Trebisacce-26/04/2021: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del Primo Canto dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che, presto, diventerà un libro.

 

 

 

 

 

 

Salvatore La Moglie

 

 

 

 

 

 

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del Primo Canto dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che, presto, diventerà un libro.

 

 

Il canto I. Introduzione al  folle viaggio. La selva oscura (del peccato e dello smarrimento dell’uomo, di Dante-umanità). Le tre allegoriche fiere: la lonza, il leone e la lupa. La provvidenziale apparizione, quasi un colpo di scena, di Virgilio (che simboleggia la ragione umana, la filosofia, la saggezza, la coscienza e politicamente l’Impero). A un Dante terrorizzato, Virgilio spiega come si trova lì per sostenerlo e guidarlo nell’ardua impresa del folle viaggio nel mondo dei morti, dove potrà vedere come l’uomo, quando non è sorretto dalla Ragione e dalla Fede, precipita nel peccato, nella perdizione e nell’abiezione e come si possa ottenere la purificazione dei peccati e dell’anima, fino al raggiungimento della beatitudine e della visione di Dio, che è vero Amore. Ma per questo traguardo e questa visione occorrerà la guida di una donna, Beatrice (la Fede, la Teologia, la Rivelazione, la Grazia divina e politicamente la Chiesa, il Papato) che ha già provveduto ad intercedere affinchè Virgilio scendesse in soccorso di Dante. Il quale, superata l’angoscia e lo spavento dovuto alle tre pericolose fiere, accetta di farsi guidare dal famoso saggio.

Nel primo canto introduttivo della Commedia, Dante dice ai suoi lettori che nel mezzo del cammin di nostra vita, cioè all’età di 35 anni (e dunque i ceti benestanti vivevano, in media, fino a 70 anni) si ritrova in una selva oscura  (la selva del peccato). Un panorama orribile, quello in cui si ritrova Dante, tanto orribile che solo a pensarlo fa venire la paura; è tanto terribile questo scenario infernale che può essere paragonato alla morte, ma siccome lì ha trovato anche il bene (Virgilio, cioè l’uomo che simboleggia la Ragione umana e politicamente l’Impero di stampo romano, con tutta la sua grandezza e il suo mito), ecco che si premura di dire che dirà delle altre cose che ha subito visto (Virgilio che lo salva dalle tre fiere, belve): Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura chè la diritta via era smarrita. Ah quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! Tant’è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch’io vi trovai, dirò dell’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

Dante avverte subito il lettore (ed è finzione letteraria da romanzo davvero azzeccata) di non sapere come si è trovato nell’orribile selva: Io non so ben ridir com’io v’entrai, tant’era pieno di sonno a quel punto che la verace via abbandonai: dormiva della grossa, dice, ma in verità, si tratta del sonno della ragione che, quando non è vigile, fa deviare e ci fa smarrire dalla giusta via della virtù e della rettitudine fino a farci finire dentro l’orribile selva del peccato e della perdizione che ci condanna alla morte spirituale, dopo quella fisica e, quindi, alla dannazione eterna. Tuttavia, la vista di un colle, poi dilettoso monte (la vita virtuosa che è fonte di gioia) da dove si scorge il sole in mezzo a tanta oscurità e penombra, ridà al viandante un po’ di fiducia e di speranza dopo tanta angoscia e paura: Dante guarda indietro e si paragona al naufrago che nuota disperato per la salvezza e crede che si salverà anche lui dopo tanta tremenda paura e angoscia provocata dalla selva infernale che travolge ogni umana esistenza: E come quei che con lena affannata uscito fuor del pelago alla riva si volge all’acqua perigliosa e guata, così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva. Quindi, dopo essersi riposato un po’ e procedendo sempre con tanta paura e dubbi per la selva oscura, ecco che a farlo ripiombare nel terrore e nell’angoscia più disperata è l’apparizione, all’inizio di un’erta, di una prima fiera, una lonza (una specie di lince, di leopardo, allegoria della lussuria e, secondo alcuni, del corrotto e  degenerato partito guelfo di allora) maculata, agile e veloce (una lonza leggiera e presta molto, che di pel maculato era coverta), che gli si piazza davanti e gli impedisce il cammino, il viaggio intrapreso per il bene e la salvezza dell’umanità (non mi sia partìa d’innanzi al volto, anzi impediva tanto il mio cammino). Era così minacciosa che Dante pensa di ritornar più volte volto, cioè indietro e rinunciare, quindi, alla sua missione voluta da Dio per la salvezza dell’uomo. Tuttavia, l’ora mattutina, il sole che si sa sorgere ogni giorno e la dolce stagione, cioè la primavera, lo inducono a sperare ma, a un tratto, gli appaiono, davanti ai poveri occhi, altre due fiere ancora più minacciose e terrorizzanti: un leone (allegoria della superbia e dell’arroganza, uno dei grandi mali che affliggevano e affliggono tuttora il pianeta Terra, e qualcuno ha voluto vederci un’allegoria della Casa Reale della Francia di allora) e una lupa (allegoria dell’avarizia, cioè della cupidigia, del desiderio smisurato di beni terreni, di ricchezze e di potere; altro grandissimo male che genera, che è fonte di corruzione, di degenerazione e di tanti altri mali; e potrebbe essere allegoria della cupidigia di ricchezze e di potere della Chiesa corrotta e degenerata), una belva talmente pericolosa che molte genti fe’ già viver grame e che terrorizza tanto il povero Dante da fargli perdere la speranza di salvarsi e, infatti, la bestia sanza pace (cioè insaziabile, sempre allegoricamente affamata) lo spaventa così tanto, col suo andargli incontro, da risospingerlo nella parte più oscura della selva: …ma non sì che paura non mi desse la vista che m’apparve d’un leone. Questi parea che contra me venesse con la test’alta e con rabbiosa fame, sì che parea che l’aere ne temesse. Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca nella sua magrezza, e molte genti fe’ già viver grame, questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch’uscia di sua vista, ch’io perdei la speranza dell’altezza.

