Amendolara-27/04/2017:Il potere della menzogna nella letteratura e il potere della letteratura sulla menzogna. Il caso di Iago nell’Otello di Shakespeare. (di Salvatore La Moglie)

Salvatore La Moglie

Il potere della menzogna nella letteratura e il potere della letteratura sulla menzogna. Il caso di Iago nell’Otello di Shakespeare.

di Salvatore La Moglie

    Sulla bugia, sulla menzogna nelle sue varie sfaccettature  si potrebbe scrivere un libro. Ci sono scrittori anche importanti e grandi che hanno guardato con simpatia chi mente, altri con orrore e altri ancora, come per esempio, il Machiavelli, con crudo e disincantato realismo. «Il mondo vuol essere ingannato e perciò lo sia», ha lasciato detto il Segretario Fiorentino, che ben sapeva che la menzogna e l’inganno abitano volentieri nelle stanze del Potere e, praticamente, si può attribuire a Lui la massima che nasconde a chi è governato il segreto profondo del Potere, e cioè che «governare è far credere»: far credere che qualcosa o qualcuno sia così, mentre in realtà è cosa ben diversa. Insomma, mentire e fingere perché, altrimenti, il Potere vacillerebbe. La verità e la sincerità sono sempre scomode e complicate nella vita degli uomini comuni («Nulla è più complicato della sincerità», diceva Pirandello), figuriamoci per la vita che si svolge al livello delle alte sfere, al livello del Potere…Il quale, infatti, preferisce sempre la via facile, la scorciatoia della menzogna.

    Se Boccaccio esalta chi con una leggera menzogna riesce a cacciarsi dai guai e Omero esalta l’astuto Ulisse (il mai sazio d’inganni) che, fingendo di chiamarsi Nessuno, riesce a sconfiggere il mostruoso gigante Polifemo e a salvare se stesso e i suoi compagni, Dante, invece, non riesce  a perdonare chi, con la menzogna che si fa inganno, commette i peggiori peccati e si macchia dei peggiori delitti, proprio come fece quello stesso Odisseo che, con le sue menzognere e ingannevoli astuzie, aveva finito per provocare l’incendio di Troia e, dunque, distruzione, morte, sangue e dolore di cui, pure, avrebbe provato rimorso. «Chi è a corto di bugie non può salvarsi», ha scritto Alda Merini volendo dare una valenza positiva alla menzogna che abbiamo definito leggera, mentre per Arthur Koestler «la verità è ciò che è utile al genere umano» e la menzogna è «ciò che gli è dannoso; però,  «talvolta, la menzogna dice meglio della verità ciò che avviene nell’anima», ha affermato Maksim Gorkij.

    Se Gianni Rodari ha scritto, con leggerezza, che «nel paese della bugia, la verità è una malattia», Italo Calvino ha preso atto che «la menzogna non è nel discorso, è nelle cose»; se, infine, Italo Svevo ha scritto ne La coscienza di Zeno che «per essere creduto non bisogna dire che le menzogne necessarie», Albert Camus ha concluso, dal canto suo, ne La peste che, affinché «la menzogna stessa si sgonfi», basterebbe «dire la verità». E potremmo continuare, nelle citazioni, quasi all’infinito, tanto è stato detto e scritto su menzogna e verità, bugia e sincerità, verità e falsità, autenticità e ipocrisia, realtà e finzione e via discorrendo. E potremmo parlare anche dei vari gradi, livelli e generi della menzogna (Sant’Agostino, nel De Mendacio ne ha elencati otto).

