. Queste premesse pesano come macigni sull’animo di Dante e di ogni lettore che si accinga giustamente e doverosamente a leggere la Commedia, e sono il preludio alle immagini ed al linguaggio forte di cui è pervasa la Cantica, e non potrebbe essere altrimenti. I suoni, i colori, il paesaggio sono un crescendo di sospiri, pianto, dolore, lamenti fanno da sfondo e sottofondo alle figure delle anime dannate. Attraversando la porta, Dante si trova al cospetto degli ignavi, che sono circondati da insetti molesti e brulicanti, e gli angeli che hanno deciso di rimanere neutrali davanti alla Maestà di Dio, dopo la ribellione e la caduta di Lucifero, e, in tal contesto, si fa presente Caronte, canuto, anziano, con gli occhi che sembrano di brace ardente, che urlerà altre parole minacciose ancora più spettrali che il suo aspetto. Le anime qui presenti non sono gradite a nessuno, né ai fedeli di Dio, né ai suoi nemici, perché non hanno saputo fare né il bene né il male, e sono condannati ad un disprezzo universale. Ed anche Virgilio si mostra duro nei loro confronti, perché invita Dante a non soffermarsi troppo tra di loro, ma di andare oltre, poiché non meritano nessuna attenzione. Il Poeta invece interroga più volte il suo Vate sul significato delle espressioni dei condannati, non ne comprende il senso, e Virgilio, con modi affettuosi ed amichevoli, gli risponde che sono cose che avranno una risposta a tempo debito, in un’ambientazione di terrore provocata da Caronte che apostrofa in malo modo i dannati, bestemmiando e lanciando improperi, finché, sopraffatto dal tremendo frastuono che lo circonda, Dante non sviene. Si potrebbe commentare che queste anime incontrate da Dante non abbiano avuto possesso di fede e ragione, perché altrimenti la fede, quella vera, operata come scelta di vita nell’essere docili all’opera dello Spirito Santo, evidenziata in diversi modi, si fa segno di un atteggiamento esistenziale, che ci dà la certezza di essere amati, di non essere soli, di non vivere nel nulla, ci dispone ad accettare noi stessi e gli altri, a farci prossimo di tutti, ci offre il coraggio di andare incontro all’ignoto. Credere significa aprirsi, uscire da un guscio, fidarsi di qualcuno, obbedire, mettersi in cammino, con coscienza, per mettersi alla sequela di Cristo, assumendo un atteggiamento operoso, che consente a Dio di agire per mezzo di noi, di essere strumenti nelle sue mani. In tal modo, ogni persona, in un disegno preordinato da secoli, acquista un valore unico ed assoluto, è parte di un progetto eccelso ed imperscrutabile, è chiamata alla eterna comunione con Dio nell’eternità, in una dimensione di spirito, corpo, cultura, famiglia e società. E la fede opera per mezzo della carità, quella stessa dimostrata dal viaggio dei magi e dal loro negare la collaborazione ad Erode, nell’anelito di ogni cristiano verso la definitiva perfezione che va oltre la storia e si perde nell’eternità, che sperimenta già nella vita terrena, si sente risanato, assapora la beltà del vivere, anche nel lavoro e nella sofferenza, che lo assimilano al Cristo.
Inferno Canto IV
Dall’orlo di una valle dolorosa, Dante ascolta lamenti penetranti che giungono dal profondo del bàratro, ma, soprattutto, si accorge che Virgilio appare piuttosto abbattuto, ma la sua non è paura, è invece pietà per quelle anime dannate e sofferenti. Si trovano nel Limbo, in quella parte cioè dell’aldilà in cui si trovano i bambini morti prima che ricevessero il sacramento del battesimo, e gli adulti che non poterono essere salvati, o perché anch’essi non battezzati, o perché non hanno saputo rispettare ed adorare Dio. Anche Virgilio è fra costoro, che non soffrono altra pena, se non quella di desiderare di conoscere Dio e nella speranza di soddisfare questa loro aspirazione. In questo ambiente, una volta, c’erano anche Adamo e Abele, i patriarchi e i profeti, i giusti ebrei, ma Gesù, quivi disceso, dopo la loro morte terrena, li liberò e li portò con sé in Paradiso. Nello stesso cerchio, si trovano i sapienti, i filosofi, in poeti dell’antichità, che abitano un nobile castello dove brilla un’intensa luce, sono cioè quei personaggi che hanno avuto un grande nome e una vasta fama che ancora si riverbera nel mondo dei vivi. Ecco perché possono godere del privilegio della luce, riservata a coloro che sono stati onorevoli per lignaggio e opere. In questo contesto, Dante è il “sextus datur” insieme con Omero, Orazio, Ovidio e Lucano, e ovviamente Virgilio, in mezzo a tanta scienza e conoscenza. E’ dunque il canto della maestà e della maestria della vita, dell’intelligenza e della nobiltà della cultura, si assapora un clima di reverenza e di apprezzamento per quelle nobili anime, la poesia che si palesa è una celebrazione della grandezza dei personaggi, e persino il lessico utilizzato celebra onore alle anime ed assume un significato altamente morale. Il Poeta si veste di emozione, nutrito di esaltante presenza della bella compagnia di gran signori della saggezza e della cultura, che si traduce in un magnifico emblema di esteriore compostezza e signorilità che rappresenta un’interiore ed eccelsa dignità.
CANTO QUINTO – JOHN DONNE
Nessun uomo è un’isola
Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te.
Il significato
Quante volte ci è successo di sentirci completamente soli, abbandonati nel mare della vita, staccati dalle persone che ci circondano, incapaci di cogliere il senso della nostra esistenza. Per descrivere questa sensazione, John Donne si avvale di un’immagine molto efficace, una metafora che, per la sua forza rappresentativa, si è scolpita nell’immaginario comune: la visione di un’isola in mezzo al mare. Un’isola che, per sua stessa natura, è destinata a rimanere sola come una monade, scollegata dal resto del mondo. Ma è qui che il poeta ci spalanca un’altra visione, altrettanto suggestiva: “Ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto”. Questi versi ci invitano a cogliere la nostra vita come parte di una dimensione più grande, a cui apparteniamo e di cui possiamo percepire le connessioni vibranti. Quello di John Donne è un invito a sentirci parte del tutto, ma anche a essere empatici, a sentire il dolore dei nostri “fratelli” come parte della nostra stessa sofferenza.
DIDONE E ULISSE – FRANCESCA E PAOLO
L’amore tra Enea e Didone è considerato un amore ingiusto, un amore crudele e un amore che consuma l’anima senza lasciare pietà. Enea è il figlio della dea Venere e l’umano Anchise. Dopo la guerra di Troia, Enea, avrebbe seguito tanti destini, fino a fondare la sua stirpe in Italia. Didone era una bellissima principessa,f iglia del re Belò e moglie di Sichèo. Rimasta vedova, incontra Enea ed i due si innamorano, una passione travolgente che segnerà le loro vite. Enea racconta con viva partecipazione le proprie pene e accresce l’amore nel cuore della regina Didone, già ferita da Cupido sotto le spoglie di Ascanio. Di fronte a Didone il personaggio di Enea sembra quasi annullarsi, egli appare incapace di prendere decisioni autonome e di provare sentimenti forti e personali, come quelli che invece prova e manifesta Didone. Enea non è altro che uno strumento del Fato, appartiene cioè ad una volontà molto più grande e forte di lui a fronte della quale non può fare resistenza. Purtroppo il re dell’Olimpo, attraverso Mercurio chiama Enea e gli ordina una nuova partenza. Didone viene travolta da un profondo dolore e mentre osserva le navi troiane che salpate si allontanano da Cartagine e mentre la fiamma divampa, si trafigge il cuore.