Le tre fiere sono dei grandi e terribili mali-tentazioni per l’uomo e non soltanto minacce alle quali possiamo cedere per paura e viltà. Ma, a un tratto, accade qualcosa di miracoloso ed ecco che l’uomo, se vuole, può salvarsi e redimersi: Mentre ch’i’ ruvinava in basso loco, dinanzi alli occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parea fioco. Proprio quando tutto sembrava perduto, appare, miracolosamente, quasi come deus ex machina, il poeta Virgilio, l’autore dell’Eneide tanto amato da Dante, suo modello ideale di scrittore e di stile che, nell’antichità, era ritenuto persino una sorta di  mago e di profeta. Dante ne fa il simbolo della Ragione umana che, quando è silente e poco vigile, può condurci a rovina, farci perdere la giusta via della virtù e di Dio (il ben dell’intelletto) e quindi al peccato e alla dannazione dell’anima. Virgilio (famoso saggio) rappresenta anche l’umana filosofia – spiega bene Natalino Sapegno nel suo celebre commento (La Nuova Italia Editrice, 1963) – e anche l’autorità imperiale, alla quale la Provvidenza ha assegnato il compito di guidare gli uomini alla felicità temporale. Insomma: Il sonno della ragione genera mostri, sembra dirci Dante anticipando di alcuni secolo Francisco Goya. La Ragione e la Fede sono, per Dante, i migliori baluardi, la migliore diga da opporre al Male dilagante che regna sovrano sulla Terra.

Che tu sia uomo o anima, ti prego di avere misericordia di me e di aiutarmi, gli grida il terrorizzato Dante (miserere di me…), al quale Virgilio risponde presentandosi come anima, figlio di genitori lombardi, nato ai tempi di Giulio Cesare e vissuto sotto il regno del magnanimo Augusto, quando a prevalere erano gli dei falsi e bugiardi del paganesimo. Gli dice ancora di essere stato un poeta e di aver narrato nell’Eneide le vicende di Enea che, dopo l’incendio della superba Troia, si mette sulle spalle il padre Anchise e si avvia (secondo la leggenda) verso il Lazio, dove darà origine alla gens Giulia e quindi alla stirpe dei Cesari, cioè degli imperatori Romani: Quando vidi costui nel gran diserto, “Miserere di me” gridai a lui, “qual che tu sii, od ombra od omo certo!”. Rispuosemi: “Non omo, omo già fui, e li parenti miei furon lombardi, mantovani per patria ambedui. Nacqui sub Julio, ancor che fosse tardi, e vissi a Roma sotto ‘l buono Augusto al tempo delli dei falsi e bugiardi. Poeta fui, e cantai di quel giusto figliuol d’Anchise che venne da Troia, poi che ‘l superbo Iliòn fu combusto. Ma tu perché ritorni a tanta noia? Perché non sali il dilettoso monte ch’è principio e cagion di tutta gioia?”.

