Amendolara:03/06/2016 Salvatore La Moglie finalista al premio internazionale Quasimodo.

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Amendolara:03/06/2016

PREMIO QUASIMODO- SALUTO INIZIALE
PREMIO QUASIMODO- SALUTO INIZIALE
Salvatore La Moglie
Salvatore La Moglie

Salvatore La Moglie finalista al premio internazionale Quasimodo.

 

Salvatore La Moglie, poeta e romanziere, è giunto tra i  finalisti  nella  Sezione 5 (poesia edita anche in volume antologico, con la poesia Tra la terra e il cielo) e nella Sezione 10  (racconto edito max 10 pag. con il racconto I campanelli d’oro) al Premio Internazionale Salvatore Quasimodo. A Salvatore La Moglie è toccata anche la menzione di merito.Premio unico in Italia,  -come ha affermato il figlio Alessandro, si è dovuto attendere ben 50 anni affinché si dedicasse un importante concorso alla figura del padre- è stato promosso dalla Aletti editore e si è tenuto nell’ affollatissimo Teatro Imperiale di Guidonia, il 2 giugno scorso, con il Patrocinio della città di Guidonia. Il Presidente di Giuria è stato Alessandro Quasimodo (attore, autore, regista teatrale, figlio del premio Nobel Salvatore Quasimodo), i lavori tecnici dei giurati sono stati  coordinati dall’editore Giuseppe Aletti (editore, critico letterario, poeta, ideatore de Il Federiciano), Francesco Ventimiglia (autore e conduttore Rai per la Tv, la radio e il teatro), Valentina Meola (direttore editoriale).  Primo classificato il poeta Candido Meardi con Solitudine. Erano presenti autori e pubblico da tutta Italia, nessuna regione esclusa. Tra i numerosi autori presenti anche l’amico Salvatore La Moglie, sposato e padre di una signorina studentessa universitaria, stimato docente d’Italiano e Storia presso lo storico I.T.S. “G, Filangieri” di Trebisacce, di cui è dirigente scolastica la dottoressa Domenica Franca Staffa. Il professore La Moglie è sempre presente nei vari eventi culturali promossi sul territorio e collabora attivamente con diverse riviste e in particolare il mensile “La Palestra”, di cui è direttore responsabile il giornalista Francesco Lofrano, sul quale puntualmente presenta il profilo di autori conosciuti e affermati e anche di quelli poco conosciuti, poco visibili, ma ugualmente importanti nel mondo culturale. Altra bella notizia è che i libri inscritti nelle varie sezioni del concorso, pare più di 150 testi, sono stati donati da Giuseppe Aletti alla biblioteca comunale di Rocca Imperiale per consolidare il legame tra la poesia e il comune, anche perché l’idea di promuovere questo concorso, ha comunicato l’editore Aletti, è stata concepita proprio a Rocca Imperiale nei giorni in cui è stato ospite Alessandro Quasimodo che ha voluto fortemente la realizzazione di questo concorso dedicato al padre, che è presente nel percorso poetico del centro storico con il testo L’Alto Veliero. Nel paese del limone Igp, del Cinema e della Poesia si ricorda al lettore che l’editore Aletti, Giuseppe Aletti, sta promuovendo, ormai da diversi anni, il Federiciano, cioè il concorso internazionale della poesia, ideato dallo stesso Aletti, che durante il periodo estivo vede diverse centinaia di poeti sostare nella cittadina creando quell’atmosfera magica all’interno di storiche bellezze (Castello Svevo e Monastero dei Frati Osservanti) che solo i poeti con la loro poesia sanno creare. Ritorniamo al nostro finalista Salvatore La Moglie che rientrato da Guidonia, è subito apparso contento e ancora emozionato. Di certo non è al suo primo premio o riconoscimento, ma il suo animo nobile e sensibile lo porta, come la prima volta, a vivere con emozione ogni momento culturale.” Sono soddisfatto ma sarò ancora più severo ed esigente con me e con quello che scriverò man mano, perchè non si finisce mai di migliorare e di essere sempre più all’altezza”, ha esternato agli amici. E ancora ha continuato:” Lì, al Teatro Imperiale di Guidonia, nonostante il maltempo (pioveva) c’era tantissima gente, con la presenza della TV e della stampa e poi è stato interessante e anche un po’ commovente sentire in collegamento telefonico, contattato da Aletti,  la voce di Alessandro Quasimodo che, con una certa fatica, parlava da un reparto di cardiologia di un ospedale di Milano. Si è detto molto dispiaciuto del fatto di non poter presiedere alla prima edizione del premio intestato al padre, premio che erano 50 anni ormai che sperava di poter vedere finalmente istituito. Ha rivolto i più vivi e cordiali ringraziamenti e apprezzamenti per tutti i presenti e soprattutto ai finalisti del premio che – ha detto – hanno presentato lavori davvero ragguardevoli e di grande valore. Invitato da Aletti a parlare del conferimento del Nobel al padre nel 1959 e delle reazioni degli ambienti letterari, il figlio del Poeta ha dichiarato che, all’epoca, vi furono spiacevoli reazioni di freddezza e anche di ostilità nei confronti di quella nomina, reazioni certamente spiacevoli, ma che ci furono e amareggiarono molto il grande poeta. Sembrava, ha riferito ancora il figlio, che assegnando il Nobel a mio padre, gli accademici di Svezia avessero preso un grosso abbaglio… Si è parlato anche della madre di Alessandro, anch’essa bravissima poetessa che però – ha detto – come tutte le grandi donne che vivono a fianco di un grande uomo, è stata costretta a restare un po’ in ombra. E’ stata recitata anche qualche poesia della madre,Maria Cumani. La cerimonia si è svolta dalle 17 alle 20 e sono state lette anche alcune poesie dei finalisti”. Complimenti e Auguri a Salvatore La Moglie! Complimenti vivissimi al poeta creativo Giuseppe Aletti che con le sue attività culturali e di spessore porta in giro per l’Europa, sul suo “Veliero”, in modo lodevole, la Poesia, il nutrimento dell’anima, che porta tutti a riflettere, a confrontarsi, a creare, a crescere culturalmente.