    Giorgio Manganelli, in una sua opera (La letteratura come menzogna) ha fatto notare come la letteratura stessa sia menzogna, anche se una particolare forma di menzogna: «L’opera letteraria è un artificio, un artefatto di incerta e ironicamente fatale destinazione», dove «tutto è esatto, e tutto è mentito». Dunque, il poeta è un fingitore (Pessoa), lo scrittore, il narratore un menzognero, un abile bugiardo, un fine mentitore ma, attenzione, essi sono dei fingitori e dei mentitori  particolari, perché attraverso le loro  menzogne cercano di dire delle verità, a volte anche terribili. E così, potremmo dare della letteratura la definizione che il Sommo Poeta diede dell’allegoria: una verità nascosta sotto bella menzogna. E dunque, se la letteratura e le sue parole sono menzogna, se esse sono  finzione, ebbene esse sono una bella menzogna e una bella finzione perché ci rivelano una verità o delle verità. E non è anche e soprattutto della letteratura il compito di stabilire e/o ristabilire e far trionfare la Verità sulla menzogna, sull’inganno e sul male? Perché se la menzogna può essere definita la verità taciuta, a sua volta la verità può essere definita la menzogna rivelata. E chi meglio della letteratura riesce a compiere l’operazione di smascheramento della menzogna e di rivelazione della verità? Omero ci rivela le buone come le cattive astuzie e menzogne ingannevoli di Ulisse, Boccaccio le bugie bonarie come quelle anche crudeli di certi suoi personaggi, Machiavelli le menzogne inconfessabili degli uomini di potere, Svevo quelle perdonabili dell’inetto Zeno Cosini e Shakespeare quelle più malvagie di uomini i cui abissi psichici sembrano insondabili ma le cui cattiverie, le cui atroci e incredibili menzogne sono capaci di tanto male oscuro, psicologicamente oscuro.

    Mentire, dunque, può essere pericoloso, terribilmente pericoloso. Si mente con la parola e con la parola possiamo anche uccidere. E non solo metaforicamente, ma anche fisicamente. La parola può uccidere, può condurre al delitto. La parola è azione.

    In letteratura crediamo non esista un esempio migliore dello Iago di Shakespeare, vera e propria metafora del Male  e della sua capacità di agire attraverso la  parola che diventa tragica menzogna. Iago è un mostro di malvagità, la personificazione del male, il diavolo in persona. Iago è il grande mistificatore, il grande simulatore-dissimulatore, il grande ipocrita, il grande insinuatore, il grande calunniatore, il grande seminatore di discordia, il grande bugiardo ingannatore. Egli  agisce con una determinazione che ti spaventano e ti inorridiscono.

    Iago progetta il male sin dal primo momento e sin dall’inizio della tragedia rivela la sua stessa personalità e il suo odio per Otello, tanto da dire a Rodrigo, nobile veneziano: «(…) Io, se fossi il Moro, non vorrei avere d’intorno Iago.(…)», «io non sono quello che paio». È cosciente della propria natura malvagia, diabolica, senza timore di Dio («col poco timor di Dio che io ho…», dirà più avanti) . Odia il Moro e lo odia a maggior ragione dopo che si è vociferato che sarebbe  andato a letto con sua moglie. Uno  psicanalista potrebbe, forse,  concludere che tutta la diabolica operazione di Iago si basa soprattutto sul complesso delle corna, ma non è così : egli è un malvagio e basta. Ha deciso di fare del male al suo prossimo e quel sospetto non gli serve se non come mero pretesto:«(…) però un sospetto come questo mi fa agire quanto una certezza».

     Iago sa già dall’inizio qual è il materiale umano sul quale condurrà la sua terribile impresa e sa  già che il suo diabolico disegno avrà una buona riuscita. Il Moro «si fida di me, e il mio gioco è più facile.(…)È di natura franca ed aperta e crede onesti tutti gli uomini che paiono onesti e si può menarlo per il naso  come un ciuco». Quanto a Cassio, luogotenente del Moro: «è bello:  dunque, vediamo… Deve ottenere il posto ch’egli ha e ottenerlo con un duplice inganno» . «Come?», si chiede retoricamente. E’ semplice, risponde a se stesso: con l’arte dell’insinuazione e della menzogna, attraverso l’uso della parola che diventerà  azione: «(…) Tra qualche tempo insinuerò nell’orecchio di Otello che Cassio ha  troppo confidenza con Desdemona. Il sembiante di Cassio e il suo carattere affabile sono adatti a destare sospetti; Cassio sembra creato per far infedele una donna». Sicuro di aver a che fare con soggetti profondamente diversi da lui, tanto in buona fede da cadere facilmente nella trappola del suo inganno, con il  sorriso di Satana sulle labbra, conclude : «E’ fatta. Il mio disegno ha preso corpo. L’inferno e la notte lo porteranno alla luce».

    Così si chiude il primo atto, e siamo solo agli inizi!… Nel secondo precisa meglio in che cosa consiste il suo disegno malvagio. Metterò il «Moro in un tormento di gelosia tanto forte che il senno non possa guarirlo»; calunnierò Cassio «davanti al Moro…, sì da farmi ringraziare, amare  e ricompensare  dal Moro per averlo ingannato come un imbecille  e aver  mutato la sua pace in pazzia. Questo», conclude soddisfatto, «è il piano, se  pure ancora informe: astuzia non la si vede in faccia che a opera compiuta».