A Virgilio che gli chiede perché sta indietreggiando invece di proseguire il viaggio verso il dilettoso monte (il metaforico colle della virtù), Dante non spiega subito il motivo ma gli dice, con la testa piegata in segno di rispetto (con vergognosa fronte) dinanzi a così grande personalità, di aver capito chi ha di fronte: Tu sei Virgilio, quella fonte poetica di cui si parla ovunque e, con entusiasmo, prosegue con un lungo elogio: Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo fiume? O delli altri poeti onore e lume, vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore che m’ha fatto cercar lo tuo volume. Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore; tu se’ solo colui da cu’ io tolsi lo bello stilo che m’ha fatto onore: tu, degli altri poeti, sei onore e luce; mi giovi presso di te il tanto studio e il grande amore con cui ho approfondito la lettura della tua opera (l’Eneide); tu sei il mio maestro e l’autore per eccellenza, quello più autorevole, il mio modello ideale, quello da cui ho mutuato lo stile elevato, illustre, tragico (lo bello stile) che mi ha dato onore tra i poeti. Detto questo, Dante passa a chiedere aiuto al famoso saggio, a quello che nel settimo canto dell’Inferno definisce il savio gentil che tutto seppe: La vedi la bestia (cioè la lupa)? Ebbene, è lei che mi spaventa a morte e che mi stava facendo ritornare indietro… è così terribile che mi fa tremare tutto il corpo (vedi la bestia per cu’ io mi volsi: aiutami da lei, famoso saggio, ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi).

Virgilio ha capito che il Dante pauroso e in lacrime è afflitto da scarso coraggio e da atteggiamento amletico e tentennante:  gli dice, con tono risoluto, che se vuole veramente salvarsi dalla selva oscura (dal peccato) deve cambiare atteggiamento: A te convien tenere altro viaggio se vuo’ campar d’esto loco selvaggio. Devi essere più coraggioso e ben deciso, perché la belva che hai di fronte a te (la lupa) è così minacciosa e terribile (e anche tentatrice…) da impedire di passare a chi si trova sulla sua via fino ad ucciderlo; ha una natura così malvagia e perversa da non sentirsi mai sazia e da avere sempre brama di cibo (la ricchezza, i beni materiali, la roba), anche dopo aver mangiato molto. Gli animali, cioè i vizi, i mali, con cui ben lega ed è in sintonia sono tanti e saranno ancora di più fino a quando non apparirà sulla scena il Veltro (un riformatore?), che la ucciderà procurandole molto dolore: (infin che ‘l Veltro verrà, che la farà morir con doglia): …chè questa bestia, per la qual tu gride, non lascia altrui passar per la sua via, ma tanto lo ‘mpedisce che l’uccide; e ha natura sì malvagia e ria, che mai non empie la bramosa voglia, e dopo ‘l pasto ha più fama che pria. Molti son li animali a cui s’ammoglia, e più saranno ancora, infin che ‘l Veltro verrà, che la farà morir con doglia. Questi non ciberà terra né peltro, ma sapienza, amore e virtute, e sua nazion sarà tra feltro e feltro. Di quell’umile Italia fia salute per cui morì la vergimne Camilla, Eurialo e Turno di ferute. Questi la caccerà per ogni villa, fin che l’avrà rimessa nello ‘nferno, là onde invidia prima dipartilla.

Cosa sia questo Veltro ancora, dopo sette secoli, resta un mistero e fa forse parte dell’aspetto occultista, misterico, diciamo così, di Padre Dante. Per combattere e vincere la lupa – spiega ancora bene il Sapegno – occorre un veltro, e cioè un cane da caccia ben addestrato e veloce. E poiché nella lupa è rappresentata l’avarizia o la cupidigia, come causa fondamentale del disordine civile e morale dell’umanità, il Veltro dovrà rappresentare, nella mente di Dante, un’azione di riforma promossa da Dio, che perseguiti la cupidigia per ogni villa, cacciandola dovunque si annidi, e ristabilisca nel mondo tutto, e particolarmente nell’Italia, l’ordine e la giustizia. Si tratta – prosegue il Sapegno – di una profezia espressa da Dante con linguaggio volutamente oscuro e ambiguo e, dopo aver fatto notare che nella Commedia c’è più di una pagina profetica, avverte di respingere la tentazione di vedere nel Veltro personaggi come il papa Benedetto XI, l’imperatore Arrigo VII, Uguccione della Faggiola o Cangrande della Scala. Il male, il vizio dell’avarizia era particolarmente detestato dal Poeta perché causa essenziale della corruzione ecclesiastica, e dell’allontanamento della Chiesa dalla sua pura missione spirituale e dalla povertà evangelica. Pertanto, nel Veltro si dovrà scorgere una forza capace di assumersi il compito primario di riformare la Chiesa e di ricondurla alle sue origini apostoliche: e potrà essere un imperatore, che ristabilisca la giusta distinzione fra il potere temporale e quello spirituale, ovvero un pontefice che operi dall’interno il rinnovamento in senso evangelico degli istituti ecclesiastici. E conclude di propendere per la seconda ipotesi. (Sia detto per inciso, se dovessi pensare al Veltro nell’ipotesi suggerita dal Sapegno, direi che l’incarnazione del misterioso Veltro potrebbe essere papa Francesco, il papa comunista, come lo definiscono i più conservatori e retrogradi interpreti del giornalismo, in quanto cerca di imporre una riforma morale alla riottosa e potente Curia romana, più avida di beni materiali che spirituali e morali, e i più recenti scandali, che hanno visto protagonisti importanti cardinali, ne sono un ulteriore miserevole emblema).

