Trebisacce-19/01/2017:FACCIAMO IL PUNTO SU: L’età del Realismo e l’età del Decadentismo (di Salvatore La Moglie)

Salvatore La Moglie

FACCIAMO IL PUNTO SU: L’età del Realismo e l’età del Decadentismo

di Salvatore La  Moglie

 

Il Realismo in letteratura e in arte è il grande albero dal quale, a partire dagli anni ’60-‘70 dell’Ottocento, si svilupperanno le affini poetiche del Naturalismo e del Verismo, che daranno vita al grande romanzo francese e italiano della seconda metà del XIX secolo. L’età del Realismo, in verità, è un’epoca felice, forse la più felice per l’affermazione del romanzo come genere letterario più diffuso e più letto in Europa ma anche fuori dall’Europa. Basterebbero solo pochi nomi per rendersi conto della grandezza e forse irripetibilità di un’epoca: Balzac, Flaubert, Zola, Dickens, Dostoevkj, Tolstoj, Turgenev, Melville, Mark Twain.

Per comprendere pienamente quest’età dell’oro del romanzo si deve tener presente che l’età del realismo coincide con l’età del Positivismo che si afferma, in reazione alla cultura romantica ormai in declino, intorno alla prima metà dell’800. E che cos’è il Positivismo? È un movimento filosofico, scientifico, culturale che, nello studio dell’uomo e della natura, abbandona i problemi metafisici e si attiene ai fatti, al dato positivo, concreto, tangibile della realtà fenomenica. Esso esalta la ragione, la filosofia,  la tecnica e crede in un progresso infinito dell’umanità. E’, dunque, una filosofia borghese ottimista. I suoi fondatori sono Henri de Saint-Simone, che coniò il termine, e Auguste Comte, il quale è anche il fondatore della moderna sociologia. In Italia il più importante seguace del positivismo è Roberto Ardigò.

Dicevamo che dal grande albero del Realismo sarebbero poi nate le affini poetiche del Naturalismo e del Verismo. Come potremmo definirlo il Naturalismo? Lo potremmo definire così: un movimento letterario e artistico sorto in Francia nella seconda metà dell’800 (soprattutto dagli anni Settanta in poi) che si propone di rappresentare la realtà della vita quotidiana seguendo il metodo scientifico (osservazione e sperimentazione) nella comprensione e descrizione dei fenomeni, dei casi umani, sociali e psicologici. I precursori del Naturalismo, come si è accennato, sono grandi realisti come Balzac e Flaubert. Ad elaborare per la prima volta il concetto di Naturalismo nella letteratura è stato il critico e storico Ippolito Taine. Nel 1858, egli sostiene che l’uomo è condizionato da tre fattori: il fattore biologico (cioè la race, la razza, l’ereditarietà), il momento storico  (le moment) e l’ambiente sociale (le milieu). Così il Naturalismo appare come la versione letteraria-artistica del Positivismo, e il Taine, in un saggio del 1866, applica ai movimenti artistici le leggi di Darwin sull’evoluzione, la selezione naturale, la vittoria dei più forti, dei più adatti nella lotta per la sopravvivenza e il peso del fattore ereditario. Dunque, secondo questa concezione, lo scrittore, l’artista devono operare sulla realtà con la stessa freddezza dello scienziato, del chirurgo, del chimico quando operano e sperimentano nei loro laboratori, e  l’opera d’arte deve essere fotografia, documento scientifico, oggettivo che ritrae crudamente i fatti della realtà, cioè le cosiddette tranches de vie (i pezzi di vita). Il caposcuola, l’iniziatore e il massimo rappresentante del Naturalismo è considerato a giusto titolo Émile Zola. Altri esponenti importanti sono: i fratelli De Goncourt e Guy De Maupassant.

Lo Zola elabora la poetica del Naturalismo nel saggio Il romanzo sperimentale. In esso, facendo proprie le teorie del Taine, sostiene che lo scrittore:

  1. Non deve inventare ma osservare la realtà, per poi riprodurla oggettivamente;
  2. Nella rappresentazione dei fatti egli deve attenersi alle leggi scientifiche che spiegano i comportamenti sociali;
  3. La sua scrittura deve essere un documento oggettivo dal quale non deve trasparire alcun intervento soggettivo dell’autore.

Di qui i canoni fondamentali del Naturalismo: oggettività, impersonalità e scientificità dell’opera d’arte.

I temi della narrativa naturalista, che sono chiaramente antidealistici e antiromantici sono:

  1. La vita quotidiana con il suo grigiore, la sua banalità, le sue piccole ipocrisie, le sue meschinità;
  2. Le passioni morbose al limite della patologia psichiatrica, la follia, il crimine, ecc.;
  3. Le condizioni di vita delle classi subalterne, specie del proletariato urbano, vero esempio di “patologia sociale” prodotta dalla miseria: prostituzione, alcolismo, delinquenza minorile, ecc.

