Amendolara-27/11/2018: Il cocchio alato del tempo, un romanzo di Salvatore La Moglie

 

Salvatore La Moglie

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie 

Il cocchio alato del tempo, un romanzo di Salvatore La Moglie

Qui di seguito pubblichiamo l’ottavo capitolo del romanzo di  Salvatore La Moglie.  Buona lettura.

VIII

«La domanda ‘cosa significa esistere?’ non può essere sperata da quest’altra ‘cosa significa pensare?’. La filosofia vive dell’unità di queste due domande».

  1. Ricoeur

 

«Prova a pensarci: gran parte della nostra vita ci scappa via mentre agiamo in modo sbagliato, la maggior parte mentre stiamo senza far niente, e l’intera esistenza trascorre in occupazioni inutili e che non ci riguardano veramente. Trovami, se sei capace, uno che dia al tempo il giusto valore, che capisca quanto può essere importante una giornata, che si renda conto che noi moriamo un po’ ogni girono… Mentre rimandiamo le nostre scadenze, il tempo passa».

Seneca

 

«… Ma nessuno valuta il tempo in sé… Eppure si gioca con la cosa più preziosa che ci sia; inganna perché è immateriale, perché non la si vede: per questo non le si dà importanza, anzi è ritenuta quasi di nessun valore… L’uomo grande, credimi, quello che sa stare al di sopra degli errori umani, non permette che gli si porti via neanche un minuto del tempo che gli appartiene, e proprio per questo la sua vita è lunghissima, perché è stata tutta a sua disposizione dal principio alla fine».

Seneca

 

«C’è molta differenza tra il ritiro del saggio e l’inerzia di chi se ne sta come in un sepolcro… Vive veramente chi è utile all’umanità e sa usare se  stesso… Impegnamoci: solo in questo modo la vita sarà un bene… Cerchiamo dunque che ogni momento ci appartenga: ma non sarà possibile, se, prima non cominceremo noi ad appartenere a noi stessi».

Seneca

 

 

 

 

«Sono convinto che il Novecento sia il secolo in cui l’intelligenza come la stupidità dell’uomo abbiano raggiunto il loro massimo grado», disse il Grande Vecchio col suo tono di voce calmo ma deciso. Stava seduto al solito posto circondato dai suoi amatissimi libri.

Lo seguivo con attenzione cercando di non perdere una delle sue parole. Parole che per me diventavano sempre più preziose e che volevo custodire gelosamente dentro lo scrigno della memoria.

«Intelligenza e stupidità: questo è l’uomo?…».

«Sì, Sandro, è questo l’uomo. E nel concetto di stupidità è implicito quello di malvagità. Il male non può che essere legato alla bestialità, alla imbecillità dell’uomo. Ne abbiamo parlato anche altre volte e potremmo parlarne ancora fra mille anni: credo che saremmo qui a ripetere le stesse cose…», concluse col tono del pessimista che sogna un mondo diverso.

«Chissà tra mille anni come sarà la vita, l’uomo, il mondo… questo nostro vecchio pazzo mondo…», dissi col tono di chi sa che non gli sarà mai concesso di saperlo.

«Più di una volta me lo sono chiesto anch’io, cercando di immaginare la ‘scena’… In verità, la curiosità è fortissima e vorrei vivere in eterno solo per vedere come andrà a finire… Per vedere se mai l’uomo, un giorno, sarà capace di essere soltanto intelligente e saggio e buono… Se ripercorri mentalmente la storia e le vicende di questo secolo non puoi che convenire», concluse, «che mai l’uomo è stato tanto intelligente, mai ha fatto tante scoperte e tante invenzioni come in questi cento anni e, allo stesso tempo, mai ha mostrato come ora tanta stupidità. È forse questo il grande paradosso dell’uomo e, soprattutto, dell’uomo contemporaneo, dell’uomo, cioè, che più di ogni altro suo predecessore, ha raggiunto il dominio quasi totale del mondo e della natura eppure è quello che più di ogni altro venuto prima di lui è dominato dalla paura».