Il Veltro (il riformatore ovvero un papa spirituale, secondo il Sapegno) che verrà – spiega, dunque, Virgilio a Dante – non sarà avido di potere o di ricchezze ma soltanto di sapienza, amore e virtude (le tre persone della Trinità, e cioè Figlio, Spirito Santo e Padre) e avrà origini umili e nascerà avvolto da panni di poco valore. L’avvento di questo Veltro di quell’umile Italia fia salute, sarà la salvezza di questa Italia misera e caduta in basso, in declino morale per la quale, inizialmente, morirono, diedero la loro vita (nella guerra combattuta da Enea e dai Troiani per la conquista del Lazio) eroi come la vergine Camilla, Eurialo e Turno e  Niso di ferute, cioè per le ferite mortali che furono loro inferte nel combattimento. Il Veltro darà ovunque la caccia alla lupa fino a quando non l’avrà ricacciata per sempre nell’Inferno, da dove Satana, il Male l’aveva fatta uscire per corrompere gli uomini. E, dunque, caro Dante, credo proprio – gli dice Virgilio – che, per il tuo bene e la tua salvezza, tu mi debba seguire: (Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno che tu mi segui, e io sarò tua guida e trarrotti di qui per luogo etterno, ove udirai li antichi spiriti dolenti) io ti farò da guida per tutto il viaggio attraverso l’Inferno, durante il quale sentirai le urla disperate di dolore delle anime dannate che sono qui da lunghissimo tempo, che soffrono talmente tanto da desiderare, dopo la morte fisica, anche quella spirituale (la seconda morte ciascun grida); poi, nel Purgatorio, vederai color che son contenti nel foco, perché speran di venire quando che sia alle beati genti: vedrai le anime di quanti sono felici nell’espiare la loro pena perché sperano di raggiungere i  luoghi della beatitudine, cioè del Paradiso, dove, se tu vorrai salire, sarai guidato da Beatrice, anima…a ciò più di me degna: con lei ti lascerò nel mio partire: essendo un pagano e, quindi, non sorretto dalla Grazia divina, Virgilio non può guidarlo per le vie del Paradiso (chè quello imperador che là su regna, perch’io fu’ ribellante alla sua legge, non vuol che ‘n sua città per me si vegna). Pertanto, la nuova guida sarà Beatrice, la donna tanto amata e idealizzata dal Poeta, conosciuta quando aveva 9 anni e poi rivista quando ne aveva 18. Beatrice di Folco Portinari, donna realmente esistita e forse realmente amata e desiderata da Dante, morta a soli 24 anni nel 1290, e che era già stato tanto esaltata nella Vita nuova, opera nella quale il Poeta avverte il lettore che ha intenzione di esaltarla e di dire di lei quello che mai non fue detto d’alcuna e cioè nella Divina Commedia, dove diventa definitivamente donna-angelo scala al Fattore, cioè la donna-miracolo capace, con la sua Grazia, di condurre alla beatitudine celeste, fino al Paradiso e alla visione di Dio.

Il primo canto della Commedia si chiude con Dante che prega Virgilio di fargli da guida affinchè possa salvarsi dalla selva, sfuggire al peccato e alla dannazione eterna (acciò ch’io fugga questo male e peggio) e poter, infine, giungere (dopo aver visto le sofferenze dell’Inferno), alle porte del Paradiso (sì ch’io veggia la porta di san Pietro). Virgilio acconsente e va avanti, con Dante che lo segue (allor si mosse, e io li tenni retro): la Ragione deve andare avanti, deve sempre precedere perché deve fare da faro, deve illuminare e guidare il nostro tragitto, il nostro rischioso e pericoloso cammino su questa Terra. Virgilio è il lume di Dante-umanità, il lampadoforo, ovvero colui che, nel cuore della notte, porta il lume e, se non fa luce per sé, certamente la fa a chi gli sta dietro. La metafora per Virgilio che ci sembra davvero azzeccata sia come maestro di letteratura, di stile che come simbolo della Ragione illuminante e istruente, la  possiamo leggere nel Purgatorio (canto XXII) per bocca di Stazio, anch’egli tanto devoto e debitore verso il famoso saggio: Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte.