Amendolara-12/09/2018: Il cocchio alato del tempo, un romanzo di Salvatore La Moglie

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie 

Il cocchio alato del tempo, un romanzo di Salvatore La Moglie

Qui di seguito pubblichiamo il sesto capitolo del romanzo di  Salvatore La Moglie.  Buona lettura.

 

VI

 

 

«Nel nostro tempo, il destino dell’uomo assume il suo significato in termini politici».

  1. Mann

 

«…È più importante ‘sentire’ la storia che conoscerne i particolari».

  1. Van Loon

 

«Sono uomo: nulla di ciò che è umano conidero a me estraneo».

                                                                  Terenzio

 

«L’uomo infine non è interamente colpevole, non ha dato inizio alla storia né è del tutto innocente poiché la continua».

  1. Camus

 

8 maggio 1999

 

 

       «…Tutto quel che succede oggi è al di là della ragione. La terra è un pezzo di sapone: scivola tra le mani».

Più di una volta, in questi giorni, mi sono tornati in mente questi meravigliosi versi del poeta turco Nazim Hikmet. Siamo ormai a un mese e mezzo di guerra, una guerra che sembra non voler finire, odio e bestialità, errori ed orrori da entrambe le parti. La guerra è la cosa più terribile che gli uomini siano stati capaci di inventare. La più tragica delle invenzioni e la più antica. L’uomo sembra essere rimasto quello istintivo e animalesco delle caverne. Millenni di civiltà non sono serviti a nulla. La parte brutale dell’uomo sembra dura a morire; chissà ancora quanti millenni occorreranno affinché l’uomo sia tale. L’uomo è la sola creatura che si rifiuta di essere ciò che è, ha scritto Albert Camus. E come non dargli ragione?

L’uomo è un animale che costruisce e demolisce. Creare e distruggere: questi sono i verbi che contraddistinguono l’uomo. E in essi sono sottintesi altri due verbi fondamentali: amare e odiare. L’uomo è amore e odio, ma più odio che amore. E l’odio non serve a niente, se non a rendere più penosa e più pesante la vita che siamo chiamati involontariamente a (sop)portare come un pesante fardello fino ad un punto che non ci è dato conoscere.

Fino a quando gli uomini si scanneranno? Fino a quando prevarrà il sentimento dell’odio su quello dell’amore? Non lo sapremo mai, almeno noi. Si potrebbe rispondere fino a quando ci sarà la Storia. Come se la Storia fosse tale solo grazie all’esistenza dell’odio e, quindi, del male. Cosa sarebbe un mondo in cui ci fosse solo il bene e l’amore? Un mondo senza Storia… Un mondo che non avrebbe senso perché privo della dialettica bene-male. Senza il male la Storia potrebbe finire e, dunque, alla base della Storia c’è il male? La Storia è storia del male, dell’odio dell’uomo verso l’uomo? Dopo essere giunti a tanta civiltà, come mai siamo ancora con la

stessa Storia, cioè con la stessa umanità ancora così marcia, corrotta e ottusa fino a rischiare l’autodistruzione? E allora che cos’è la Storia? Che cos’è il progresso? La scienza e la tecnica hanno fatto passi da gigante, hanno fatto miracoli, mentre l’uomo moralmente e umanamente non è riuscito a fare salti di qualità, non è riuscito a fare quel miracolo, quella rivoluzione spirituale ed etica che cambierebbe il futuro e il destino di questo vecchio pazzo mondo. Quanto più si è progrediti materialmente, tanto più si è regrediti spiritualmente! È forse questo il grande, tragico paradosso del mondo in cui viviamo. È facile farsene una ragione, difficile è però accettarlo a cuor leggero. E ti chiedi come andrà a finire e se mai ci sarà un mondo diverso con uomini migliori, umanamente migliori. E ti chiedi se mai sorgerà un uomo capace di salvarlo, di condurlo sulla retta via. Dante sognava il Veltro, Dante sognava la salvezza dell’uomo e del mondo. Grande utopista Dante perché era grande come uomo. Tutti gli uomini grandi hanno grandi sogni. Chissà se mai avverrà il miracolo di una nuova umanità e di un nuovo mondo. Svevo – quell’‘incosciente’ di Svevo – nella sua “Coscienza” aveva immaginato, anzi auspicato, che l’unico modo per salvare il mondo era di farlo saltare in aria, di ridurlo in polvere per mezzo di uno degli ordigni spaventosi che oggi l’uomo si costruisce per convivere con la paura. Solo ritornando come alle origini, sotto forma di nebulosa la terra avrebbe potuto salvarsi e liberarsi dalla malattia che la corrode. Nella sua isolata ma lucida coscienza, Svevo vedeva già allora la vita «inquinata alle radici»…