     Ecco che Iago inizia a parlare, ad insinuare ma, allo stesso tempo, da vero artista del male e della menzogna, afferma subito il contrario di quello che pensa. Su Cassio, che sta per calunniare con Otello, dice : «(…). Sono molto affezionato a Cassio (…)», «(…) preferirei farmi tagliare la lingua che offendere Michele Cassio (…)». E vorrebbe spacciare per innocente e innocua la montatura preparata: farlo apparire prima come un cattivo ufficiale, poi come un uomo sleale che tradisce il suo generale con la consorte: «Eppure io sono persuaso che a dire la verità non gli faccio danno», ha il coraggio di commentare. Così, Otello dice a Cassio che non sarà più  il suo  luogotenente. L’innocente Cassio, non sapendo cosa fare per ottenere il perdono di Otello e quindi il suo posto, si lascia consigliare dal perfido Iago: rivolgiti a Desdemona, l’amata sposa di Otello, ed è fatta. E’  proprio questa la trappola che Iago  ha preparato per l’ignaro Cassio, il quale non sospetta minimamente della malafede dell’amico che, con quel disegno, vuole, fra l’altro, entrare  nelle grazie del Moro e sottrargli l’incarico  di luogotenente. Iago sa che Desdemona ha molta simpatia e stima  per Cassio e che farà di tutto per aiutarlo presso il consorte; ma proprio l’insistenza di lei e quello che insinuerà subito dopo Iago daranno inizio alla tragedia del Moro e al piano diabolico metodicamente preparato.

     «Chi potrebbe dire che il mio gioco è da furfante?», dice a se stesso Iago alla fine del secondo atto, e conclude: «È molto facile piegare la soave Desdemona, per una causa onesta;è generosa come l’acqua e l’aria, e le è facile di convincere il Moro…. Divinità infernale!  I demoni , per  istigare  ai più neri peccati, tentano, dapprima, con visioni di paradiso,come faccio io adesso: difatti mentre quello sciocco supplicherà Desdemona di restituirgli l’onore, ed ella perorerà la causa di lui presso il Moro, io verserò la peste del sospetto  negli orecchi di Otello e gli dirò che essa vuole il richiamo di Cassio per propria voluttà, e più ella si sforzerà a giovargli, più ella perderà credito presso il  Moro. Così la virtù di lei sarà mutata in vischio e, con la sua stessa bontà, sarà il  laccio che li accalappierà tutti».  Con il suo mefistofelico sorriso si mette subito all’opera perché, dice ancora a se stesso,  «un progetto come il mio non deve perdersi negli indugi».

    Con questo cattivo pensiero si chiude il secondo atto. Il terzo si apre con la vera e propria messa in opera del disegno ingannatore che porterà il buon Otello alla follia e, infine, al delitto. Cassio, dice Iago al Moro, è leale ma, attento, perché ti tradisce con Desdemona, la quale anch’essa, quindi, ti tradisce. «Tu congiuri contro il tuo amico», gli risponde Otello e chiede prove sul dubbio che gli sta piantando in testa, cioè sulla duplice disonestà di Cassio e della consorte.

    Con  la sua lingua biforcuta come quella del biblico serpente, Iago è riuscito subito a sconvolgere lo stato psicologico e il mondo affettivo del suo generale. Se ne accorge, da buon mentitore e ingannatore e, infatti, gli dice:«(…) ma vi vedo commosso. Adesso vi prego di non trarre  da quanto ho detto conclusioni più gravi e di maggior portata di un semplice sospetto». È proprio questo che vuole! E subito dopo: «Altrimenti, signore, le mie parole otterrebbero un risultato odioso al quale i miei pensieri non miravano. Cassio è mio degno amico….Signore, vi vedo turbato». Ha fatto breccia, è riuscito a conficcare nel cuore di Otello il demone della gelosia: questi, infatti, crede già all’infedeltà di Desdemona e, una volta uscito Iago, maledice il matrimonio e anche la sua pelle»: «(…) forse sono stato ingannato pel triste colore della mia pelle (…)», e conclude che il suo «conforto adesso sarà di odiarla».