«Basterebbe pensare alle varie forme di inquinamento che stanno riducendo la qualità della vita ai limiti accettabili…».

«Come basterebbe pensare alle brutali dittature che con le loro ideologie estreme hanno segnato il secolo: il fascismo, lo stalinismo e il nazismo con i loro milioni di morti… E poi ancora i tanti focolai di guerra, i nuovi nazionalismi… e giù giù fino alle paure e alle fobie della vita di tutti i giorni. Ma», conclusi, «dall’altro lato, si debbono tenere presenti gli aspetti positivi…».

«Sì, Sandro, perché l’uomo – come più volte ti ho detto – è un Giano bifronte, è la sua stessa negazione». Si fermò un momento, poi ricominciò a parlare. «Il grande storico Hobsbawn ha definito il ’900 il ‘secolo breve’. Per alcuni aspetti, non ha torto a definirlo così… Io, ti, lo definirei il ‘secolo

 

 

lungo’, perché in questo secolo sono accadute tante di quelle cose e sono state scoperte e create tante di quelle cose da sembrare che in esso siano racchiusi tutto il progresso e tutta la storia dell’umanità. In nessun secolo, come nel nostro, l’uomo è mai stato capace di tante realizzazioni».

«Il Novecento, dunque, quasi come metafora della storia, del cammino dell’uomo?».

«Sì», rispose e subito aggiunse: «Pensa solo a questo: che per secoli e secoli l’uomo, in media, non è riuscito a superare i quaranta-cinquant’anni e che solo oggi, negli ultimi trent’anni, la speranza di vita alla nascita è (sempre nella media) di circa settantacinque anni per l’uomo e di quasi ottanta per la donna (il sesso debole…)», concluse sorridendo. Quindi continuò: «Questo, naturalmente, vale per quella parte del mondo più progredita e più ricca. Nei paesi sottosviluppati sono rimasti a un secolo fa o comunque a cinquant’anni fa».

«È incredibile che ancora oggi ci sia una parte dell’umanità così povera ed emarginata. È una vergogna! È una cosa che non fa onore ai paesi più fortunati», dissi con tono indignato.

«Hai ragione, Sandro. È una vergogna, è un’infamia. Evidentemente, ai paesi ricchi fa comodo avere una parte della terra povera, cioè una riserva di forza lavoro disponibile a poco prezzo. Ricordati che l’egoismo ha sempre la meglio…», concluse con amarezza.

«Pensa se i miliardi spesi per gli arsenali di guerra fossero impiegati in favore dei paesi poveri dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina!…».

«Quanto bene ne nascerebbe!… Vuoi sentire cosa ha detto Churchill a questo proposito? Ascolta: col denaro speso nel corso del secolo in due guerre mondiali e in un centinaio di conflitti minori avremmo potuto modificare il mappamondo… E Churchill non ha visto il seguito…».

«Dunque», dissi scuotendo la testa, «prevale sempre la stoltezza, la dissennatezza e l’ingiustizia degli uomini…».

«Spesso mi vengono in mente le parole del più grande Presidente della Repubblica che l’Italia abbia avuto, cioè Sandro Pertini. Pertini invitava sempre i potenti della terra a svuotare gli arsenali di guerra e a riempire i granai. Il messaggio era rivolto soprattutto alle due superpotenze, gli USA e l’URSS, in continua e inarrestabile corsa agli armamenti».

«Pertini è stato un grande uomo che, forse, un paese per tanti aspetti criticabile come il nostro non meritava».

«Sì, Sandro, per certi aspetti, non lo meritava… Ma meglio non parlare dell’‘umile Italia’. L’Italia», continuò con tono sofferente, «è sempre l’Italia di Dante, di Machiavelli, di Manzoni e di Pasolini».

«Di Pasolini?…».