FRANCESCA E PAOLO
Simbolo insieme di amore e di sfida, di passione e di peccato, Paolo e Francesca rappresentano con efficacia i due poli del conflitto interno all’amor cortese, quello tra la tensione nobilitante e la tensione distruttiva della stessa passione amorosa. E’ infatti viva la contrapposizione tra la concezione che edifica, la donna vista come strumento di elevazione a Dio, bellezza mistica da contemplare e ammirare, e quella propria della nascente tradizione cortese, dove i sensi trionfano sull’intelletto. Già, perché se l’amore è quel sentimento che lega irresistibilmente ed indissolubilmente una persona, nell’anima e nel corpo, ad un’altra, al quale spesso è impossibile sottrarsi; se l’amore, nella sua sacralità, riempie ogni rapporto e lo rende stabile e ineludibile, sotto il dominio della sua forza; se l’amore, quasi sempre, esclude ogni possibilità di libertà e di scelta, questo si compie in chi docilmente si lascia coinvolgere. La sacralità dei fili del sentimento nel rapporto d’amore, che si piega alle leggi della natura, e lo rende un’irripetibile emozione individuale, quella reciproca intesa metafisica, a volte idilliaca, a volte più terrena, gioiosa e triste, quel fremito che trascende i confini dell’immanente, anche se ad esso rimane avvinto, trovano ovvia sintesi in un esito fatto di impegno e scelte. L’amore lieto, sincero, genuino, che prevarica la condizione di precarietà, un amore fondato sulla roccia dell’incrollabilità, un amore cieco ed abbagliante, chiuso nell’orbita della certezza, per apprezzare la felicità di un’unione intensa e vibrante, sempre teso alla sacralità dell’amore. D’altronde, chi non ama sé stesso, non può amare gli altri, non ne può conoscere la vibrante scossa, non può attingerne in profondità la linfa vitale.
(Inferno V)
Costituisce, il canto quinto dell’Inferno, un inno all’amore, inteso come dolcezza, gusto e piacere, ma anche, in taluni casi, come peccato, ed anche come pietà, concepita come compassione della umana fragilità e come scuotimento della coscienza. Un “cum patire”, che, in questa terzina , si rifà all’amore sciolto da ogni vincolo spirituale, in Didone, e in quello che scivola e si conforma ad arte della seduzione, in Cleopatra, e culminerà con la passione amorosa e concreta di Paolo e Francesca, che cedono al desìo ed alla passione. Questo quadro intenerisce Dante, che ancora si lascia andare al pianto e alla commozione, in un’aura intrisa di dolore che rappresenta ancora la realtà dura dell’Inferno, che solo il leggiadro allontanarsi di Paolo e Francesca, uniti, sembra alleviare, in una eterna felicità amorosa, che pure, in quel contesto, viene resa vuota e quasi inutile: “Amor, ch’a nullo amato, amar perdona”. Francesca non trascende, rappresenta uno status di umanità, fragile ed appassionata, colpevole, certamente, contraddittoria, ma capace di suscitare ed incutere elevate ed irresistibili emozioni e fremiti. Amor omnia vinciti: l’amore è quel sentimento che lega irresistibilmente due persone, al quale spesso è impossibile sottrarsi, un segno di sacralità, che riempie ogni rapporto e lo rende a volte stabile e ineludibile, sotto il dominio della sua forza, ed esclude ogni possibilità di libertà e di scelta. La sacralità dei fili del sentimento di un rapporto d’amore, che si piega docilmente alle leggi della natura, e lo rende un’irripetibile emozione individuale, che trascende i confini dell’immanente, chiuso nell’orbita della certezza, per apprezzare la felicità di un’unione intensa e vibrante, tesa alla designazione dell’amore sacro
(Inferno, VI)
Noi passavamo, ci muovevamo, calpestando le ombre delle anime che la pioggia pesante abbatteva, senza poter evitare di poggiare i nostri piedi sopra i loro corpi immateriali, che peraltro sembravano persone vere.
Qui, sono puniti i golosi, flagellati dalla pioggia, dalla grandine e dalla neve, ricoperti ad aeternum dal fango e insidiati da Cerbero, la crudele fiera, che vessa le anime dannate. In questo contesto, Ciacco, diminutivo, ma anche dall’ambiguo significato, che coglie l’occasione del passaggio di Dante, per annunciargli una profezia sulla città di Firenze, che sarà colta da guerre interne, dalla superbia e dall’invidia, suddivisa in fazioni. La legalità dovrebbe riconoscere il primato della legge rispetto all’interesse individuale, e vietare di tenere comportamenti che ledano irragionevolmente gli interessi altrui. Essa è strettamente associata al concetto di comunità, complesso di cittadini che stanno insieme, perché legati da una storia e da una memoria comune, è correlata all’idea di responsabilità e di solidarietà condivise, e comporta rispetto per le proprie Istituzioni e per il proprio Paese. E quando tutto ciò non viene garantito, allora, sarebbe cosa buona e giusta sollevare gli animi e la voce, per far sentire che nessuno, e per nessuna ragione, può intaccare i diritti di una collettività che si organizza per assicurare un vivere dignitoso ed un futuro ragionevole alla propria discendenza. Superata la ragion politica e sociale del dispetto e della ripicca, sono rimasti scoperti gli interessi materiali che, illegalmente, all’ombra di quella ragione, si costituiscono; è rimasta l’abitudine all’impunità e al sopruso; sono rimaste la cattiva prassi e le pessime abitudini, sono rimaste troppe arroganze e troppe prepotenze .
(Inferno VII)
Dante e Virgilio scendono nel quarto cerchio, dove Pluto è a guardia delle anime degli avari e dei prodighi, di coloro cioè che sono stati puniti perché hanno fatto cattivo uso del denaro, e si consuma un rituale già noto: Pluto cerca di impedire a Dante di scendere, ma Virgilio ordina alla bestia di scansarsi e di far passare. Le due schiere di condannati, l’una da una parte e l’altra da quella opposta, sono costrette a spingere degli enormi massi col petto, e quando si incontrano, si scambiano parole di ingiurie, rinfacciando gli altrui vizi, e poi girano ancora e si ripete la scena. Dante allora vede anche dei preti e ne chiede ragione a Virgilio, che gli spiega che sono là perché non hanno saputo in vita usare con misura le loro ricchezze, e dunque non meritano né ricordo, né attenzione. E allora, proseguendo, i due Poeti giungono al fiume Stige, dove, sepolte nel pantano, stanno le anime degli iracondi, sono nude e sporche di fanghiglia e si percuotono e mordono con irruenza. Vi è una totale negazione di umanità, nessuna comunicazione di sentimenti, e sono oggetto dell’indignazione di Dante. L’atteggiamento polemico del Poeta e dell’aspro giudizio che ne consegue si fonda su un aspetto prettamente umano, e viene accompagnato da una serie di suoni aspri, duri e sferzanti, in metafore singolari e impietose, con un simbolismo fonologico accattivante ed espressivo. Ed è questa la concezione grandiosa ed ineguagliabile della “Commedia”. Essa viene concepita in un clima di profetica visione: in essa vi è una lucida, puntuale e mistica analisi, all’interno della storia umana di un destino globale e universale. Questo meraviglioso e ascetico pellegrinaggio nell’aldilà, in cui vengono analizzati, con superba maestria ed elevato senso religioso, il male e la becera corruzione del mondo, costituisce un viaggio in cui, attraverso l’espiazione dovuta, si giunge finalmente e in modo agognato alla gloria del Paradiso. Rappresenta, comunque, il percorso di redenzione individuale e di riscatto universale che, per il tramite del poeta, si riverbera a tutta l’umanità, la quale, in questa sublime storia, narrata in modo magistrale, coinvolge tutta l’umanità. La Commedia trasuda questa inebriante aura di grandezza, di consapevole ostentazione, di una certezza incrollabile, che viene direttamente trasmessa al lettore, e non lascia alcun margine al dubbio o al sospetto. L’approccio alla Commedia deve essere intriso di cautela e di rispetto, senza troppa cordialità, con ammirazione e stupore, e, forse, senza la pretesa di comprenderla fino in fondo, perché essa compendia l’intero scibile di una civiltà, insieme con le sue attese e le sue paure, in una stupenda sintesi di scienza e fede.