    Ma cosa escogiterà Iago per provare ad Otello l’infedeltà di Desdemona? È semplice: «Adesso lascerò questo fazzoletto [primo regalo del Moro alla consorte] in casa di  Cassio e farò sì che il Moro ce lo trovi. Inezie più lievi dell’aria sono per un uomo geloso prove più certe delle sacre scritture. E questo può giovare. Pel mio veleno il Moro è già mutato, le pericolose fantasie sono, infatti, per certe nature, come il veleno.(…) Né il papavero, né la mandragora, né tutti i sonniferi del mondo potranno mai renderti il dolce sonno che ieri godevi», conclude alludendo malvagiamente all’ignaro e credulo Otello.

     In scena entra Otello, un Otello ormai privo di ragione, turbato, con un solo pensiero atroce che lo rode e non gli dà pace: «(…)la notte dormivo bene, ero libero e felice…». Ora, però, vuole le prove. Vuole i fatti. Iago, dopo aver insinuato che una volta colse Cassio mentre parlava con Desdemona e dell’affetto nutrito per lei persino in sonno, gli rivela che la prova che cerca è il fazzoletto che lui, Otello, le aveva dato in dono con tanto amore e che ora è nelle mani di Cassio. A queste parole Otello sembra impazzire, non ragiona più, pensa soltanto alla vendetta: «Adesso tutto il tenero amore che io le portavo, ecco, è volato in cielo, è svanito. Sorgi, vendetta, fin da sottoterra.(…)»; «sangue, sangue, sangue!». E dice a Iago: «Entro tre giorni fammi sapere che Cassio non è più di questo mondo»: «Da ora sei tu il mio luogotenente». Con la sola parola, con  il semplice uso della lingua che si fa menzogna Iago sta realizzando i  suoi oscuri desideri.

    Nel quarto atto Iago continua la sua offensiva. Egli è troppo esperto nell’arte della parola  malvagia, ingannatrice e bugiarda. Lo spettro, anzi la certezza del tradimento ha tolto la ragione al povero Otello che è ormai un uomo a pezzi, fuori di sè e crede ciecamente solo alle ingannatrici parole di Iago, tanto da dire : «Non vi sono parole  che più di queste mi facciano uscire di senno. (…)», mentre Iago, una volta  solo, così commenta: «Lavora, medicina mia, lavora. Ecco come gli uomini creduli e imbecilli sono presi al laccio; ecco come degne e caste signore, più senza macchia, diventano riprovevoli.(…)».

    Nel quinto atto la parola falsa e bugiarda (così la chiamerebbe Dante) di Iago è ormai diventata azione realizzata. Otello uccide l’onesta e innocente Desdemona, ed Emilia, moglie di Iago, davanti a quell’atroce e assurdo delitto, commenta amaramente che la «malvagità  s’è fatta beffa dell’amore». E sempre Emilia svela ad Otello il tragico errore in cui è incorso:  rivela l’inganno di Iago, e questi le farà pagare con la vita il suo amore per la verità trafiggendola.

    Otello, stordito da tanta tragica realtà, una realtà che ha superato la fantasia, ferendo Iago, osserva: «No, questa  è una favola. Non si può uccidere un demonio». Prima di colpirsi il petto con il pugnale, vorrebbe disperatamente sapere da Iago il perché di tutto quello che è accaduto, il perché di tanto male. Rivolgendosi a Cassio gli dice: «(…)Domandate voi, vi prego, a questo demonio perché m’ha così avvelenato il corpo e l’anima».

    Iago, però, non lo dirà mai. Il male si fa e basta: «Non mi chiedete altro. Quello che sapete, sapete. Da ora in poi non aprirò più bocca». Non ce n’è più bisogno, la missione è compiuta. Quello che voleva l’ha ottenuto e gli è bastata la sola parola per portare a buon fine la sua terribile arte di ingannare con la menzogna. Ma anche a Shakespeare è bastata la sola parola per portare a buon fine  la missione sua e quella della letteratura  che, sotto una bella menzogna, ha smascherato l’inganno del malvagio, ne ha messo a nudo la miseria umana e morale rendendo giustizia alle vittime della ignobile menzogna attraverso il ristabilimento della verità. Dimostrando che, se è vero che la letteratura è menzogna, essa –  come ha affermato lo scrittore Jouan Rulfo – «è una menzogna che dice la verità».