Franco Lofrano

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                                                  SALVATORE  LA  MOGLIE

 

TRA LA TERRA E IL CIELO

 

                    (Pubblicata nell’antologia   LA MONTAGNA, ed. Ferrari, 2007).

 

Maestosa e superba alta e imponente

sembri toccare il cielo

e ascoltare i silenzi (anche quelli di Dio).

Tu ci spii ogni giorno col tuo

misterioso sorriso

spaventosa e meravigliosa escrescenza

generosa e infida mammella

del Pianeta.

Bianca, marrone, grigia, verde

o violacea

sei sempre così terribilmente

bella e invitante.

Attrai e respingi e per gli uomini che

stanno ai tuoi

piedi non sei che una millenaria sfida.

Perché l’uomo aspira alle vette e

vorrebbe il cielo assaltare.

L’ anelito per le più ardue mete

e le più impossibili imprese lo porta

anche a trovare la morte sulle tue

aspre pareti.

Tu che con il mare nascondi e

custodisci il mistero e il segreto della

Terra al momento della Grande

Esplosione resterai in eterno l’antico

amico-nemico che accoglie e

protegge che

allontana e travolge.

Che può dare la vita ma anche la

morte che può

farci sentire tra la Terra e il Cielo.


                                           RACCONTO

                                 di  Salvatore  La Moglie

                                I CAMPANELLI D’ORO

(Pubblicato nell’antologia Ulivi, a cura del Comune di Cassano Allo     Jonio, 2007).

 

 

 

Ogni anno, al mio paese, dopo la raccolta dell’uva, si aspettava con molta gioia  e anche con tanta ansia che aprissero i trappiti (così chiamiamo nel nostro dialetto i frantoi) per portarvi le olive a vendere o a macinare. L’ansia  consisteva nell’ignorare che tipo di annata sarebbe stata a livello di guadagno monetario. L’incognita era sempre il prezzo delle olive più che il bello o il cattivo tempo, perché i contadini lo sapevano bene che le olive si raccolgono anche con la pioggia e il vento.

La  mia – come tante altre- era una  numerosa famiglia contadina che, per potersi rendere economicamente autosufficiente, impegnava tutta se stessa: produceva e consumava tutto quello che ricavava  dal proprio podere. La famiglia contadina era anche questo: produrre beni per poter barattare i prodotti che, con i pochi soldi che circolavano, non era possibile comprare. Fino alla fine degli anni ’60, e anche un po’ più in là, dalle mie parti si andò avanti così. Allora il mezzo di locomozione più diffuso era l’asino e, per chi poteva permetterselo, il mulo o il cavallo. Pochissimi erano quelli che possedevano un trattore con rimorchio, un motocarro o un’automobile.

Tutte le mattine mio padre e mia madre si alzavano di buonora e, preparata l’asina, si avviavano verso la campagna che distava dal paese quattro-cinque chilometri.