Il mondo in cui viviamo è un mondo che fa rabbia e tristezza, perché esso è certamente – per i progressi raggiunti che sono indiscutibili – il migliore dei mondi possibili (per dirla con Leibniz). Ma c’è il risvolto della medaglia, ecco cosa c’è. C’è l’altra faccia che è una brutta faccia e non piace e la vorremmo diversa. Si potrebbe obiettare che il mondo è sempre stato quello che è, che ha sempre avuto due facce. E allora? prendere o lasciare? In verità, si tratta di trovare un’intelligente forma di adattamento. Gli uomini si creano l’inferno sulla terra e dunque occorre saper stare in questo inferno. Italo Calvino aveva avanzato una proposta, aveva suggerito un rimedio. Ascoltate cosa diceva: «L’inferno dei viventi… è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo è facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte, fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio». Una proposta ragionevole, interessante, che merita riflessine. Una proposta di saggezza. Simile a quella che mi sta suggerendo il mio Grande Vecchio.

A proposito: in questi giorni mio padre mi ha rivelato di aver scritto centinaia di massime e di pensieri vari e me ne ha già citati parecchi. Tra questi uno mi ha fatto riflettere molto: bisognerebbe beffarsi della vita

 

 

perché essa è una beffa continua che ci riserva alla fine la beffa delle beffe: la morte. Siamo tutti beffati e, alla fine, il dolore della morte. Bisogna crearsi delle difese, armarsi contro questa realtà. Cercare di non morire. Crearsi da sé una forma di immortalità, un modo per sentirsi eterni e sconfiggere il dolore e la morte. Siamo – dice mio padre – intrappolati nella vita, nella realtà, nel tempo, nella Storia fin dalla nascita, ed “essere” significa certezza di morte e possibilità di sofferenza. E nella Storia – come ha scritto Carr – la sofferenza è di casa. E che cos’è la Storia se non la vita stessa, la vita da un punto di vista collettivo, il vissuto di tutti gli uomini, di tutta l’umanità?

Ho chiesto a mio padre la sua definizione di Storia.

La Storia – mi ha detto – è il passato, e noi (gli individui come i popoli) siamo il risultato di questo passato, un passato che nessun dio potrà mai cancellare, restituirci o rifare: sta lì a ricordarci che, invisibile, c’è e che bisogna tenerne conto. Il passato ci contiene e ci imprigiona e, quasi sempre, è difficile liberarsene. Nel bene o nel male, il passato è alle spalle ma anche sulle spalle. Spesso è un peso insopportabile, e ci accompagna fino alla fine… La Storia può trasformarsi in un incubo, sia quella personale che quella universale.

La Storia è tutto ciò che hanno fatto gli uomini, ma anche tutto quello che non hanno fatto e potevano fare. La Storia non esiste in natura, come la civiltà. La civiltà – se si escludono le civiltà o culture primitive ancora oggi esistenti – diventa sinonimo di Storia, in quanto costruzione artificiale, in quanto dimensione extrabiologica. Quando l’uomo è diventato padrone della Natura allora è incominciata la Storia e, quindi, la civiltà. Questa sottomissione della Natura (fino all’attuale maltrattamento) è oggi al massimo stadio e al massimo della «razionalizzazione». Ma la Natura potrebbe ribellarsi e riappropriarsi di se stessa e vendicarsi della stupidità e dell’incoscienza dell’uomo. E così potrebbe verificarsi la pessimistica profezia di Claude Lévy-Strauss: «Il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui». “Tristi tropici”, tristi pensieri…

Il mondo può finire e con esso la Storia, la civiltà, l’uomo. L’uomo, l’uomo che è il più discutibile degli animali. L’uomo che è lupo per l’altro uomo; l’uomo che sfrutta e sottomette l’altro uomo; l’uomo che uccide l’altro uomo; l’uomo che non vuole che esista l’uomo… Il mondo può finire… Ma non è un fatto che ci riguardi da vicino: è il problema di chi verrà dopo di noi e chissà quando… E, dunque, cosa può importarci? Perché renderci la vita più difficile e più infelice con questi tristi pensieri? Carpe diem! Cogli, afferra l’attimo fuggente e goditi la vita, perché domani non si sa se sarai ancora su questo mondo… E il tempo corre e la vita fugge, e visto che fugge non lasciamocela sfuggire…

Il mondo – mi ha detto mio padre, e me lo ha detto con la serenità di chi vuol placare certe ansie e certe inquietudini giovanili – il mondo devi capirlo, devi capire cos’è la vita, cosa e come sono gli uomini ma, ragazzo