«Sì, Sandro. Purtroppo, il nostro paese ha delle costanti storiche sia nella politica che nella morale, nei costumi… L’Italia e gli italiani sono ancora (con facce diverse…) quelli descritti da Dante, da Machiavelli, da Manzoni e, nel nostro secolo, da Pasolini: corruzione, viltà, meschinità, prepotenza,

 

 

mafiosità, conservatorismo, servilismo verso lo straniero di turno… e mi fermo per carità di patria…».

«Eppure», ribattei, «il nostro è un così grande paese, con una grande storia e con una grande letteratura…».

«Con la più bella letteratura del mondo, Sandro. La più bella anche se poco popolare…».

«La più bella ma poco popolare…», ripetei.

«Sì, la letteratura italiana non è stata mai popolare in Italia e di questo si era accorto nell’Ottocento quel grand’uomo di Ruggiero Borghi, il quale ci ha lasciato uno scritto in merito dal titolo interrogativo: ‘Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia’. E secondo Borghi una delle cause fondamentali di questa impopolarità sta nella ricerca disperata della bella forma, del bello scrivere… Cioè nel difetto principale della nostra letteratura, la quale sarebbe stata ancora più bella senza questo difetto…».

«Anche per questo si legge così poco in Italia, oltre che per il costo elevato dei libri?».

«È molto probabile, perché la gente non vuole libri ‘illegibili’, intraducibili ecc. ma vuole cose semplici, vuole un linguaggio facile e scorrevole. Paradossalmente, un paese di grandi scrittori (a parte i santi e i navigatori…) è quello che meno legge tra i paesi sviluppati, tanto da far dire a Moravia e a Pasolini che il nostro è un paese ‘orribilmente ignorante’, oltre che ‘orribilmente sporco’…».

Questa fu la sua amara conclusione.

Ci fu una pausa piuttosto lunga. Quindi presi la parola.

«Come mai, mi chiedo spesso, tante nazioni, tanti popoli ricchi di storia e di cultura si rivelano, in alcuni casi, così poco saggi?».

«La saggezza… È sempre lì che vai a parare… È il tuo chiodo fisso».

«Sì, è il mio chiodo fisso. È vero…».

«Vedi, Sandro, la saggezza – nei popoli come negli individui – è il frutto, spesso amaro, dell’esperienza…», incominciò a dire.

«Saggezza uguale esperienza?», lo interruppi.

«Praticamente sì», rispose. «Io ho sempre presente il pensiero del Santayana che diceva che coloro che non hanno memoria del passato, sono condannati a riviverlo. E il pensiero va alle cose negative, alle esperienze brutte che i popoli – come i singoli uomini – fanno nel corso della loro esistenza».

«Per esempio, l’esperienza del fascismo o del nazismo con ciò che ne è seguito per gli ebrei, o anche quella dello stalinismo con i suoi gulag…».

«Sì, Sandro, proprio così. E sono esperienze allo stesso tempo collettive e individuali…».

«Ecco perché il Santyana fa appello alla memoria storica collettiva…».

«Che è poi anche memoria storica individuale…». Ci fu una breve pausa.

 

 

«Vedi», ricominciò, «il legame saggezza-esperienza era già ben presente nella mente geniale di Leonardo. E cosa aveva detto Leonardo? Aveva detto semplicemente che la sapienza è figliola dell’esperienza».

«Dunque, siamo saggi solo dopo aver fatto tante esperienze, dopo aver avuto alle spalle tanta storia, tanto passato?».

«Indubbiamente è il tempo che ci forgia ed è – o meglio dovrebbe essere

– l’esperienza, il nostro vissuto a renderci saggi e a renderci più avveduti verso la realtà».

«Eppure, spesso, accade che – nonostante l’esperienza – ricadiamo nello stesso errore o comunque in errori simili…».

«È vero. Quello che dici è vero e la vita è piena di ‘senno del poi’ e di ricadute (di tragiche ricadute) negli errori già fatti. In questo momento mi viene in mente un pensiero di Malraux che recita più o meno così: l’esperienza ci insegna che non ci insegna niente…» .