Io e i miei fratelli andavamo a scuola: le mie due sorelle alle medie, io e mio fratello alle elementari. Mio padre ci teneva molto a farci studiare, affinché noi avessimo potuto avere un futuro migliore. Lui non aveva potuto fare più della quarta elementare e ne aveva sofferto tantissimo perché amava molto i libri (ne aveva comprati alcuni) e gli piaceva molto leggere. Conosceva parecchie terzine della Divina Commedia a memoria e ogni tanto ce le declamava spiegandone il significato.

La domenica e quando non si andava a scuola per qualche festività, anche noi ragazzi ci accompagnavamo ai nostri genitori e si partiva: di buon grado loro, e malvolentieri noi. Dico “malvolentieri” perché la raccolta delle olive non era(e anche oggi non è) proprio bella: ti stancavi da morire e, alla fine della giornata, ti ritrovavi con le mani screpolate e anche ferite per il continuo sfregamento con le foglie e i rami… Eppure le olive (i miei genitori ne erano pienamente coscienti) erano una vera ricchezza: si potevano vendere e farci un po’ di soldi; si potevano molire per fare l’olio che durava un anno o anche due; si potevano conservare nelle giare o anche in altri contenitori per consumarle durante tutto l’anno: intere, schiacciate o anche secche…

Per noi ragazzi, però, la raccolta delle olive era vissuta come una forma di schiavitù, anche perché di soldi se ne vedevano pochi.

Quando si partiva per andare in campagna, era una vera processione di asini e di uomini. Chi a piedi e chi in groppa. Qualcuno si attaccava alla coda di uno degli animali e procedeva secondo il ritmo imposto dalla bestia. Capitava, però, che quel vezzo di attaccarsi alla coda poteva anche andargli male, perché l’animale, ogni tanto, scalciava e – come vuole natura – defecava… Quando questo accadeva, era un ridere fragoroso con i commenti più disparati…

La gente era povera, ma felice. O meglio, bastava poco per renderla felice.

Ricordo che la nostra asina era letteralmente terrorizzata dalla voce spronante – ah!.. ah!..- di zio Giacinto, un vecchietto di piccola statura e alquanto magro che andava quasi tutti i giorni in campagna con i miei genitori e che, con noi ragazzi, faceva da caporale.

Zio Giacinto – che chiamavamo così, secondo l’uso del paese- era per noi quasi come uno della famiglia. Era stato grande amico del nonno paterno, del  quale parlava con grande ammirazione. «Grand’uomo», diceva rivolgendosi a noi. «Oggi non ci sono più uomini come quelli…». Mio nonno lo aveva battezzato e, quindi, c’era il comparatico, quello che dalle mie parti si chiama il “San Giovanni”.

Con la sua coppola sulle ventitré, zio Giacinto camminava sempre a piedi lungo il tortuoso e impervio tragitto che conduceva in campagna. Non voleva mai mettersi sull’asina. «Camminare», diceva, «fa bene alla salute». Fumava la sua sigaretta fatta di tabacco avvolto in una sottilissima cartina ( la sigaretta dei poveri!..) e, dopo aver fumacchiato, tirava dalla tasca della giacca un pezzetto di pane al quale univa oggi una cipolla e domani delle olive o dei fichi secchi.

Di tanto in tanto, prendeva a parlare e la sua robusta voce metteva un’istintiva paura alla povera asina che, pertanto, accelerava il passo per evitare che zio Giacinto – com’era solito fare- le appioppasse qualche sonora pacca sulla groppa o la punzecchiasse con qualche pezzo di legno appuntito. Era un uomo un po’ rude ma, in fondo in fondo, era anche molto buono e generoso.

Una volta in campagna, l’asina ritrovava la sua pace legata al tronco del fico d’India: mio padre le portava un bel mucchio di fieno che essa divorava lentamente ma con grande appetito. Quindi si prendevano le scale, le tende, i sacchi e i secchi e si andava sotto l’ulivo. Prima di stendere le tende, si raccoglievano le olive che erano cadute nei giorni precedenti o la notte prima. Mia madre era velocissima e riempiva il suo secchio da dieci chili quando noi non avevamo raccolto neppure la metà… Il più lento era mio fratello. Zio Giacinto – che seguiva tutti noi con attenzione da tedesco – si divertiva a prenderlo in giro: «Ehi, la sai una cosa? Sei tanto veloce che mi fai annuvolare gli occhi!..» E subito dopo aggiungeva minaccioso: «Cerca di muoverti, se no qui ti faccio stare fino a stanotte!..».

Se capitava di lasciar dietro di noi delle olive, zio Giacinto ci redarguiva da far paura. I suoi occhi diventavano rossi per l’ira e il suo volto giallo e verde per la tensione. Munito com’era di una frusta d’ulivo, ci faceva dono di qualche colpetto sulle anche o sulla schiena per dirci che non avevamo raccolto scrupolosamente.