 

 

mio, non farne un chiodo fisso, non farne la tua principale ossessione. Tu, da solo, non potresti far niente, non riusciresti a salvare questa vecchia nave che non sappiamo dove e come andrà a finire. Più invecchio e più sono convinto delle mie opinioni… Sai, anch’io, quand’ero giovane come te, avevo idee simili alle tue, anch’io avrei voluto salvare il mondo che vedevo andare verso la rovina, verso la catastrofe, verso la dissoluzione… E mi chiedevo cosa avrei dovuto fare io e cosa avrebbero dovuto fare tutti quelli che dirigevano la baracca. I miei propositi non corrispondevano alle loro iniziative: facevano il contrario di quello che sognavo io. Sganciavano la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, dopo aver mietuto milioni di vite umane per più di cinque anni… Poi si divisero il mondo in base all’ideologia e la guerra, oltre che calda, divenne anche fredda. Poi ancora guerre calde nella grande guerra fredda fra le due Superpotenze. Subito fu inventata la bomba all’idrogeno e, più vicino a noi, quella nucleare, la bomba “pulita”, capace cioè di distruggere gli uomini ma di lasciare intatto tutto il resto (miracoli della scienza e della tecnologia!)… E, in tutto questo marasma, non poteva non sopraggiungere, come conseguenza logica, la crisi delle ideologie, delle idee elevate a sistema in cui ognuno di noi crede o dovrebbe credere. Sembrava che le idee fossero state battute dal progresso scientifico e tecnologico. Lo stacco fra mondo morale e spirituale e mondo tecnologico (razionale fino alle estreme conseguenze) era ormai sotto gli occhi di tutti. Il resto è storia di oggi… e l’uomo, dopo essere andato sulla luna (una vera e propria sfida a Dio!) sembra di essere più lunatico di una volta…

Mio padre mi ha detto che sui problemi fondamentali dell’uomo e del mondo avremo modo di parlare ancora e anche negli anni e venire; che comprende, comunque, la mia fretta di capire a fondo le cose dalla vita e apprezza il mio entusiasmo, la mia brama di sapere e la mia ricerca del modo più saggio di vivere l’esistenza in una dimensione che mi avrebbe dovuto far sentire padrone e non schiavo del tempo. Mi ha consigliato la lettura di alcuni libri affinché mi facessero comprendere meglio alcune cose sulle quali avevo dubbi e bisogno di chiarezza. Per la crisi delle ideologie e lo stato d’animo dei giovani di fronte al mondo e alla realtà, primo fra tutti mi ha consigliato “La costanza della ragione” di Vasco Pratolini. Per l’atteggiamento generale di fronte alla vita colta nella sua essenza, il primo libro che mi ha suggerito è stato “Morte nel pomeriggio” di Ernest Hemingway, in quanto aiuterebbe a vedere e a vivere il mondo un po’ disincantatamene.

Ho divorato letteralmente quei libri. Sono nato in mezzo ai libri ma con un padre come il mio, che avrebbe voluto avere tutti i libri del mondo, leggere diventa l’avventura più bella della vita. Te li fa amare, e li fa vivere come uomini, come esseri viventi con cui puoi instaurare rapporti veri e duraturi. Noi studiamo i morti e le cose morte per tenerli sempre in vita. Così dice spesso e conclude: gli antichi siamo noi. In verità, gli antichi

 

 

siamo noi. Fra mille, duemila anni ci saranno uomini più antichi di noi… Dunque, dicevo che quei libri li ho divorati. Capii alcune cose che prima non mi erano molto chiare. I buoni libri ci rivelano la verità e fanno luce nel buio della nostra mente, mettono ordine, spazzano via la confusione riuscendo a farci da guida nel groviglio, nel labirinto, nella trama intricata della vita. Un libro può essere rivelatore, può illuminarci e una frase potente può trasformarsi in una visione del mondo.

Grazie a Pratolini riuscii a leggere meglio il tema della crisi delle ideologie e del crollo delle speranze che incominciarono a manifestarsi sul finire degli anni Cinquanta per poi proseguire lentamente ma inesorabilmente, pur con fasi alterne, fino ai giorni nostri. Il giovane protagonista del romanzo di Pratolini ad un certo punto, preso dallo sconforto, si interroga, si pone il famoso che fare?. «Che fare? Non lo so.  So tuttavia che non si pongono più in termini di rivoluzione i nostri problemi. Da ariete ci siamo trasformati in staccionata. Ci appassionano ora i sindacati, può essere una strada? E la nostra giovinezza, conta ancora qualcosa? L’atomica, dicono, fa paura, i missili, le bombe all’idrogeno. La tecnica ci avrebbe quindi battuti? O noi stessi che con le idee non le siamo stati a pari?».