«Bello questo pensiero… davvero interessante», esclamai scuotendo positivamente la testa. Quindi aggiunsi: «Secondo Gide, invece, saggio è colui che si stupisce di tutto».

«La saggezza… Vedi, la saggezza è tante cose. È esperienza, è cultura, è conoscenza delle cose e degli uomini… è sofferenza…», concluse col suo solito tono serio e pacato.

«Sofferenza?…».

«Sì, Sandro. Perché la sofferenza è consapevolezza. È come una forma di conoscenza. Attraverso l’esperienza del male e del dolore dovremmo diventare più esperti della vita e quindi più consapevoli… più saggi. Il guaio è che la saggezza», concluse con una punta di amarezza, «il più delle volte la conquistiamo quando non ci serve più… quando non possiamo più farne uso…».

«Ci arriviamo troppo tardi…».

«Sì… troppo tardi…», ripeté e aggiunse: «Perché la saggezza è una sintesi. È una sintesi ed una fusione tra teoria e pratica, tra conoscenza teorica e pratica della vita. Saggio è colui che riesce a tacere quando si deve tacere e a parlare quando si deve parlare; saggio è colui che, vinta ogni passione, riesce a guadagnare il mondo con ironia e distacco, con disincanto cioè e, quindi, con un superiore sorriso. Ma quando sei giunto a questo stadio sei già arrivato al traguardo finale…», concluse con gli occhi quasi lucidi.

«I giovani, dunque, non sono saggi…», dissi mentre pensavo alla sua malinconia.

«Se un giovane è saggio», rispose con un mezzo sorriso, «vuol dire che è già invecchiato… Scherzi a parte», aggiunse, «il più delle volte, il saggio ha alle spalle secoli di pessimismo. Ma la saggezza, ripeto, è tante cose. Anche trasgredire, commettere una ‘follia’ può rivelarsi cosa saggia. Trasgressione e saggezza non sono parenti stretti. Eppure una forma di saggezza potrebbe consistere nella capacità di saper unire gli opposti…

 

 

Occorrerebbe essere capaci di commettere delle trasgressioni nella saggezza. Ricordi il pedale del freno e quello dell’acceleratore? Ebbene, la saggezza è tenere il piede sul primo pedale, la trasgressione è tenerlo sul secondo: la sintesi dovrebbe consistere nella capacità di saper tenere i piedi su quei pedali nella giusta misura…».

Lo ascoltavo con molto piacere. Anche se alcune cose, alcuni concetti venivano ribaditi o formulati in modo diverso era sempre una grande gioia. Del resto, i latini non dicevano che il ripetere giova?

Dopo una breve pausa, aveva ripreso a parlare.

«La coscienza è sempre dolore; mentre l’incoscienza, la trasgressione, la follia… sono come delle scappatoie, dei modi meno dolorosi di affrontare la realtà… e chi ci dice che, alla fin fine, questa non sia la vera saggezza?… Sulla follia e sulla saggezza», concluse, «si potrebbero fare tante citazioni. Te ne faccio una sola, quella del grande La Rochefoucauld: ‘Chi vive senza follia non è così saggio come crede’…».

«Chi non è stato mai folle, non è stato mai savio?».

«Bravo, ragazzo mio! Si vede che leggi», disse con occhi pieni di gioia.

«Ho tanto da imparare e i libri vorrei divorarli… Non so se una vita possa bastare…».

«Non basta, figlio mio, non basta… Dovremmo poter vivere duecento anni eppure sarebbero insufficienti… Non si finisce mai di imparare. E non solo dai libri…».

«In conclusione, la saggezza è, come tanti altri, un concetto relativo e ognuno può farla consistere in quello che vuole…».