(Inferno VIII)
Vi si scorge un racconto veloce, ambientato in un’atmosfera pericolosa e colma di insidie, si alternano le immagini, i gesti sono repentini. Di fianco ai due poeti, passa rapido un nocchiero che urla violentemente, tutto avviene con rapidità, ed anche lo scambio di battute è molto concitato, quasi fosse un litigio, in cui lo spirito di Filippo Argenti, della famiglia degli Adimari di Firenze, cerca anche di far rovesciare la barca su cui si trovano Dante e Virgilio. Solo il tempestivo intervento del Vate impedisce che avvenga, respinge quello spirto maledetto “verso gli altri cani” e lo rimprovera aspramente, tanto che Filippo, per la rabbia, morderà sé stesso. E’ una forma di rivincita per Dante, la cui famiglia aveva già avuto motivi di alterchi con gli Adimari, e gode nel vedere Filippo umiliato e miserevole, già dal luogo in cui è immerso, fatto di sudiciume e fango, che lo lorda tutto. Se il Poeta vuole descrivere e porre in essere un cane impazzito come l’Argenti, anche lui deve immergersi in un’aura di follia, e questo canto ne è un chiaro esempio di assimilazione e commisurazione. Sì, si può comprendere, che per fornire insegnamenti ai superbi, sia necessario inabissarsi al centro della terra, per riparare ed espiare l’alterigia, bisogna genuflettersi dinanzi al Padre, è per spiegare il pietoso sguardo sull’umanità peccatrice, che il Signore perdona alla creatura superba.
I tanti abbassamenti ed umiliazioni con cui ci è stato donato Dio e a Lui siamo stati uniti in un connubio di Santo Amore imprimono alla sofferenza l’aspetto della perfezione umana. Soffrire vuol dire diventare più profondamente donne e uomini, e la generosità nella umiliazione si raddoppia.
(Inferno X)
In questo clima di elevata dignità, che appare non consono all’Inferno, è ambientato l’incontro di Dante con Farinata degli Uberti, che si rivolge al Poeta con una gentilezza antica, le cui parole vibrano di una trascorsa nostalgia per la perduta patria, poi, si innalza in tutto il suo corpo, tanto che lo si può contemplare completamente. L’ergersi di Farinata in tutta la sua persona non manifesta un orgoglio eccessivo, evidenzia invece una nobiltà d’animo ed uno status doloroso, in cui vive il personaggio, disposto ad accettare la condanna della pur dura giustizia divina, ma non concepisce l’ingiustizia umana dettata dalla storia. Il sentimento di Dante per Farinata è inaspettatamente d’ammirazione, per cui si fa fatica a concepirli come avversari e a limitare l’episodio ad un mero gesto di contrasto tra nemici, ma è altrettanto vero che non possa approvare tutto nell’operato degli Uberti, poiché essi, con la loro superbia e la loro cupidigia di dominio e di possesso, minarono la pace e la prosperità di una città e di un popolo. E Dante, con la sua sfrenata sete di giustizia e col desiderio ardente di dare loro insegnamenti probi, non poteva dimenticare a cuor leggero questo neo nel quadro complessivo della sua valutazione. La vita di una persona e il suo agire non devono essere considerati come un affare privato, senza rilevanza in ambito storico e sociale. Il disordine presente in alcune realtà ne condiziona le scelte, che a volte sono davvero aberranti e censurabili, e così il nucleo fondante della dottrina comune, basato su verità etiche, è una fonte inesauribile di ispirazione per costruire una società ordinata che segua il naturale scorrere delle cose.
(Inferno XI)
Dante non vuole perder tempo, vuole rendersi conto della situazione che regna in quell’ambiente, ne chiede spiegazione a Virgilio, che gli manifesta come sia l’ordinamento dell’Inferno, come siano ripartiti le pene e i peccatori, quale sia il sistema di comminazione delle punizioni, a seconda della mancanza commessa. Egli dice che il fine ultimo dell’azione malvagia dell’uomo e l’ingiuria, la violazione del diritto altrui, che può accadere per violenza o frode. Dunque, in questo ambiente che visitano in questo canto, si trovano i violenti, e che lo si può essere in tre modi: contro Dio, contro sé stessi e contro il prossimo. Ed è appunto per questo che questo cerchio è diviso in tre settori, e, in fondo, ci sono coloro che fecero ingiuria per frode, giacché essa è determinata da un cattivo uso della ragione, ed essa può essere esercitata ai danni di chi si non fida, ma anche su chi ha fiducia in colui che poi lo raggira. E’ un intermezzo apprezzabile per il gioco mirabile delle simmetrie, dell’ordine maniacale delle suddivisioni, di una rigorosa scienza che non ha dubbi nel suo espressivo ragionamento. Nella Divina Commedia, la poesia e la dottrina camminano di pari passo, sono la struttura portante dell’Opera, costituiscono l’ossatura di un ordinato ragionamento e di una geniale costruzione. Vi è poi espresso il concetto di Plauto dell’homo homini lupus, valido per i tempi in cui visse Dante e, a maggior ragione si potrebbe riproporre oggigiorno. Spesso, si fa fatica a pensare che ci possa essere odio e cattiveria nelle azioni di un uomo contro un suo simile, che la violenza fine a sé stessa mortifichi chi la subisce e non gratifica chi la commette, che gli eccidi e le distruzioni certamente non danno lustro al genere umano e lo mettono in inimicizia col Creatore e datore della vita. Una forma di violenza può essere forse la colonizzazione, avvenuta sin dall’epoca dei Romani, il cui obiettivo era, forse, allora, solo quello di dimostrare la grandezza di un popolo, la perfetta organizzazione di un esercito, il desiderio di allargare i propri orizzonti e di affermare una supremazia incontrastata. Altri tempi. Si è passati, poi, alle colonizzazioni del 18° secolo, quando gli spagnoli, i portoghesi, i francesi hanno fatto rientrare nella loro politica l’idea di occupare delle terre col pretesto di esportare la nobile civiltà europea. E così hanno fatto gli inglesi, soprattutto nell’America settentrionale, il nuovo mondo, che necessitava di appropriarsi di un’organizzazione tale da permettere ad una società di decollare. In effetti, lo scopo era quello di utilizzare le preziose risorse vergini presenti in quei luoghi. Tutto ciò ha forse manifestato dei lati positivi. Per orientarsi e orientare, vi è bisogno del discernimento, di quella capacità di scegliere ciò che è buono da ciò che non lo è. Esso deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti: esso è la scure. Esaminare, dunque, e tenere ciò che è buono, dopo aver fatto una cernita. Non lasciamoci rubare la Comunità: evangelizzazione e (è) comunità. La fraternità cristiana è rappresentata dal fatto di diventare una cosa sola con Cristo e che anche i cristiani diventano una cosa sola tra di loro e ciò significa di conseguenza una cancellazione dei confini naturali e storici che separano. Deve perciò regnare l’éthos, ma anche il pathos e il logos. Le parole del Signore al giovane ricco “perché mi chiami buono, nessuno è buono, se non Dio solo, significa forse che noi, immagine del Dio buono, dobbiamo a nostra volta essere buoni, una “corporatio cum Christo”. Non esiste l’io con il tu e il voi, ma il noi. Pronunciare il no a questo, e il sì a quello costituisce la libertà di azione che il Signore lascia ad ognuno di noi. I quattro verbi della generatività sono il desiderare come scelta tra il bene e il male, quando il desiderio si avvolge su sé stesso, non coinvolge l’altro, è autoreferenziale, diventa egoismo; il partorire è la mediazione della vita, una forma di compartecipazione al progetto di vita del Signore; il prendersi cura, l’I care di Don Milani, il far crescere, educare e guidare alla fede, alimentandola continuamente; il lasciare andare, trasmettendo anche i valori fondanti del cristianesimo e della vita. Un cenno infine a coloro che si danno la morte volutamente, e la danno a tante vittime innocenti, in nome di un credo che suggerisce loro di immolarsi, perché il dio in cui credono riserverà loro un posto privilegiato nell’aldilà ed ai familiari che restano dei sussidi terreni. E’ difficile scoraggiare chi ha scelto la morte alla vita, il male al bene, il ghigno al sorriso, bisogna solo affidarlo ad una misericordia sublime che ne perdoni l’operato.