C’è in queste parole, scritte quasi quarant’anni fa, la dolorosa presa di coscienza di un giovane militante di sinistra deluso e frustrato nelle proprie speranze e dei valori che investirà poi i giovani degli anni Sessanta. Cosa può e deve fare un giovane nel contesto della società in cui vive? Il comunismo occidentale ha rinunciato alla idea-valore della rivoluzione proletaria, e quindi ha tolto vitalità, slancio, illusione e fede a chi ci credeva e ci sperava immaginandola come una forma, come una possibilità di salvezza dell’uomo. Non resta, così, che l’alternativa dei sindacati, ma il dubbio è atroce: cosa si può concludere con essi? Più atroce ancora il dubbio sulle possibilità che possono avere i giovani: i giovani possono fare qualcosa? Possono cambiare il mondo? Le uniche certezze appaiono la bomba atomica, quella all’idrogeno e i missili con il terrore che incutono all’umanità. Un’umanità che, quindi, sarebbe stata sconfitta dalla tecnica, che non sarebbe stata capace, non diciamo di far prevalere, ma almeno di far camminare di pari passo il progresso scientifico-tecnologico con le idee e i valori. Una volta presa coscienza di tutto questo, non resta che ripiegarsi su se stessi oppure lo sbocco nel ribellismo anarchico. Da solo, dice ancora il giovane protagonista in crisi, ti viene voglia di mettere le bombe…

Pratolini era stato davvero profeta e oggi – se togliamo il decennio ’68- ’78 durante il quale i giovani hanno pur mostrato di avere qualcosa in cui credere e per cui combattere – oggi non c’è altro che il vuoto. Si è realizzata la profezia di Pasolini il quale, nella sua spietata lucidità, aveva (un quarto di secolo fa!) parlato di omologazione. Dal Trentino-Alto Adige alla Sicilia i giovani sono tutti gli stessi, conformi, omologhi, vuoti, con gli stessi vestiti

 

 

e gli stessi cervelli manipolati dalla televisione. A pensarci un po’ su, ti viene la disperazione.

Forse mio padre ha ragione quando dice che non debbo affliggermi più di tanto di fronte ai problemi dell’uomo e del mondo e che per non soffrire per tutte le cose ingiuste, per tutte le incongruenze della vita bisognerebbe essere un po’ hemingwaiani. Cioè, seri, profondi verso la vita e il mondo ma anche un po’ staccati da essi se non si vuole soccombere del tutto. Si può essere perdenti, sconfitti ma dimostrare a te stesso, se non agli altri, di aver capito il gioco della vita. Ho letto “Morte nel pomeriggio” e mi è piaciuto molto. Alla base c’è il senso profondo della vita e della morte. Ne abbiamo parlato in questi giorni con mio padre. È rimasto molto contento nel vedere il mio entusiasmo. Hemingway è uno degli scrittori che più ama. Proprio  ieri sera mi ha citato a memoria l’intero passo finale di quel libro, praticamente senza errori. Secondo lui si tratta di uno dei passi più belli della letteratura universale. Mentre citava ho seguito il testo: «Abbiamo visto passare ogni cosa e continueremo a vedere. La gran cosa è resistere e fare il nostro lavoro, e vedere e udire e imparare a capire; e scrivere quando si sa qualcosa; e non prima; e, proco cane, non troppo dopo. Salvi pure il mondo, chi vuole, purché voi riusciate a vederlo con chiarezza e nell’insieme. Poi qualunque parte ne rendiate, se è resa veramente lo rappresenterà tutto. Si tratta di lavorare d’imparare a renderlo. No. Non è ancora un libro, questo, ma qualcosa da dire c’è pure. Poche pratiche cose da dire».

Sono rimasto a bocca aperta. Mio padre ha una memoria straordinaria. Più di una volta mi ha detto che tutto è memoria e che senza memoria non ci sarebbe niente. «Ché non fa scienza senza lo ritenere lo avere inteso», mi dice citando il suo amatissimo Poeta, Padre Dante; e conclude con un suo pensiero: il mondo di domani apparterrà a chi avrà più memoria.

Se non avessimo la memoria!… Col tempo che galoppa così velocemente e che sembra voler cancellare tutto… Ma l’uomo non solo può pensare e conoscere, può anche ricordare. E in questo consiste la sua vera grandezza. Parole non mie, ma del mio Grande Vecchio.