Trebisacce-27/09/2021: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del settimo canto-capitolo dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo

 

 

 

 

 

 

 

 

Salvatore La Moglie

 

Il canto VII. Siamo ancora nel regno dell’Incontinenza, nel quarto cerchio. Il demonio Pluto. Gli avari e i prodighi. Dopo la malattia della gola quella peggiore del dio denaro, della brama e dell’uso smodato, egoistico di ricchezze materiali che accecano gli uomini e li inducono a commettere anche le più basse e immorali delle azioni, seminando tra gli uomini l’infelicità. La Fortuna. Poi, nel V cerchio, ci sono gli accidiosi e gli iracondi che, immersi nel fiume Stige, si percuotono l’un l’altro.

 

Pluto, ovvero Plutos, figlio di Iasione e Demetra, dio delle ricchezze; per altri commentatori si tratterebbe di Plutone o Dite, figlio di Saturno e signore dell’Averno. Sia in greco che in latino, i due nomi Pluto e Dite significano ricco. Dante fa di Pluto il demonio custode del quarto cerchio, dove sono puniti i prodighi e gli avari, cioè coloro che in vita scialacquarono, spesero a gogò e coloro che, invece, accumularono ricchezze enormi, tanto denaro tenendolo gelosamente custodito e adorato e venerato come una divinità. Siamo al biblico Mammona, ovvero il denaro (con i suoi sinonimi: guadagno, profitto, ricchezza), venerato come e più di Dio, tanto severamente condannato nel Nuovo Testamento e Dante non poteva fare diversamente: la sua condanna del vile denaro e di tutto quello che lo sterco del demonio porta gli uomini a compiere di malvagio è senza se e senza ma. Il dannato metallo, prostituta comune dell’umanità che riesce a mettere la discordia tra i popoli (e a combinare quant’altro) di cui, più in là, parlerà William Shakespeare nel Timone di Atene e contro cui tuonerà ancor di più il già citato Marx, viene duramente condannato da Dante con anticipo di secoli. Il denaro, per lui, era fra l’alto, un potentissimo strumento di corruzione che avvelena e intossica la vita sociale, economica e politica di una società e di un paese.

E, dunque, per terrorizzare i due Poeti e soprattutto quello in carne ed ossa, ecco che il demonio Pluto, il maladetto lupo (perché simbolo di avidità di ricchezze, di denaro), incomincia con una oscura, incomprensibile, rabbiosa e rauca interiezione con cui esalta Satana, il primo di tutti, il grande principe, il vero dio da contrapporre al Dio che lo ha cacciato dai cieli perché si è ingiustamente ribellato: Papé Satàn, papé Satàn aleppe! (più o meno: oh Satana, oh Satana Dio! E papé sarebbe parola vicina, simile a quella di papa, allora vista negativamente da Dante per la corruzione e degenerazione della Chiesa). Così con voce alta, rauca, aspra e piena di ira (cominciò Pluto con la voce chioccia) il guardiano dei prodighi e degli avari cerca di atterrire il povero Dante e di mettergli qualche dubbio sul suo folle viaggio, ma Virgilio, quel savio gentil, che tutto seppe, che ha capito che Dante è spaventato e smarrito, prontamente si rivolge a lui per rassicurarlo ancora una volta e subito dopo mette a tacere Pluto: …disse per confortarmi: “Non ti noccia la tua paura; chè, poder ch’elli abbia non ci torrà lo scender questa roccia”. Poi si rivolse a quella infiata labbia, e disse: “Taci, maladetto lupo; consuma dentro te con la tua rabbia. Non è sanza cagion l’andare al cupo: vuolsi nell’alto, là dove Michele fe’ la vendetta del superbo strupo”: caro Dante, non aver paura perché, per quanto potere egli possa avere, non ci impedirà di scendere per il tragitto roccioso per cui si passa dal terzo al quarto cerchio; e tu, cerca di tacere, maladetto lupo, roditi dentro di te con la tua rabbia (che era tanta da averne la faccia gonfia: infiata labbia) perché il viaggio di Dante nelle profondità infernali (l’andare al cupo) ha una ragione: è voluto da Dio, nell’alto dei Cieli, dove l’arcangelo Michele ha punito la hybris, la superbia, l’oltracotanza (il superbo strupo) degli angeli che si sono ribellati a Dio per seguire Lucifero (o Satana che dir si voglia).

