Rocca Imperiale-21/05/2015:Pupi Avati: il Vangelo in fiction per ritrovare l’essenza del vivere

Pupi Avati: il Vangelo in fiction per ritrovare l’essenza del vivere

“Le nozze di Laura” primo episodio della serie tv ideata dal regista
LAPRESSE

Il regista Pupi Avati: «Provo a candidare il Vangelo come punto di riferimento del vivere quotidiano»

26/04/2015
FULVIA CAPRARA
ROMA

Pupi Avati ha un suo modo speciale di essere anticonformista. Sa guardare la realtà da un altro punto di vista, trasformare il banale in originale, confrontarsi con chi è ai margini per trarne insegnamenti, (ri)scoprire ciò che a tutti sembra noto e mostrare che, invece, non lo è affatto. La nuova idea a cui sta lavorando, dopo aver scritto un romanzo, Il ragazzo in soffitta (Guanda), è semplice, ma stupefacente. Come un miracolo: «Proviamo a candidare il Vangelo come punto di riferimento del vivere quotidiano».

 

In che senso?

 

«Prendiamo frasi come “ama il prossimo tuo come te stesso…” oppure “beati gli ultimi saranno i primi”, basta rifletterci un momento per capire che contengono input rivoluzionari che, in un secondo, fanno piazza pulita di tutto il fintume intellettualistico e ci aiutano a guardare con attenzione le persone più semplici, più candide…».

 

Sì, ma da regista, come userà questa convinzione?

 

«Parto dalle “Nozze di Cana”».

 

Cioè?

«Faccio un film per la tv, Le nozze di Laura, in cui racconto la storia di un principe del Ciad, un nero bellissimo, che finisce a raccogliere arance in Calabria, costretto a vivere nelle macerie del degrado, e alla fine sposa la figlia del padrone dell’agrumeto. Le nozze di questi due ragazzi così diversi sono un miracolo. Il progetto sarebbe di andare avanti così, riprendendo altri episodi del Vangelo, per recuperare quella cosa necessaria, di cui il Vangelo è intriso, che è la vicinanza agli altri, quella che il Papa chiama misericordia».

Chi saranno gli attori?

«Per ora posso dire solo che ci sarà Lina Sastri, sto scegliendo gli altri».

Meglio il cinema o la tv?

«La tv mi permette di affrontare tematiche che al cinema non posso sviluppare… ho paura delle etichette, per questo cerco sempre di dilatare lo sguardo, di mantenermi curioso, eclettico. Trovo sia poco interessante fare e rifare lo stesso film, rassicurati dal fatto che quel genere piaccia di sicuro, alla gente, e poi sono anche poco indulgente nei confronti di me stesso… Quando ho girato La casa dalla finestre che ridono mi avevano già definito il Polanski della Val Padana, potevo basare tutta la mia carriera su coltellate e scricchiolii.. ma io non ho mai uno sguardo strategico, ed evito il parassitismo».

Il suo ultimo film, «Un ragazzo d’oro», con Sharon Stone e Riccardo Scamarcio, non è andato secondo le aspettative. Come l’ha presa?

«L’insuccesso mi ha buttato giù, il pubblico ha rifiutato il film e questo significa che rifiutano te..».

Secondo lei che cos’è che non è piaciuto?

«Forse la gente si aspettava un racconto più consolatorio, e forse non ha torto nel cercare consolazione… Io, però, a 76 anni, non posso rinunciare alla mia onestà intellettuale. Un conto è se decido di raccontare una favola, un altro è se, come in Un ragazzo d’oro, descrivo la vicenda di un figlio che assume l’identità paterna…».

Un figlio con problemi psicologici, una di quelle persone che hanno popolato spesso le storie dei suoi film.

«È vero, ai miei personaggi ho attribuito sovente forme di surrealtà arricchenti. Nella cultura contadina da cui provengo certi tipi di diversità erano sufficienti per divertirsi, facevano spettacolo e io li ho utilizzati. Il diverso ha il suo ruolo. Man mano, ho trovato la mia calligrafia cinematografica, e ho messo al centro delle mie storie la diversità psicologica, di chi sa, o non sa, di essere emarginato».

Ieri sera, a Roma, nel festival «Tulipani di seta nera: un sorriso diverso», è stato proiettato il suo film sull’Alzheimer «Una sconfinata giovinezza».

«Ho molto apprezzato l’iniziativa di questo Festival, mi è parso che assomigli proprio a quello che interessa me, l’ascolto degli altri, in tutti i casi. Sono convinto, per esempio, che rapportarsi a un bipolare, abituato a spostare continuamente il piano dell’identità, possa essere mille volte più interessante che ascoltare un talk televisivo in cui la realtà appare sempre abbassata, appiattita».