Il Verismo, invece, racconta le condizioni di vita dei pescatori, pastori e contadini dell’Italia Meridionale, facendo emergere, a livello letterario, quella che sarà chiamata la questione meridionale.

Con questi temi, la letteratura naturalista conteneva in sé una forte carica di denuncia sociale e di demistificazione anche se attraverso il documento, la fotografia scientifica, fredda della realtà. Con la letteratura naturalista il brutto e il turpe diventano oggetto dell’arte, ponendo fine all’egemonia del “bello”. La tecnica compositiva dei naturalisti si adatta ai due principi o canoni principali del Naturalismo: quello dell’oggettività dell’opera d’arte e quello dell’impersonalità, che fa largo uso del registro stilistico del discorso indiretto libero. Si abbandona il romanzo storico e ci si rivolge al romanzo sociale che rappresenta personaggi, caratteri e costumi della società. Vengono esclusi i sentimentalismi, le rievocazioni autobiografiche, i commenti dello scrittore che si eclissa e usa la terza persona singolare quando scrive. Il linguaggio è semplice, popolare e con frequente uso di termini ed espressioni dialettali (si pensi, per es., alla mimesi dialettale nelle opere di Verga).

IL DECADENTISMO. C’è una frase di Franz Kafka che sembra  riassumere alla perfezione lo stato d’animo dell’uomo, dell’intellettuale decadente:  «In piedi sulla piattaforma del tram mi trovo nell’incertezza più assoluta della mia posizione su questo mondo»: smarrimento e incertezza appaiono i sentimenti che più aleggiano e pesano nella psiche dello scrittore decadente che vive il trauma della Modernità con la consapevolezza che essa sta riducendo l’uomo un corpo senz’anima.

Fatta questa premessa, vediamo come poter definire il Decadentismo, questo grande momento della cultura europea che sorge proprio in reazione al Realismo e al Positivismo, che appaiono ormai incapaci di dare risposte alle grandi domande dell’uomo calato nel grande fatto storico-culturale rappresentato dalla Modernità.

Il Decadentismo (o simbolismo) è un movimento artistico-letterario nato a Parigi negli anni ’80 dell’800 e che poi si sviluppa un po’ in tutta Europa. Sorge in reazione al Positivismo, al Naturalismo e allo scientismo che entrano in crisi in quegli anni. Il termine decadente è usato, all’inizio, in senso dispregiativo nei confronti dei poeti maledetti, cioè Verlaine, Rimbaud, Mallarmé,  ecc., che si sentono incompresi e odiati dalla società. Sulla nascita del termine Decadentismo è probabile che abbia influito  un sonetto di Verlaine dal titolo Io sono l’impero alla fine della decadenza.  In quegli anni viene pubblicato anche un giornale “Le Decadent“. I segni anticipatori del Decadentismo si possono individuare nel movimento dei preraffaelliti inglesi e in quello francese dei parnassiani,  propugnatori di una poetica sempre più svincolata dai contenuti realistici e tesa alla ricerca di nuove e più raffinate forme espressive; si esalta l’arte per l’arte, l’arte come supremo valore umano e la bellezza formale. Ma i decadenti indicano come loro maestro, come loro padre spirituale  soprattutto il poeta romantico Charles Baudelaire, per il quale il mondo, la realtà, è una “foresta di simboli” che ci parlano in un misterioso linguaggio: né la scienza né la ragione sono capaci di comprenderlo, ma solo l’arte, la poesia. Il poeta non è più vate ma è “poeta veggente” che, attraverso intuizioni misteriose e improvvise “illuminazioni“, coglie il senso riposto della realtà scoprendo collegamenti apparentemente illogici fra oggetti diversi (analogia), associando colori, profumi, suoni di cui sa percepire la misteriosa affinità (sinestesia), scegliendo le parole non per il loro significato concreto ed oggettivo, ma per le suggestioni che possono evocare con il loro suono ed il loro ritmo (la musicalità del verso). Questi poeti vogliono esprimere la propria consapevolezza di appartenere ad un mondo in crisi, in disfacimento e privo di certezze e valori ai quali affidarsi e aggrapparsi; vogliono manifestare il proprio disagio e la delusione storica che li spinge a rifiutare la società del loro tempo, con i suoi valori rozzi e falsi. Perciò il poeta deve rompere ogni legame con la tradizione e sentirsi libero da ogni regola. Di qui la costante ricerca di nuove forme espressive (lo sperimentalismo) come carattere distintivo della poesia decadente. Tra i caratteri di rilievo della poetica decadente vi è l’estetismo (cioè la ricerca esasperata della bellezza e della raffinatezza) tendente a far prevalere i valori estetici su quelli morali e pratici. La bellezza è concepita come valore assoluto e superiore. Non la vita deve ispirare l’arte, ma l’arte deve ispirare la vita fino a rendere la vita inimitabile come un’opera d’arte. L’estetismo crea l’eroe decadente come l’esteta e il dandy ma il Decadentismo crea altre figure, altri  tipi umani, come per es., l’anti-eroe inetto alla vita (basti per tutti l’inetto di Svevo). Per i decadenti, l’arte e la poesia sono uno strumento di conoscenza del mistero che ci avvolge. Solo la poesia può comprendere l’ignoto, l’inconscio e l’assoluto. La poesia dunque come illuminazione e rivelazione dell’ignoto. I decadenti esaltano il proprio io, l’individuo, la soggettività e l’aspetto irrazionale della vita, fino ad arrivare agli estremi dello scetticismo (distruzione di ogni fede), del solipsismo (forma di individualismo esasperato) e dell’incomunicabilità (cioè l’impossibilità di un vero autentico rapporto con gli altri). Altri caratteri e atteggiamenti tipici del Decadentismo sono:

  • la predilezione per le esperienze rare, artificiose, “proibite”, il gusto per la raffinatezza e l’eleganza delle epoche di decadenza; il recupero di un ideale di bellezza eccessiva;
  • il sogno di un oriente misterioso e sensuale;
  • il disprezzo (in genere) per le idee umanitarie e socialiste;
  • l’esaltazione dell’irrazionale e la scoperta dell’inconscio;
  • il gusto per l’occulto, per il misticismo, oppure, all’opposto, per l’infernale e il satanico;
  • il rapporto con la realtà e con la storia non è positivo ed il sentimento dei decadenti è di fuga da esse.

Molto forte nei decadenti è il sentimento della sconfitta e lo smarrimento nei confronti della realtà. Lo stato d’animo dei decadenti è inquieto, pessimista e in essi prevale la confessione e l’autobiografismo. L’uomo decadente è consapevole di vivere in un’epoca di crisi, vi è cioè la coscienza della crisi della società borghese e il conseguente “disagio della civiltà” (secondo la felice e calzante espressione  di Freud) come traumatico effetto dell’esplosione della Modernità.

Lo scrittore decadente si sente inetto alla vita, cioè inadeguato, disadattato, estraneo alla realtà in cui vive, incapace di vivere la vita di tutti i giorni. Quest’uomo che è un anti-eroe, non vive più in un mondo razionale, certo e definito in cui si può cogliere la totalità e in cui ci si può sentire al centro. Si ha piena la consapevolezza di aver perso il senso della totalità del mondo e di non sentirsi più al centro dell’universo. Smarriti, ci si sente piuttosto periferici. Si è scoperto l’inconscio e le mille realtà dell’individuo e così il mondo, la stessa realtà si frantuma in tanti aspetti.

Quest’uomo smarrito e insicuro vive in disperata solitudine ed alla ricerca della propria identità (si pensi alla crisi d’identità di certi personaggi di Pirandello), la vita viene avvertita come non senso, come assurdo, come vuoto e assenza, e così la noia, l’indifferenza, l’inettitudine, l’insufficienza alla realtà finiscono per diventare forme di vita, modi di essere e di stare nella realtà (forme di adattamento), anche se passivi. In questa condizione, alla memoria viene affidato il compito di recuperare, di ricostruire il mondo, la nostra vita interiore attraverso la ricerca del “tempo perduto” (Proust). Durante l’età del Decadentismo e attraverso il romanzo del ‘900 si compiono le seguenti dissoluzioni (o disgregazioni o frammentazioni):

  • la dissoluzione della realtà, che appare sempre più sfaccettata, instabile, inafferrabile, mutevole e pertanto molteplicemente interpretabile proprio a seconda del punto di vista o della verità di cui uno è portatore;
  • la dissoluzione dell’io e quindi del personaggio, che appare sfaccettato e non più monolitico, con una personalità univoca e quindi con più stati d’animo e con un inconscio con cui deve fare i conti;
  • la dissoluzione delle strutture narrative e sintattiche: vengono meno i nessi logici e razionali nella narrazione e nella sintassi. E, così, in autori come, per es., Montale, Ungaretti e Quasimodo, prevalgono nuove tecniche poetiche e narrative: l’analogia, la sinestesia, il correlativo oggettivo, il monologo interiore, il flusso di coscienza, ecc.;
  • la dissoluzione del tempo cronologico: il tempo cessa di essere lineare e diventa psicologico, rivissuto a livello interiore. Passato, presente e futuro si alternano indifferentemente (si pensi al tempo misto di Svevo). Insomma, viene meno la narrazione, il modo di narrare in senso cronologico e, per esempio Proust, nel raccontare, si avvale non solo della memoria volontaria ma anche di quella involontaria (le ”intermittenze del cuore”…). Pertanto, secondo Proust, «la letteratura è la sola vita più pienamente vissuta».