(Inferno XII)
“Un po’ più in là, il centauro si fermò vicino ad altre persone, che sembrava uscissero dal flusso di sangue bollente dalla gola”. Qui, espiano le loro colpe coloro che hanno commesso violenze contro il prossimo, sono immersi in una massa di sangue caldo e sono sorvegliati a vista da una schiera di centauri. Questi rispingono i dannati nel fiume Flegetonte, se solo accennano ad uscirne per cercare un po’ di sollievo dalla pena. Quando scorgono i due Poeti, tentano di fermarne l’avanzata, ma Virgilio, in modo garbato ma risoluto, fornisce una convincente motivazione che convince il capo Chirone a lasciarli passare. E’ una condizione indispensabile, perché Dante deve continuare il suo viaggio e niente e nessuno può fermarlo, e dunque fa nascere nella mente dei dannati, confinati in quella buia e dolorosa valle, una visione di inattesa beatitudine, che si manifesta in melodiosi canti. Si riafferma la condizione che i due viaggiatori non siano dei dannati, sui quali i centauri possano esercitare la loro autoritaria azione di ostacolo, e, in nome di Dio, chiedono di poter proseguire il loro cammino, agevolato da uno di essi, che, fattosi più prossimo, li porti in groppa e faccia loro oltrepassare il guado. Il concetto “dell’Homo homini lupus” nasce dal fatto che non riusciamo a pensare che ci possa essere odio e cattiveria nelle azioni di una persona contro un suo simile, che la violenza fine a sé stessa mortifica chi la subisce e non gratifica chi la commette, che il sopruso non dia lustro al genere umano e lo metta in inimicizia col datore della vita.. L’ultimo afflato di una forza vivente e di un’energia attiva si accosta a quel legno verde su un legno secco che ha dato un senso all’umanità, ha redento l’uomo, lo ha riaccostato a Dio, ha nobilitato l’animo, e che raccoglie tutta la sua linfa per gridare “ PACE”.
(Inferno XIII)
Nella Cantica dell’Inferno, si intravede l’immagine del mondo spettrale e brutale, immersa in un’aura di dolore, buio e gemiti. Ne è esempio la selva che abbraccia il fiume Flegetonte, dove sono sistemate le anime dei suicidi e degli sperperatori. Dante e Virgilio entrano in una selva fitta ed intricata di piante e fronde, i cui rami sono nodosi e contorti, dove vivono le Arpie, mostri dalle apparenze terrificanti, che posseggono intelligenza umana e malignità demoniaca. Nella mitologia greca, esse erano considerate rapitrici e l’origine del loro mito deve forse ricondursi a una personificazione della tempesta. Dante incontra l’anima di Pier della Vigna, che narra la sua vita, il tempo vissuto allegramente, l’intimità e l’amicizia con Federico II, la fedeltà nello svolgere il nobile incarico o offizio, e poi la caduta, l’invidia e il rancore dei cortigiani con le loro perfide trame e il repentino cambiare dal lieto onore ai tristi lutti e quindi la drammatica decisione del suicidio. Dante ancora una volta è colto da pietà ed dunque Virgilio ad interrogare il dannato, che racconta di come l’anima che morendo si stacca dal corpo e viene precipitata da Minosse nella terribile selva e diventa un seme che germoglia e dà vita alla pianta. E allora, le Arpie, pascendosi delle foglie, ne fanno scempio. Ma ancor peggiore è la situazione dei corpi ripudiati appesi ai rami con l’eterno mònito del contrappasso. Lo smarrito Poeta è sopraffatto da timore, indecisione e pietà e tutto ciò viene espresso da un simbolismo lessicale e stilistico in cui si colgono suoni stridenti, onomatopee macabre che forniscono al canto un’atmosfera di tortura e sofferenza e di disarmonia. Questo apparente sconcerto vuole invece fornirci un insegnamento diverso. E’ invece necessario possedere uno Spirito di fortezza che ci dia il coraggio necessario per rispondere a tutti gli inviti del Signore Dio ed alla Tua Parola. La forza della fede che ci unisce a Lui, la forza della speranza che abita nella certezza della vittoria del bene, la forza dell’amore che non indietreggia di fronte a nulla, ma che ci fa prossimo dell’altro, per raggiungere l’unico e Sommo Amore. Possedere forza della sincerità che ci ripara dalle false apparenze, la forza della purezza, che domini istinti e passioni illusori e passeggeri, la forza della fedeltà che ci consenta di passare indenni attraverso le lotte e manifesti l’attaccamento al Signore. Passi l’alito di Dio come brezza che fa fiorire l’amore, passi il Suo sguardo per farci godere di orizzonti lontani, ci sfiori la Sua mano perché possiamo sentirci protetti, ci sia vicino il Suo passo perché possiamo camminare al sicuro, ci alimenti la fiamma del Suo spirito perché sia per noi energia infinita. La fortezza presuppone dunque un impegno perseverante, continuo; è l’espressione di una fede matura, sentita, pronta ad affrontare la lotta contro il male, con la tentazione, la debolezza tipica della natura umana. Tutto ciò è possibile per noi, per chi si lascia guidare docilmente dalla parola e dal richiamo del Signore, perché abbiamo come esempio la croce sulla quale Egli si è lasciato morire, per dimostrarci che quello deve essere l’esempio da imitare per chi vuole essere suo fratello. E’ sempre il Signore che dà la forza per affrontare tutto. Per affrontare la giornata, per superare le tentazioni, le prove, il dolore. Egli ha reso storicamente forti diversi personaggi: Mosè, che ha guidato il suo popolo, Davide, che ha sconfitto Golia, San Paolo, che ha annunciato la sua salvezza, nonostante le minacce che sono sfociate nella morte. Ed altri sono gli esempi grandi, i modelli a cui dobbiamo conformarci: primo fra tutti San Giovanni Battista. E poi San Francesco, d’Assisi e di Paola, Sant’Antonio, Santo Stefano, San Pio, Santa Chiara, Santa Rita, Madre Teresa di Calcutta. Dobbiamo, dunque, lottare con il Signore e per il Signore con le armi della fede. Anche se il cielo incombesse su di noi, non avremmo paura. Anche se una voce ci ripetesse che siamo degli illusi, noi dovremmo ripetere che siamo contenti di esserlo. Anche se ci deridessero per i nostri gesti di attaccamento a Dio, dovremmo offrire a Lui le nostre pene e mortificazioni. Pensiamo che sono invidiosi. Ad ogni nostro dubbio, dobbiamo ripetere: Credo, Signore, aumenta la mia fede. Amo, Signore, aumenta il mio amore. Non è facile avere la forza d’animo. Pietro, scoraggiato dagli avvenimenti della cattura di Gesù, lo rinnega. Ma poi gli dice: Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente.