Mio padre –che osservava la scena con un leggero sorriso- quando lo vedeva con gli occhi infuocati, si metteva a recitare la terzina dantesca in cui si descrive Caronte che batte gli ignavi a colpi di remo:

 

«”Caron demonio, con occhi di bragia

Loro accennando, tutti li raccoglie;

Batte col remo qualunque s’adagia”…».

 

Zio Giacinto, che non capiva il significato di quelle parole, si crucciava un po’ e diceva a mio padre: «Compare Vincè, cerca di parlare come parliamo dalle nostre parti, se no chi ti capisce!?..». E si toglieva la coppola per darsi una imbarazzata grattatina sulla testa, mentre mio padre se la rideva sotto i baffi…

Io e i miei fratelli, proprio non riuscivamo a capire perché zio Giacinto la facesse così lunga e andasse così in bestia se solo lasciavamo dietro di noi qualche oliva.

Un giorno non ne potemmo più e, quasi all’unisono, io e mio fratello gli dicemmo: «Zio Giacì, ci potete spiegare,  per piacere, perché vi arrabbiate tanto se lasciamo per terra qualche oliva?».

Ricordo che zio Giacinto si fece serissimo. Rivolgendosi a mio padre gli disse: «Compà Vincè, la gioventù di oggi non capisce niente…». E, dopo un po’, aggiunse: «Glielo vuoi dire tu o glielo dico io?».

Mio padre aveva capito che la lezione voleva darcela lui e, così, gli rispose: «Compare Giacì, diglielo tu, che certamente glielo spiegherai meglio di me…».

Zio Giacinto, come investito di chissà quale missione, guardandoci a turno negli occhi e indicando le olive con un gesto simultaneo della testa e della mano sinistra, disse: «Lo sapete come le chiamava queste la buonanima di vostro nonno?».

Io e mio fratello – seriosi ma anche curiosi di appurare il  mistero che  il buon vecchio stava per rivelarci – rispondemmo candidamente con un seplice: «No».

«E allora ve lo dico io», rispose zio Giacinto che subito aggiunse: «Li chiamava : i campanelli d’oro ».

«I  campanelli d’oro!?..», esclamammo con una smorfia delle labbra e subito dopo aggiungemmo: «E perché?».

«Perché», replicò con la sicurezza del vecchio saggio, «quando noi, con le nostre mani, facciamo velocemente piovere le olive dalla pianta, si urtano fra di loro e creano un rumore… anzi un suono che sembra come quello delle campane in festa…E’ come se tanti campanelli suonassero tutti insieme, ma senza stonare: perché quello che fanno le olive è un suono dolce e pieno di armonia…».

«E perché sarebbero di oro questi campanelli?», domandò mio fratello alquanto incredulo, mentre io stavo a bocca aperta e con lo stupore del fanciullo che sente un incredibile racconto.

«Perché?», rispose stupito anche lui, ma della nostra ignoranza e  ingenuità . «Ma perché…», riprese subito, scuotendo un po’ la testa, «ma perché le olive sono una ricchezza!.. Sono l’oro dei poveri!.. Noi ci mangiamo tutto un anno e anche più di un anno, con le olive… E con l’olio? Quanto tempo ci mangiamo con l’olio? Il buon olio d’oliva!.. Quello che voi mettete sul pane…Quello che vostra madre mette nella minestra… nell’insalata…nel vaso di terracotta per conservare le salsicce…Quello che mettiamo anche sulle ferite o quando abbiamo un gonfiore o una ammaccatura da qualche parte…Quello che – se l’annata è buona- ci fa guadagnare un po’ di soldi, a noi poveretti… Ecco, per tutte queste cose, vostro nonno (che possa avere sempre il paradiso…) chiamava campanelli d’oro queste benedette olive»- e mentre diceva queste parole si piegò per prenderne dalla tenda una manciata – «che a voi giovani non piace tanto raccogliere e che, per sbrigarvi e andare avanti, seppellireste sottoterra…».

Io e mio fratello ci guardammo per qualche secondo con la faccia di chi vuol dire: «Hai capito che lezione che ci ha fatto zio Giacinto!..».

Io e i miei fratelli riflettemmo molto su quello che ci aveva detto zio Giacinto, cose che lui aveva imparato da un nonno che noi non avevamo avuto la fortuna di conoscere.

Da quel giorno cominciammo ad andare più volentieri in campagna per raccogliere le olive e, ogni volta che dall’alto delle scale pioveva sulle tende, sentivamo un forte, intenso e, allo stesso tempo, soave e armonioso scampanellio. Erano i campanelli d’oro.

Io, quel suono, lo sento ancora.