Trebisacce-10/10/2014: C’ERA UNA VOLTA LA “ PERLA DELLO JONIO”-(di Raffaele Burgo)

C’ERA UNA VOLTA LA “ PERLA DELLO JONIO”

 

Ci sono delle verità che non possono essere comprese appieno fino a quando le esperienze che viviamo non le avvicinano a noi” (John Stuart Mill)

 

Questa, anche se in principio non sembra, è la piccola-grande storia di quella che una volta veniva chiamata la “Perla dello Jonio” o la “Milano del Sud”, cioè di Trebisacce, nostro amato paese.

Perché alcuni luoghi ci parlano, mentre altri per noi restano muti? L’incontro con un luogo è come quello con un’altra persona. Per mettersi in sintonia con noi, oppure dimostrarsi inaccessibile. Nel Novecento si viaggia per tornare a casa come l’Ulisse di Joyce o per arrivare a perdersi come “l’uomo senza qualità” di Musil.

Oggi? Si può farlo con crudeltà, per non sentirsi responsabili di quel che si vede; oppure perché non cada nell’oblìo un “futuro abortito”, una possibilità sconfitta dalla storia di cui si è stati testimoni.

Sullo sfondo l’irraggiungibile “spirito del luogo”, pietra filosofale di chiunque si senta legato alle proprie radici.

Tutti gli uomini hanno un sogno. O addirittura molti sogni, la maggior parte dei quali sfuma alle prime luci dell’alba mentre uno solo si ostina a permanere conficcato nella mente, ma forse sarebbe più realistico e romantico dire avvinghiato all’anima.

Ed è proprio di questo sogno, fatto di carne e di anima, di passione e sudore, di tenacia e dedizione, di amarezza ed emozione, di instancabile voglia di capire e di ininterrotta voglia di cercare che, con molta umiltà, desideriamo parlarvi.

Questo sogno è quello di vedere di nuovo Trebisacce diventare punto di riferimento, luogo conosciuto ovunque per la sua bellezza e per la cordialità della gente.

Una volta Trebisacce era un piccolo ed operoso paese, dove l’attività produttiva era molto intensa ed a tal proposito basti pensare ai sei frantoi di “zio Antonio u Ghiurr” (Antonio Russo), “zio Antonio i Cinclibbr”(Antonio Cerchiara), “u trappit i Mosciar” (frantoio Petrone), “frantoio fratelli Petrone” ( Gigino e Nardino), “ frantoio i Malor” (Catera Domenico), “trappit i Cavalir” ( frantoio di Cavaliere Gaetano).

Chiediamo scusa se i soprannomi di queste meravigliose persone, che hanno dato tanto alla nostra comunità, non siamo riusciti a trascriverli in modo corretto, ma tutti i lettori sanno bene a chi ci riferiamo.

Vi erano tre Mulini, il Mulino ad acqua nei Giardini (di zia Maria Chidichimo), il Mulino a fuoco di zia Luisa Partepilo e zio Ciccio Catanzaro, il Mulino di Rocco Russo e figli Nicola e Vincenzo.

Per non parlare della famosa Fornace, del Cementificio, dei due laboratori di gassose dei signori Giuseppe Rago e Giuseppe Rotondo, dei due forni che producevano prodotto di terracotta della famiglia Laschera, della Cava, della fabbrica di ghiaccio, di un grande pastificio della famiglia Grosseto, della fabbrica “i zappin” dei fratelli Partepilo, dove si macinava la corteccia dei pini, grazie ad una grossa ruota di pietra speciale tirata da un mulo che permetteva alla corteccia di pini essiccata di tingere  le suole e la pelle che serviva per fare le scarpe e per tingere le reti dei pescatori.

La pesca era fiorente, così come i famosi “Giardini”, che permettevano a tantissime famiglie di vivere, e di farlo anche dignitosamente.

Vi era una conceria dove si curavano le pelli degli animali uccisi che, unitamente alle altre attività sopracitate, dava la possibilità di occupazione e di benessere a tanti trebisaccesi.

Non erano grandi soloni né grandi politici coloro i quali realizzavano queste piccole-grandi opere, ma semplicemente umili persone che amavano il proprio paese e desideravano, anche nel loro piccolo, far sì che Trebisacce venisse conosciuta ed apprezzata per la propria produttività e per quel benessere, a volte magari minimo, che in altri posti mancava del tutto.

Si potrà obiettare che il progresso ha preso il posto di attività ormai in disuso, ma se l’ipotetico progresso ha fatto regredire e non crescere, allora vuol dire che qualcosa non è andato per il verso giusto.

Badate, questa non è l’elegia del buon tempo antico, ma semplicemente il rimpianto di non essere riusciti a far crescere ancora di più il nostro territorio, di non essere riusciti a mantenere in piedi quanto era preesistente e rafforzarlo ancora maggiormente, anche per evitare l’emorragia di giovani che lasciano il nostro paese per approdare a lidi diversi, al fine di trovare un lavoro che possa far loro vivere una vita più dignitosa e serena.

Bisogna avere rispetto ed amore per il luogo in cui si vive. Forse non ci rendiamo conto noi che l’evoluzione della specie prevede la scomparsa dell’educazione, del rispetto, della crescita?

Forse. Ma noi preferiamo credere a quello che ha scritto Salman Rushdie, lo scrittore anglo-indiano che da oltre venti anni vive in compagnia della fatwa: “Dobbiamo arrenderci alla bellezza e alla libertà… E la bellezza non sta nel sudiciume come la libertà non sta nell’insudiciare”.

Oggi possiamo dire di avere le strade più larghe ( mantenerle meglio, però, non sarebbe male), tanti negozi, il mare pulito ( ma questo, grazie a Dio, lo abbiamo sempre avuto ed è stato un nostro vanto), però manca l’attivismo di una volta, l’orgoglio di sentirsi  trebisaccesi nonostante tutto, il desiderio di emergere e di crescere attraverso il lavoro.

La Storia non si può cancellare. La si può falsare, come il Grande Fratello di Orwell, la si può ignorare, la si può dimenticare, ma cancellarla mai.

Non ci illudiamo, né pretendiamo che sia questo modesto scritto, a sensibilizzare qualcuno, ma sarebbe bello che la “Perla dello Jonio” potesse ritornare ad avere grande valore.

Cosa fare per riportare davvero Trebisacce agli antichi splendori? Sarà sufficiente un piccolo colpo d’ali per levarsi quanto basta sull’assurda riottosità delle dispute, sopra i dilanianti danni prodotti dalle divisioni e dai presuntuosi “distinguo” dei politici.

Basterà un piccolo colpo d’ala per superare scontri fratricidi, arroganze e invidie, maldicenze e

Ma sì, proviamo a crederci.

Sforziamoci di credere che forse basterà un piccolo colpo d’ala per librarsi lassù, ai margini di quella zona inondata di luce ove perfino i sogni impossibili, alla fine, possono sperare di realizzarsi.

RAFFAELE BURGO