Trebisacce-22/02/2015: Dura, sed lex ( di Pino Cozzo)

Dura, sed lex

                  di Pino Cozzo

 

Adeguare il proprio comportamento a parametri di lealtà, correttezza, e servizio al bene comune dovrebbe rappresentare l’essenza stessa del pubblico dipendente, così come prescrive la Costituzione, che impone di svolgere le funzioni pubbliche con “ disciplina e onore”, con imparzialità, nonché di essere al servizio esclusivo della Nazione. I doveri contenuti nel codice di comportamento costituiscono “i doveri minimi  di diligenza, lealtà, imparzialità e buona condotta che i pubblici dipendenti sono tenuti ad osservare”. Ciò implica, per chi opera all’interno di un ufficio pubblico, l’obbligo della correttezza nei confronti sia del datore di lavoro che degli utenti finali del servizio, i cittadini. Aristotele chiama la giustizia “virtù completa”, perché diretta a regolare, nella sua essenza stessa, la relazione con gli altri.  Chi è chiamato a guidare un ufficio deve assumere atteggiamenti leali e trasparenti, e deve adottare un comportamento esemplare e imparziale nei rapporti con i colleghi, i collaboratori e i destinatari dell’azione amministrativa. La prima regola di condotta che il codice dovrebbe assicurare  è quella di avere in prima persona un comportamento integerrimo, che renda manifesta la convinzione di essere al servizio di obiettivi generali, senza strumentalizzare la propria posizione personale per diminuire il proprio lavoro, facendolo gravare sui collaboratori e dipendenti. L’atteggiamento di lealtà richiesto a chi guida un ufficio si manifesta innanzitutto, quindi, nei confronti dell’Amministrazione di appartenenza, che egli deve onorare con la tensione ad un miglioramento continuo, sia in termini di diligenza e puntualità nell’adempimento dei propri compiti che nel porre a frutto tutte le risorse umane disponibili per l’ottimale andamento dell’ufficio. Tanto è non di rado l’esatto contrario del clima culturale di appiattimento che per anni si è diffuso e consolidato in molti uffici pubblici, dove la onnipresenza di una superficialità diffusa e l’amore per il quieto vivere hanno determinato una generale tendenza al ribasso del clima e delle risorse umane presenti in ufficio. Se, difatti, per almeno tutto il ventennio successivo all’entrata in vigore del codice civile, la clausola del “danno ingiusto” è servita alle corti ed alla dottrina per avvalorare una ricostruzione dell’illecito civile limitata, ancorata ad una prospettiva esclusivamente sanzionatoria e tipizzata, al contrario, in seguito, proprio utilizzando le potenzialità insite nella formalizzazione testuale dell’ingiustizia, l’illecito è approdato alla sua impostazione moderna, cioè quella di un istituto di matrice atipica e polifunzionale, ovvero nel principio di non conformità al diritto di un determinato agire originante un pregiudizio. Per danno contro  la legge si intende, di solito, quel pregiudizio che lede una posizione giuridica altrui. Tale connotazione,  per lungo tempo ed anche a dispetto della lettera codicistica, è stata ritenuta qualificante non per il danno, bensì per il fatto, nonché caratterizzata da stretta “tipizzazione”. Tale impostazione ha originato una interpretazione marcatamente restrittiva, fondata sulla violazione di ben precisi doveri stabiliti dalla legge e, perciò, tesa in ultima analisi a favorire maggiormente la posizione del danneggiante a detrimento del danneggiato. E’ quello che è accaduto ad una signora della nostra ridente cittadina, che da un quinquennio si dibatte tra studi di legali ed aule di tribunali, perché l’illecito in cui si è trovata invischiata ha comportato una continua, estenuante, debilitante peregrinatio per gli uffici di tutta la provincia. Tutto ciò, si potrebbe parafrasare, è accaduto perché la superficialità di alcuni responsabili di procedimenti amministrativi ha fatto sì che non si seguisse un normale iter, costituito da normali applicazioni di norme e leggi, di normali adempimenti d’ufficio, di normali verifiche di veridicità di atti e fatti, ma perché si è dato corso a sentori e informazioni infondate, che hanno comportato azioni legali faticose e defaticanti. E anche quando tutto ciò sembrava essersi concluso favorevolmente per la citata signora, quando tutto sembrava essersi risolto, quando il logorio sembrava essere stato ben ripagato, e la giustizia, terrena e divina, sembrava avesse fatto il suo corso, altri inadempimenti, altri dinieghi, altri svincolamenti si sono affacciati alla ribalta. D’altronde, avevano ragione i nostri padri latini, quando dicevano “Ad impossibilia nemo tenetur”, e cioè, “Nessuno è tenuto a compiere ciò che è impossibile fare”, anche se, in questo caso, si dovrebbe dire, non si vuole fare. D’altra parte, gli stessi padri latini ci hanno insegnato che si può giungere “ad astra per aspera”.