(Inferno XV)
In questo canto, si narra l’incontro di dante con Ser Brunetto Latini, maestro del Poeta, che sopraggiunge insieme con un gruppo di anime, che per la curiosità aguzzano gli occhi, per meglio rendersi conto di ciò che stia accadendo. E’ un passo in cui il linguaggio acquista l’espressione della meraviglia, delle esclamazioni, degli interrogativi, ma, soprattutto, della gioia di rivedersi. Brunetto si interessa al viaggio del discepolo, ne chiede spiegazioni, vuol saper il perché, come un buon padre, e Dante gli narra dello smarrimento nella selva oscura, del ritorno sulla dritta via, ed altri particolari e vicende. Ma poi, il dialogo assume il carattere della profezia, ampia e solenne, in cui Brunetto rimpiange e si rammarica di aver dovuto interrompere l’opera educatrice nei confronti del valente allievo, e gli predice l’immortalità, ovviamente letteraria, nonostante l’invidia e il contrasto manifesto dei fiorentini, che, a suo dire, sono maligni, ciechi, ingrati ed indegni. E’ un canto che ovviamente rievoca intimità e confidenza tra i due personaggi, è un momento di nostalgia, in esso, Dante ricorda la sua infanzia, le sue speranze, e anche le sue delusioni e l’ansia della speranza di fare bene, operare secondo coscienza e scienza, cosa che non sempre accade in generale, e non accadeva nella Firenze del ‘300.
Gesù è il vero divino Maestro che insegna, che ammaestra, che persuade, che consola, che sostiene, è la vera fonte della vita, che guida le intelligenze più eccelse ed indirizza le menti di tutti coloro che a Lui si affidano ciecamente e si mettono docilmente nelle sue mani. Gesù è il Maestro, il nostro Maestro e il Maestro di tutta l’umanità, di quella che a Lui si affida, ma anche di quella che in Lui non crede, l’unico, il solo, quello che deve rappresentare il nostro modello, a cui noi dobbiamo ispirarci, quello al quale rivolgersi per qualunque dubbio o difficoltà esistenziale o di dubbio. Tutti gli altri maestri possono essere di valido aiuto, nella misura in cui, a loro volta, o prendono Gesù quale riferimento supremo, oppure, per una ragione o per l’altra, sono suscettibili di indirizzare le intelligenze e le anime verso di Lui; e questo vale, ad esempio, per quegli autori classici, come ad esempio Virgilio, nei quali vi è una sensibilità naturale cristiana, ed è appunto lui che Dante sceglie come guida e vate. La scelta di Virgilio come guida nei primi due regni dell’oltretomba non è stata una scelta casuale. Dante è un grandissimo estimatore di Virgilio, e, sin dalla sua giovinezza, Dante ha sempre studiato la figura di Virgilio e soprattutto l’Eneide. Dante quindi vede in Virgilio la figura ideale come sua guida in un viaggio che solo un grandissimo poeta come Dante poteva fare e raccontare con versi meravigliosi. Dopo questo viaggio Dante infatti sarà un altro uomo. Non più lo spaurito e anonimo viaggiatore che va in pellegrinaggio nell’aldilà per liberarsi dal peccato e dai dubbi, ma un uomo consapevole del valore della sua e dell’altrui vita, un uomo che ha raggiunto Dio e porterà sempre con sé il ricordo di questa visione. Virgilio e Dante sono come padre e figlio, tant’è vero che Virgilio chiama Dante “figlio” e Dante chiama Virgilio “Padre”. Virgilio è un grande poeta dell’età classica, certamente ricordato per aver scritto opere meravigliose, ma è e verrà ricordato anche come colui che ha accompagnato Dante nei regni dell’oltretomba.
(Inferno XVII)
Protagonista del canto è Gerione, un mostro che falsamente rappresenta un uomo giusto, col corpo a mo’ di serpente e piuttosto contorto, incute insieme un’aura di paura e di meraviglia, non solo e non tanto per le sue particolari sembianze, ma la sua manifesta invadenza, che, nel suo muoversi fiero, col suo particolare odore, infesta l’aria. Nonostante tutto, il Poeta, nella sua elevata voglia di conoscere e continuare il suo viaggio, si fa trasportare da questo essere atipico, esortato dal suo Vate ad essere coraggioso e ad avere forza d’animo, e, con tremore e vergogna, si stringe a Virgilio, quasi come un bambino, per ritrovare sicurezza, e si lascia andare ad un volo in una lenta caduta nel vuoto. Nell’Inferno, il timore è insito nelle cose che lo provocano più che nella persona che lo avverte; in questo frangente, consiste nella mancanza di solidità, nel buio e nell’incertezza. Qui, si trovano gli usurai, in una degradante condizione, tale da non consentire che si riconoscano, non parlano, ma si esprimono in gesti d’animali e smorfie bestiali. Lottare per la legalità ed i soprusi, affermare i principi del rispetto delle leggi, educare i giovani a queste virtù, è divenuto sinonimo di lotta alle prevaricazioni, di contrasto al complesso di norme non scritte che regolano le comunità costruite sull’illegalità, basate sul predominio violento di pochi e sullo sfruttamento e l’oppressione dei più. Molto spesso, il sopruso e l’arroganza sono più vicini di quanto non si pensi, e sono, quotidianamente, sotto gli occhi di tutti, anche se noi facciamo finta di essere ciechi e sordi. Superata la ragion politica e sociale del dispetto e della ripicca, restano l’abitudine all’impunità e al sopruso; permangono la cattiva prassi e le pessime abitudini, rimangono troppe arroganze e troppe
(Inferno XVII)
In ogni opera letteraria, sono molto importanti i colori, ed il bianco è fondamentale nella gerarchia delle sfumature. Uno spazio bianco può anche rappresentare l’intervallo tra una narrazione e l’altra, ed infatti, l’arrivo di Gerione in questo canto segna il passaggio ad uno nuovo racconto. Gerione è il mostro con il viso falso di uomo giusto, dal corpo a guisa di serpente, seducente e tortuoso, dalla coda velenosa e biforcuta, che ingenera un clima di paura e meraviglia, capace di una dirompente invadenza, col suo passare distruggendo tutto e ammorbando tutta l’aria. Vi è l’incontro con gli usurai, che stanno qui col corpo immobile, agitando invece le braccia, per cercare di scuotere le fiamme che li assalgono. E’ una condizione di deformità che non consente riconoscimenti, e quasi nessuna parola, ma solo gesti, smorfie e versi animaleschi. Ritorna il tema della paura, ma Virgilio sprona Dante ad essere coraggioso e forte di spirito, e a non farsi impressionare dal vuoto, dal buio e dalla mancanza della possibilità di vedere e di rendersi conto di ciò che lo circonda. E’ la metafora del peccato, di fronte al quale il Poeta si pone con contorni certi e delineati, come visione del mondo, è forte la coscienza della verità e lineare la fondatezza dell’azione, per concedere uno spazio all’esistenza, trascendente o pratica, di inquietanti tentennamenti e vecchie angosce. Dante ripropone la stigmatizzazione del peccato come apertura alla fede nella risurrezione, come gioia di vivere un’esistenza che ha trovato finalmente il suo fondamento e la sua ragione, che continua a essere faticosa, segnata dalla contraddizione e dalle smentite, ma che, nel contempo, è consapevole di essere vittoriosa sulla morte, perché fondata sulla fedeltà dell’amore di Dio. Il gemito della creazione quantunque entusiasta della risurrezione di Gesù Cristo e della vita nuova che gli è donata rappresenta una novità di vita che egli esperimenta come rinascita e libertà
(Inferno XX)
Dante osserva una schiera di dannati che procedono muti e in lacrime, e si accorge che la loro testa è girata rispetto al corpo, e dunque, con questo aspetto così deturpato, sono costretti a camminare all’indietro. Sono gli indovini, i maghi, gli stregoni, costretti ad espiare la loro colpa per aver cercato di prevedere il futuro, arrogandosi un diritto riservato solo a Dio: volevano vedere avanti, ed ora guarderanno in eterno indietro, col loro corpo storpio. Per un attimo, però, il Poeta dimentica di essere un giudice inflessibile e si commuove, si ferma e piange col capo chino, appoggiato ad un muro, prova dolore e pietà per quelle anime, e viene severamente ammonito dal suo vate, che gli dice che quella gente non merita alcuna compassione. Lo invita invece ad osservare quegli antichi maghi, scorge Manto, che, nel suo girovagare, si fermò nella terra sulla quale doveva poi sorgere Mantova, città natale di Virgilio, anche se il nome non derivò proprio dai riti magici dell’indovino. La pietà e la commozione non sono sentimenti da denigrare, esprimono la naturalità dell’umana specie, un “cum patire” che viene inserito in una visione morale e religiosa, e mostra una nobiltà d’animo, reso pronto ad accogliere amore, misericordia e carità. Quella pietà che riesce a conservare un cuore di fanciullo, innocente, trasparente e puro come una sorgente cristallina, che non assapori le tristezze, ma sia pronto a donare, e non dimentichi alcun bene ricevuto. Un animo umile, capace di amare senza condizioni, pronto a sciogliersi negli altri cuori, colmo di gratitudine, che possa essere saziato di gloria solo in cielo. E con S. Paolo, potremmo dire di essere pronti a compiere opere di misericordia, da realizzare con gioia e zelo, senza finzioni, gareggiando nello stimarci e nell’amarci a vicenda, con fervenza di spirito, lieti nella speranza e solleciti nell’accoglienza, per portare a compimento il vero culto e la reale missione spirituale.
(Inferno XX)
E’ il canto degli indovini, dei maghi, delle fattucchiere, di coloro che cercano di prefigurare il futuro e si arrogano un diritto che certamente non attiene all’uomo, ma è di esclusivo appannaggio del Signore, che tutto ordina e tutto dispone per i suoi figli, per la Gloria eterna. Anche Dante si emoziona e si muove al pianto, quando si trova di fronte a determinate situazioni di tragicità, di profondo dolore e di drammatici contrasti. La Pietas è compassione nel senso etimologico della parola, cioè il patire insieme, predisposizione dell’animo gentile a ricevere amore, misericordia e, perché no, aiuto. Come tutti i canti della Commedia, anche questo è un invito al lettore, quello più attento, a ripensare alla stoltezza ed inutilità di quel peccato, ad avere un giudizio autonomo, non influenzato dal Poeta che peregrina, ma a riconoscere che ci fu pietà e che fu piena e completa. Dio si fa conoscere agli uomini con la Passione; la sua bontà e benevolenza verso l’umanità vi si dimostrano ampiamente, e ci indicano che non soltanto egli irradia amore, ma che è l’amore nella sua massima intensità. Il dolore porta in sé l’aspetto del Dio misericordioso, ce lo fa scoprire ed apprezzare. La pietà popolare, espressione della missione cristiana della Chiesa, è in continuo sviluppo, e guarda al Buon Pastore che aiuta, conforta e ama, ma mai giudica. La pedagogia dei riti e delle liturgie, come quelle che si celebrano in questo tempo forte di Quaresima, rappresenta un buon viatico di formazione e acculturamento alla vita, secondo lo Spirito di Dio. A coloro che partecipano alla Passione si applicherà in futuro la sentenza del giudice romano: «Ecco l’uomo», plasmato ed ingigantito dal dolore. D’altra parte, se la sofferenza mostra l’uomo nella sua debolezza fisica e nella sua grandezza morale, rivela, in Gesù, Dio stesso.
(Inferno XXII)
E’ la quinta bolgia, di cui i diavoli sono i custodi, che qui dominano la scena, esseri strani, bizzarri, crudeli e dai modi animaleschi, che offrono spettacolo nei loro rapporti con i due visitatori e coi dannati. Questi sono immersi nella pece, non si vedono, e, quando tentano di uscirne, vengono subito con la forza costretti a rituffarsi in essa. L’episodio dei diavoli deve essere inserito nel contesto narrativo della Cantica, e anche se vi sono alcune scene che possono far sorridere, l’intenzione del Poeta è senz’altro diversa, poiché si tratta pur sempre di ammonimenti morali e di un processo umano e sociale catartico, al quale i diavoli sono preposti per comminare la giusta punizione. I due visitatori vanno insieme ai demòni, che potrebbero sembrare una compagnia malvagia, gretta, cattiva e orribile, quasi da rifuggire, ma si sa, bisogna sapersi adattare a seconda degli ambienti, si sta in chiesa coi santi e i beati, e si sta nei luoghi più malsani con gente poco raccomandabile: tutto dipende dallo scopo che ci si prefigge di raggiungere e dalle necessità contingenti. E quando lo spirito del male, nemico di Dio e degli uomini, si insinua nell’animo e cerca di compiere proselitismo, tenta per indurre a peccare, lui che si è già si è ribellato al Padre, allora deve subentrare in noi il Consiglio che ci ispiri a scelte più conformi alla volontà di Dio, con una specie di intuizione soprannaturale che aiuti a giudicare prontamente e sicuramente ciò che conviene fare e a decidere il modo di regolarsi per sé o per gli altri, senza esitazioni e dubbi, grazie al tocco dello Spirito Santo. E’ il mònito di Dante a seguire i consigli del Cristo, che rappresentano realizzazioni concrete della carità e sono pertanto obbligatori, il dovere di compiere opere buone per essere sale e luce del mondo, il perdono, la riconciliazione con i fratelli, sono fonte di salvezza, l’impegno ad entrare per la porta stretta in vita, per accedere da una porta spalancata in Paradiso.
(Inferno XXXIII)
In questo canto, i due poeti se ne vanno taciti e soli, uno dietro l’altro, quando incontrano un diavol nero, in cerca del peccatore da punire, e subito dopo, anche gli altri, con l’ali tese, che creano, se possibile, un’aura ancor più pregna di terrore. E Virgilio si fa protettivo nei confronti di Dante, come un padre che voglia proteggere suo figlio dal fuoco e portarlo in salvo
(Inferno XXV)
Dalla giustizia divina, giungono le orrende mutazioni a cui Dante assiste in silenzio ed inorridito, e domina incontrastato l’orribile, spaventoso e spietato ambiente della metamorfosi. Essa si fa strada con l’arrivo di tre dannati che si rivolgono ai Poeti con voci che rendono ancor più opprimente il silenzio, instaurano un clima di attesa e di paura. Mostri e uomini si confondono e si avvinghiano, e il mutamento è ancor più terrificante, poiché le forme umane si cambiano in bestie e queste assumono le fattezze dell’uomo. Si scorge, dunque, il senso della trasformazione, in cui Dante evidenzia il profondo sentimento della miseria umana e della divina giustizia, e nel quale si coglie la tipicità delle straordinarie vicende nel loro particolare sviluppo di un animo paziente, pio e concentrato. Il punto centrale non è vedere come i peccatori patiscano e scontino la pena, ma come il Poeta li scorga e ne avverta i patimenti, e nel considerarlo non come osservatore e narratore di drammi e sofferenze, ma come pellegrino in cerca di Dio, che conosce il lato oscuro e la negatività del peccare, sperimenta l’atrocità della pena, con la voglia di assistere a esperienze salvifiche e si pone come spettatore di spettacoli ed eventi eccezionali e sovrumani. Più probabilmente, le descritte trasformazioni sono la metafora del rinnovamento della vostra coscienza, poiché irrobustiti nell’uomo interiore, la nostra conversione sia il frutto finale del rinnovamento, attraverso il potere dello spirito di Dio, che ci renderà come dobbiamo essere: collaboratori del Dio Vivente e strumenti della Sua presenza e della sua forza. Anche negli insegnamenti di Dante, la chiave del rinnovamento passa per la conversione, la decisione di cambiare, di iniziare quell’esodo del cuore che può portarci a rivivere il nostro antico amore. La purezza di cuore è quella porta stretta che conduce alla libertà di amare totalmente Dio e i fratelli.
(Inferno XXVI)
E’ il canto del viaggio di Ulisse, l’eroe della magnifica avventura da lui vissuta e narrata, il percorso della conoscenza, della voglia di sapere e capire, tanto forte e radicata nel suo animo, da spingere anche gli altri, i suoi compagni, verso la rovina e la morte. E’ sì quella un’esperienza apparentemente comune, in cui si vivono avvenimenti condivisi, ma è anche il racconto della solitudine, dell’immensità e della grandiosità degli spazi, di quel mondo fatto di silenzio e di imprevisti. Quel viaggio nell’ignoto e nell’incertezza scaturisce da ogni parola della narrazione di Ulisse e permea la storia più del protagonista. Forse potrebbe apparire un difetto, poiché tutta la vicenda dell’epico andare è costellata di una luce dal significato morale, sia del protagonista che del suo dramma. Si pone allora in risalto l’intrinseca natura che è colma di affetti familiari, che pure allontana in nome di un afflato più grande che spinge a verificare e a comprendere, a coinvolgere i suoi compagni, ma a comportarsi non come un capo, ma come amico e come guida, nel tentativo di convincerli e coinvolgerli nell’immane impresa. Dopotutto, l’eroe itacese e il poeta fiorentino sono accomunati dallo stesso carattere e da un intento condiviso, quello di essere degni di meritare stima e gratitudine per aver vinto una guerra e conquistato un popolo, e quello di aver additato la giusta via della lode e del premio, lontani dalle mancanze e dalle negligenze. Il Signore, nel suo amore infinito, gratuito e misericordioso, va incontro ai più deboli e li chiama ad essere suoi fratelli e discepoli, conferendo loro quella dignità che nessuna circostanza o persona può annullare o sminuire. Gesù stesso si è fatto povero e umiliato, si è fatto ultimo degli ultimi, è stato perseguitato e crocifisso, ma ha esultato in Dio e lo ha lodato, e ha gioito con Lui e per Lui.
(Inferno XXXI)
Ritornano il silenzio e il vuoto, in un contesto che a Dante sembra fatto di torrioni, ma che invece sono giganti, come avrà modo di spiegargli Virgilio. La descrizione fisica del Poeta ci dà una sensazione di misurazione e di grandezza, anche nel concepire l’ampiezza dell’Inferno, ma la profondità, la lontananza, l’enormità degli spazi sono più misurabili con la cadenza dei versi, sulla eco delle parole e sui numeri. Questa immensità spiega anche l’ansiosa aspettativa di Dante, è proporzionata alla sollecitudine di Virgilio e si manifesta tanto più orribile, quanto più si svela nella visibile realtà. Ed è altrettanto importante la visione prospettica del Poeta, che, per mezzo della musicalità delle parole e con le misure, riesce a comunicare la grandezza dei giganti. E’ il caso allora di Nembròt, di cui si vede l’enormità del viso, delle spalle, del petto, del ventre e delle braccia, e di Anteo, il quale, dopo aver adagiato i Poeti sul fondo dell’Inferno, appare maestoso come l’albero maestro di una nave. Ma, quei colossi, enormi fisicamente, hanno l’animo arido di umanità e colmo di miseria spirituale. Anche in questo Canto, si avvertono il fondo e il senso di moralità, nella convinzione che la forza fisica fine a sé stessa non valga , se non le si affianchi sapienza e virtù. Per riflettere il Cielo, non è necessario essere dei titani, basta essere delle piccole gocce trasparenti, dove possano regnare l’éthos, il pathos e il logos, immagine del Dio buono, per formare una “corporatio cum Christo”. La sapienza e la virtù hanno un’inesauribile efficacia e guidano la storia dell’uomo, creano e governano l’universo e abitano l’eternità accanto a Dio. Sono riflesso della luce eterna e immagine della Sua bontà, e solo per il loro tramite, si ricevono il fondamento e la sintesi di ogni verità, che rappresentano il disegno salvifico di Dio, incentrato sulla figura del Cristo, alla quale tutti noi dobbiamo conformarci.
(Inferno XXXI)
Si ode da lontano un fragore che a Dante sembra indistinto, e, guardando verso il luogo da cui esso proviene, chiede a Virgilio cosa sia, vedendo altresì delle alte torri che si elevano. Senz’altro, l’immagine confusa dà l’idea della immensa grandezza della visione, ma, quella che si intravede in lontananza non è una cinta di un castello, bensì l’orlo di un pozzo affollato di giganti che lo superano dal busto all’insù. Ritornano le torri, forti avanguardie contro i nemici che vogliono assaltare le mura cittadine, nelle interne lotte tra fazioni. Quei colossi dalle sembianze umane, in un’aura di elevato eroismo, presentano però un’aridità d’animo, sono tanto enormi nel fisico, quanto sterili e secchi nello spirito. E’ il caso di Nembròt, condannato ad usare un suo personale linguaggio, non riesce ad intendere quello degli altri, e non può comunicare il suo stato d’animo, se non col suo corno, che rappresenta un gingillo, passatempo di uno sciocco. Sullo sfondo, ancora una volta, Dante ci comunica un senso di moralità: la forza non è nulla, se non è accompagnata da sapienza, virtù e conoscenza. Certamente, nel pensiero del Poeta, non è necessario essere grandi fisicamente: si può essere granelli di sabbia, purché dotati di pensiero critico e volontà, aperti al mistero infinito; si può essere una minuscola goccia, sulla quale però riflettere il cielo e ascoltare il Verbo, senza produrre troppo rumore o essere troppo appariscenti; si può essere persone normali, purché si possegga un animo aperto e disponibile. Si possono ascoltare tante voci, ma sentire un solo cuore che batte. Forse troppo spesso, ci adagiamo sull’indifferenza, senza provare ad impegnarci costruttivamente e senza interrogarci sul senso della vita: scienza, tecnica, economia, politica non bastano ad indicarlo, devono essere indirizzate verso obiettivi a misura d’uomo e di donna, non li sostituiscono, ma esaltano l’etica e il sentimento.