«Hai detto bene, ragazzo mio. La saggezza è una forma di vita, una modalità di esistenza… È una visione del mondo. Ognuno di noi», continuò,

«può far consistere la vera saggezza della vita in un qualsiasi modo di procedere. Per tanti essa è semplicemente mangiare, bere, dormire, procreare… Per altri è la ricerca esasperata del piacere, del godimento cioè dei beni terreni o all’opposto la proiezione della propria esistenza in una dimensione di castità e di spiritualità. Per altri, invece, la ricerca disperata del successo, del denaro o del potere… e via dicendo. Esiste, infine, una particolare categoria di individui (poche centinaia o, comunque, poche migliaia…) per cui la saggezza della vita consiste nel saper spendere bene il proprio tempo e credono che ciò sia possibile soltanto facendo una particolarissima scelta: restandosene chiusi dentro una stanza a colloquiare con gli autori di ieri e di oggi sul passato, sul presente e sul futuro degli uomini e del mondo…».

Improvvisamente sentimmo la voce di zia Laura. Dal corridoio mandò quasi delle urla di gioia.

«La guerra è finita! La guerra è finita!».

Ci guardammo e ci alzammo avviandoci verso la cucina. Il televisore era acceso e il telegiornale mandava in onda le ultime immagini dalla Serbia e

 

 

dal Kosovo facendo la cronaca degli ultimi giorni di trattative che avevano portato alla pace.

Ci sedemmo intorno al tavolo che si trovava al centro della stanza.

«Finalmente questa sporca guerra è finita», cominciò la zia. «Non se ne poteva più», aggiunse e concluse: «È terribile ed inconcepibile che pochi uomini possano decidere di mandare a morire e di far morire migliaia di esseri umani innocenti che invece avrebbero potuto continuare a vivere…».

«E muoiono senza aver capito i ‘giochi’ della politica delle grandi potenze…», commentai scuotendo negativamente la testa.

«La gente», disse ancora la zia, «si era proprio stufata di questa stupida guerra… E pensare che anche noi siamo andati a fare le nostre brave missioni sui tetti di Belgrado in nome della nostra amicizia con il ‘padrone del mondo’… Ah, che schifo…», concluse con una smorfia di disgusto.

«Forse il male è la politica…», commentai.

«La politica…», ripeté mio padre. Quindi continuò: «E il fatto è che mai come oggi il futuro, il destino del mondo e dell’umanità è un problema di politica, di volontà politica… Le grandi questioni del mondo sono nelle mani di quei pochi uomini che contano sia politicamente che economicamente. Le masse, la gente comune può fare ben poco… Può assumere un atteggiamento di accettazione, di rassegnazione o di dolorosa indifferenza… oppure potrebbe ribellarsi. Ma anche se si ribella, chissà perché, poi, al potere non va mai, mentre vanno sempre quei pochi che fanno credere che adesso tutto cambierà… Ma poi resta tutto come prima se non peggio di prima…», concluse con tono amaro.

«La politica è meglio capirla che farla…», sentenziò la zia.

«Se gli Stati, se gli uomini di potere di tutto il mondo», dissi interrompendo la zia, «pensassero meno alle spese militari o ad altre bestialità tipicamente ‘umane’, e pensassero solo un po’ di più alle spese per l’istruzione e la cultura… forse il mondo sarebbe diverso…

Forse l’uomo sarebbe meno infelice e cambierebbe anche la qualità della vita che è stato chiamato a vivere…».

«Quello che dici, Sandro, è molto bello», disse mio padre. «Sono convinto di una cosa: o vi sarà l’avvento di un nuovo umanesimo capace di creare un nuovo uomo, un nuovo tipo umano in grado di ristabilire, di recuperare i veri valori della vita, oppure l’umanità sarà condannata alla catastrofe. Occorre», concluse, «una forte presa di coscienza sul destino dell’uomo, altrimenti chissà ancora per quanti secoli resteremo a guardare dalla finestra la tragedia della stupidità umana…».

Ci fu una lunga pausa durante la quale ci guardammo col volto di chi sente addosso tutto il peso e il dolore del mondo.

Quindi il mio Grande Vecchio, tanto per cambiare discorso, concluse abbozzando un mezzo sorriso: «Mia dolcissima sorella, cosa ci fai mangiare oggi di buono?».