(Inferno XXXII)
In questo Canto, i due Poeti attraverseranno la zona della Caina, dove si trovano i traditori dei parenti, immersi nel ghiaccio, condannati a battere perennemente i denti per il gelo e ad essere tormentati e vessati dal freddo intenso. Dante cerca di risolvere il tema del tradimento, mettendo in atto una serie di contrasti, e riesce, in questo contesto, a creare uno sfondo di silenzio, insieme solenne e terrificante, ma ascolta anche un insieme di parole colme d’ira ed urlate all’improvviso; ha descritto un quadro spettrale di immobilità, ma lo ha anche riempito di rapidi movimenti. Tra i peccatori che vengono citati, solo due non appartengono alla schiera dei politici, e tra questi vi è ovviamente Giuda. Dunque, Dante assume ancora una volta un atteggiamento vendicativo e di profonda condanna, quasi volesse chiedere a Dio una speciale delega di giustizia divina per additare la giusta via ai peccatori. Sul fondo dell’Inferno, dove si accumula tutto il peggior male del mondo, si trovano i peccatori più infidi, quelli che hanno usato inganno e violenza contro chi si doveva fidare di più di loro: i parenti e gli amici più intimi. E così, come sono stati duri e algidi il loro cuore e il loro spirito, così ora la loro atroce pena è il gelo, che li tiene attanagliati ed immoti, in un ambiente di infinita desolazione. Come la buia notte del tradimento di Giuda, che prefigurò tristi presagi, a cui è toccato di essere testimone di un amorevole disegno di Dio, ed avvolgere gli insani gesti con il suo pietoso manto, e scelta per offuscare le menti. Anche il sole e le stelle si sono nascosti. Ma anche quella greve aura si scioglierà in un abbaglio, certa che il sole tornerà a risplendere e diverrà luce di speranza, perché, per parafrasare Kipling, se puoi sopportare una verità distorta da una canaglia, puoi anche guardare le cose cui hai dato vita, ed infrante, e chinarti a ricostruirle.
(Inferno XXXIII)
Il Canto è dedicato in questa parte al Conte Ugolino, che viene descritto nei due gesti di sollevare “la bocca dal fiero pasto”, da una parte, e di lanciarsi coi “denti sul misero teschio”, dall’altra. E’ l’insistenza di Dante sulla bestialità di Ugolino che infierisce a morsi sul cranio di Ruggieri e non dimentica il tradimento del conte, che non si comporta diversamente dagli altri dannati,, perché accusa Ruggieri e lo infama poiché non tollera l’idea degli uomini immersi nel peccato, e può inveire con forza ed accanimento contro la città di Pisa, fino ad auspicare che anneghi ogni persona, così come augurarsi che i genovesi siano dispersi per il mondo. Ugolino è l’uomo tradito che la somma giustizia divina ha voluto legare a quel teschio, e non è solo il carnefice o l’esecutore di ordini, ma è anche e soprattutto la persona offesa che annovera in sé odio e vendetta. L’idea di tradimento ci riporta a quella notte buia, che prefigura i tristi presagi del gesto di Giuda, notte, cui è toccato di essere testimone del più amorevole disegno di Dio, piuttosto che confondere ed offuscare le menti. Tutte le stelle e tutti gli astri, atterriti, hanno voluto occultarsi. Il greve sguardo e il volto scuro che hanno visto il più grande gesto di disfiducia mai perpetrato nella storia dell’uomo si scioglieranno in un sorriso e in un abbaglio, e, domani, il sole tornerà a risplendere, e anche l’oscurità tenebrosa diverrà luce di speranza.
(Inferno XXXIII)
Ed essi, pensando che io lo facessi per voglia di mangiare, di scatto, di subito, si alzarono e dissero: “ Padre, ci farai meno dolore (se ti ciberai di noi)”. Dante dedica la prima parte del Canto al Conte Ugolino, il tradito, che solleva “la bocca dal fiero pasto”, dal teschio del suo nemico, ed inizia a raccontare la sua storia, di quando fu chiuso in una torre a perire di un prolungato digiuno, e costretto dal suo aguzzino a veder morire i suoi figli. Ma il Poeta va oltre, là dove vengono puniti i traditori degli amici e degli ospiti, con cuore malvagio e freddo, ai quali ora vengono congelate le lacrime sugli occhi, si potrebbe dire “quelle lacrime di coccodrillo”, cosicché il dolore avvertito nell’animo non abbia sollievo. Un parallelo importante e nobile si potrebbe tracciare con Shakespeare, nelle cui opere, spesso, il “tradimento”, che assume le sembianze dell’inganno, è metaforico. Il teatro è il luogo dei forti sentimenti, e particolarmente in Shakespeare, fondatore del teatro moderno, come mezzo espressivo e artistico, era utilizzato a scopo educativo e persuasivo. L’idea era quella di impressionare lo spettatore attraverso l’emozione e l’empatia, in modo da raggiungere una purificazione interiore. Emblematico risulta il caso di Amleto, in cui il tradimento costituisce l’essenza stessa della vicenda., è un evento basilare, poiché, senza di esso, la tragedia non esisterebbe. Di conseguenza, il dramma di Amleto consiste proprio nel cercare di smascherare il tradimento fraterno e successivamente vendicarlo. L’oggetto che veicola il tradimento è un fazzoletto, col quale Iago vuole persuadere Otello dell’infedeltà della moglie, per indurlo alla vendetta. E ancora, in Macbeth, i protagonisti ordiscono un inganno tradendo la fiducia del re, con l’obiettivo di ucciderlo, il gesto infame è proprio la consegna nelle mani del nemico.
(Inferno XXXIII)
E’ un gesto di sgarbatezza nei confronti di Alberigo che Dante compie, perché, se in altre situazioni nell’Inferno si era mosso a pietà dei dannati, adesso ha compreso che la giustizia divina debba fare il suo corso, e che alleviare le pene di questi sarebbe come andare contro Dio, e ritiene, cioè, che sia moralmente giusto esser villano con lui. Dunque, ne deriva che, se è vero che il Poeta si sia spaventato, è altrettanto vero che non si è affievolita la sua ira. Per Dante, non è tollerabile vedere uomini oppressi e devastati dal peccato, per cui, può scagliarsi contro la città di Pisa, fino ad augurarsi che ognuno anneghi, così come auspicare che i genovesi vengano cacciati dal mondo e girino raminghi e dispersi. Sono coloro che ebbero il cuore crudele, freddo e distaccato nei confronti dei loro avversari, ed ora, per la legge del contrappasso, quelle lacrime che hanno fatto piangere alle loro vittime, versandole si gelano sui loro occhi, cosicché il dolore che avvertono nel loro intino non abbia sollievo. Alberigo dei Manfredi, apparteneva all’Ordine dei frati godenti, che avevano il compito di contrastare le eresie e di pacificare le avverse fazioni cittadine, e avevano perciò il permesso di portare armi. La propensione a scendere a compromessi con la vita agiata e mondana dei suoi affiliati determinarono forse l’uso del soprannome, che non aveva comunque un connotato dispregiativo. Così, l’Alberigo dei Manfredi aveva invitato due suoi parenti, con cui era in profondo disaccordo, ad un pranzo di finta pacificazione, ma, ad un segnale convenuto, i servi li trucidarono. Alberigo è uno dei personaggi che Dante incontra nell’Inferno, nonostante non sia ancora morto, perché l’anima di un traditore, appena commesso il delitto, viene subito sprofondata nella Tolomea, mentre nel suo corpo sulla terra prende dimora un diavolo.