A questo punto merita citazione l’acuta nota del Sapegno secondo il quale lo stile aspro utilizzato da Dante in queste terzine risponde al carattere mosso e violento della rappresentazione e all’intento duramente polemico dello scrittore nei confronti dei dannati collocati nel quarto cerchio.

La narrazione di Dante continua con una delle sue stupende similitudini: Quali dal vento le gonfiate vele caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca, tal cadde a terra la fiera crudele: come le gonfie vele cadono avvolgendosi su se stesse quando l’albero della nave cede, si spezza e crolla ai colpi del vento, allo stesso modo la bestia feroce è crollata per terra dopo le parole ferme, decise e sicure di Virgilio che hanno agito su Pluto come il forte vento sulle vele di una nave. Quindi, i due possono procedere nel loro impervio cammino per i dirupi del quarto cerchio: Così scendemmo nella quarta lacca pigliando più della dolente ripa che ‘l mal dell’universo tutto insacca: il pendio infernale, luogo di dolore, che sembra raccogliere, racchiudere tutto il male del mondo. E, così, Dante, rivolgendosi a Dio esclama e domanda (retoricamente…): Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa nove travaglie e pene quant’io viddi? e perché nostra colpa sì ne scipa? Chi, se non Tu, oh Giustizia divina, ammassa tanti nuovi, impensabili, inediti e inauditi tormenti e pene quanti io ne vidi? E perché la nostra colpa ci strazia, tormenta e distrugge così tanto (e noi la subiamo senza opporci)? Dante – fanno opportunamente notare Giovanni Fallani e Silvio Zennaro nel loro commento alla Commedia (Newton Compton, 1993) – si turba nel constatare l’avvilimento in cui precipita l’uomo, che dimentica il suo impegno morale.

Dante avrebbe voluto che l’uomo con cadesse così in basso da essere irriconoscibile nella sua umanità. Dante sognava un altro tipo di essere umano, questo è il nocciolo: un homo novus capace di dare inizio ad una nuova umanità non più fondata sull’avere ma sull’essere e, invece, è costretto a farci conoscere tutto il marcio, tutta la zavorra e tutta la feccia che può essere l’uomo quando non è sorretto dalla Ragione, dalla Morale, dal Buonsenso e da una Fede sincera e onesta. E così ci introduce nel mondo dei prodighi e degli avari e ci fa conoscere la legge del contrappasso applicata a questi dannati del Dio Denaro, dal quale si sono fatti dominare in vita e al quale hanno piegato la ragione invece di usare questa per resistere all’eccessiva ed egoistica brama, avidità di ricchezza o nel farne un altrettanto egoistico uso scellerato, sperperando a gogò mentre c’è gente povera che non ha neppure da mangiare. E, dunque, iniziando con una delle sue efficacissime similitudini, ecco come Dante ci fa vedere come questi peccatori consumano, in eterno, la loro miserabile vita spirituale, ancora più miserabile di quella spesa sulla Terra: Come fa l’onda là sovra Cariddi,che si frange con quella in cui s’intoppa, così convien che qui la gente riddi. Qui vidi gente più ch’altrove troppa, e d’una parte e d’altra, con grand’urli, voltando pesi con forza di poppa. Percoteansi incontro; e poscia pur lì si rivolgea ciascun, voltando a retro, gridando: “Perché tieni?” e “Perché burli?”.Così tornavan per lo cerchio tetro da ogni mano all’opposito punto, gridandosi anche loro ontoso metro; poi si volgea ciascun, quand’era giunto, per lo suo mezzo cerchio all’altra giostra.

Dunque, spiega bene il Sapegno che nello stretto di Messina, tra i gorghi di Scilla e Cariddi, le onde del mar Ionio s’incontrano e cozzano con quelle del Tirreno che – aggiungo io – formano un pericoloso vortice di cui tanto si era, in passato, fantasticato fino a parlare addirittura della presenza di mostri che sarebbero emersi dall’urto di quelle spaventose onde. Di Scilla e Cariddi parlano Omero e Virgilio nei loro poemi. Pertanto, narra Dante, come avviene per quelle onde che si incontrano violentemente e poi ritornano indietro, al punto di partenza, allo stesso modo succede per le anime di questo cerchio: così convien che qui la gente riddi, cioè faccia un ballo, una danza circolare. Ridda, spiega ancora il Sapegno, era un ballo a tondo, di molte persone, con ritmo assai rapido. Quindi cosa accade? Accade che prodighi e avari formano due numerose schiere, una a destra e un’altra a sinistra e, partendo eternamente da un punto opposto, sono condannati a spingere e far rotolare col petto e, dunque, con enorme sforzo, dei grandi massi, fino a quando non si incontrano in un altro dove vanno a cozzare l’un contro l’altro e, nel cozzare, si scambiano reciproche accuse e ingiurie ben urlate, che diventa un miserabile ritornello: perché tieni?, cioè perché accumuli, conservi tanto denaro (e non spendi)? rinfacciano i prodighi agli avari e questi a quelli: perché burli?, perché spendi tanto, perché scialacqui, getti via il denaro così tanto? Poi le due schiere, in una eterna fatica di Sisifo, attraverso il buio e oscuro cerchio infernale, si rivoltano e ripercorrono il cammino fatto, finchè nuovamente vengono ad incontrarsi nel punto diametralmente opposto del cerchio (Sapegno), all’altra giostra, scrive Dante richiamando ironicamente alla mente del lettore le giostre dei tornei festosi dove i cavalieri si confrontavano mostrando il loro valore. Solo che lì, nel quarto cerchio, si tratta di una poco festosa tenzone è soltanto di un eterno miserabile scambio di dure accuse e improperi sia all’andata che al ritorno di anime che in vita peccarono le une in eccesso (il mal tenere degli avari) e le altre in difetto (il mal dare dei prodighi).

L’empatico Dante anche qui riesce a provare pietas e pathos; è profondamente turbato, rattristato e commosso per tanta sofferenza e tanta pena (e io, ch’avea lo cor quasi compunto) e vuol sapere – curioso com’è – chi siano quelle anime e se sono tutti degli ecclesiastici, degli uomini di chiesa, dei chierici visto che le loro teste hanno subìto la tipica tonsura che li contraddistingue, cioè hanno la chierica e quindi sono chercuti: Maestro mio, or mi dimostra che gente è questa, e se tutti fuor cherci questi chercuti alla sinistra nostra (dove sono gli avari). Insomma, Dante scopre, con orrore che, tra i dannati di quel cerchio, tantissimi vengono dalla Chiesa, sono ecclesiastici, anche di alto livello e non soltanto chierici ma, appunto, papi e cardinali! Se l’umanissimo Dante non può non commuoversi e provare pietà per quelle anime peccatrici, allo stesso tempo non può non essere durissimo nella condanna morale, da giansenista ante litteram, nei confronti di quanti avrebbero dovuto operare secondo spiritualità e moralità e, invece, deviarono così tanto da tradire il messaggio evangelico e cristiano della povertà e del disprezzo dei beni terreni, preferendo accumulare o sperperare immense ed egoistiche ricchezze. Pertanto, ecco come Virgilio spiega a un Dante che si finge sempre ignaro e attonito: Ed elli a me: “Tutti quanti fuor guerci sì della mente in la vita primaia, che con misura nullo spendio ferci. Assai la voce lor chiaro l’abbaia quando vegnon a’ due punti del cerchio dove colpa contraria li dipaia. Questi fuor guerci, che non han coperchio piloso al capo, e papi e cardinali, in cui usa avarizia il suo soperchio”: Nella loro vita terrena furono tutti ciechi di mente, cioè spiritualmente e moralmente ciechi: la loro offuscata e corrotta mente era indirizzata non verso obiettivi e finalità spirituali ma verso obiettivi e finalità tutte terrene e materiali e non seppero fare alcuna spesa con misura, criterio, equilibrio, buonsenso e, insomma, secondo la virtù del giusto mezzo (vedi Aristotele e Orazio). E che non abbiano vissuto e agito secondo virtù lo confermano ampiamente le loro stesse urlate e arrabbiate parole (che sembrano, appunto, degli abbai di cani) quando si incontrano (avari e prodighi) nei due punti del cerchio dove la loro diversa colpa li separa e divide in due schiere. Queste anime che si trovano sulla sinistra del cerchio sono di quelli che, in vita, furono cieche e non hanno molti capelli in testa in quanto hanno la capigliatura tipica dei tonsurati, cioè (udite! udite!) sono papi e cardinali, quelli che sono (tuttora, ieri come oggi), afflitti dal Grande Male dell’avarizia, cioè sono soliti accumulare ricchezze immense, eccessive, smisurate (in cui usa avarizia il suo soperchio).

Il realismo dantesco ha una tale forza e potenza che tu quella scena la vedi: uomini di Chiesa che si sono lasciati corrompere e guastare dal Dio Denaro, nell’Oltremondo hanno come legge del contrappasso (per analogia) quella di spingere, sisificamente, per l’eternità, dei grandi massi, loro che, in vita, concentrarono tutti i loro sforzi nell’accumulare enormi ricchezze e beni materiali che per la Bibbia e per Dante sono beni vani in quanto quelli durevoli e anzi eterni sono i beni spirituali.

Dante chiede quasi retoricamente a Virgilio se tra questi cotali, cioè tra avari e prodighi, ne conosca qualcuno che non sia stato colpito da cotesti mali, cioè da quei due peccati. Virgilio, che sa sempre tutto, risponde a Dante che la sua è una pia illusione, un vano pensiero: tra quelle anime non ce n’è una buona, sono tutte marce, corrotte, sozze, tanto furono cieche, prive di ragione e discernimento e come sono state oscure in vita adesso, lì, sono irriconoscibili; il mal dare (lo scialacquare) e il mal tenere (la troppa avarizia) impedisce loro ogni possibilità di salvezza e di beatitudine, e la loro eterna pena, anche dopo il Giudizio Universale, sarà quella che vedi e gli uni (gli avari) risorgeranno dal loro sepolcro col pugno chiuso mentre gli altri (i prodighi) coi crin mozzi (perché in vita dissiparono tutto, fino ai capelli) sempre in eterna zuffa, sulla quale non voglio sprecare parole, non intendo abbellirla con parole, tanto puoi vedere da te in cosa consiste l’orrenda e penosa giostra… Insomma, ogni parola, anche la più bella  per sminuire, per rendere meno orribile quello che Dante vede è inutile: bastano le immagini, immagini che sono come delle sequenze cinematografiche come tante altre nella Commedia e soprattutto nell’Inferno. Dunque: Ed elli a me: “Vano pensiero aduni: la sconoscente vita che i fe’ sozzi ad ogni conoscenza or li fa bruni. In etterno verranno alli due cozzi: questi resurgeranno del sepulcro col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi. Mal dare e mal tenere lo mondo pulcro ha tolto loro, e posti a questa zuffa: qual ella sia, parole non ci appulcro.

Quindi Virgilio prosegue facendo notare a Dante (al figliuol) quanto sia effimera, di breve durata la beffa, l’inganno (la corta buffa) dei beni terreni affidati, messi nelle mani della Fortuna e per i quali gli uomini si accapigliano e litigano (per che l’umana gente si rabbuffa); per cui tutto l’oro che sta e che è stato sotto il cielo, cioè sulla terra, non servirebbe a dare tregua, neppure per un minuto, a queste anime così stanche e abbattute per la loro vana, sisifica fatica: se volessero comprarsi un attimo di pace con i loro denari non potrebbero, perché la loro condanna è irreversibile (or puoi veder, figliuol, la corta buffa de’ ben che son commessi alla Fortuna, per che l’umana gente si rabbuffa; chè tutto l’oro ch’è sotto la luna e che già fu, di quest’anime stanche non poterebbe farne posare una). Il tono è fortemente polemico, come anche in altre occasioni, perché estremo è il disprezzo e la ripulsa morale che Dante prova per questi dannati del Denaro (chiamiamoli così). Lì, nell’aldilà, le loro ricchezze non servono a nulla!…

Dante vuol sapere, a questo punto, che cos’è questa Fortuna di cui Virgilio parla e in che consiste il fatto che tutti i beni del mondo ha nelle sue mani e poi distribuisce (da Dea Bendata qual è…) un po’ a casaccio, appunto alla cieca (che è, che i ben del mondo ha sì tra branche). Virgilio risponde facendo notare che Dante la pensa un po’ come tutte le altre creature sciocche, alquanto sempliciotte e affette da ignoranza (quanta ignoranza è quella che v’offende) che reca danno all’intelligenza: la Fortuna non è quella che pensate voialtri (al pari di bambini…) e cioè che sia la volubile Signora che distribuisce a caso i beni terreni. No, la Fortuna, ascolta bene la mia sentenza, cioè le mie parole, il mio ragionamento che devi imboccare (ne imbocche) nella mente come il bambino il cibo: Dio, che sa tutto e che sorpassa, supera ogni cosa reale o ideale e possibile (Colui lo cui saver tutto trascende), creò i cieli e assegnò loro una Intelligenza motrice, un coro angelico che riflette la luce di Dio, in modo che, in ogni parte, questa luce sia distribuita in maniera eguale; proprio come per i beni, le ricchezze del mondo terreno. Allo stesso modo (similmente) Dio ha provveduto per la distribuzione dei beni terreni (splendor mondani), ovvero le ricchezze, la gloria, il potere, ecc. e cioè ha creato, istituito una Intelligenza, la Fortuna (general ministra e duce), al fine di somministrare, distribuire, opportunamente e a tempo debito, i beni terreni, materiali (li ben vani) da un popolo all’altro e da una famiglia all’altra, per cui – direbbe il Foscolo – vi sono le alterne vicende delle umane sorti in quanto le ricchezze o la loro perdita si alternano appunto vanamente sul mondo dei vivi, e tutto questo avviene senza che gli uomini possano opporre alcuna resistenza e impedimento (oltre la difension di senni umani). Pertanto, l’implacabile Giustizia divina impone queste alterne vicende delle umane sorti e vediamo che ora domina, governa un popolo e un altro è sottomesso e decade (per c’una gente impera e l’altra langue) in base alle decisioni della Fortuna, che è nascosta e non si vede proprio come il serpente nell’erba (come in erba l’angue): tutta la conoscenza degli uomini non riesce a contrastarla, ad opporsi ad essa, perchè questa provede, giudica e persegue cioè procede ed esegue il suo compito di amministratrice proprio come fanno gli angeli con il loro (come il loro li altri dei). I mutamenti e i trasferimenti di beni materiali che essa fa sono senza tregua, incessanti e rapidissimi perché è la volontà di Dio (necessità) a incalzarla, a renderla così operativa, cosicchè spesso avviene che qualcuno muta il proprio stato (sì spesso vien chi vicenda consegue). Insomma, vi è un continuo mutamento di fortuna, di stato per uomini, famiglie e popoli e occorre rassegnarsi all’intervento della Fortuna perchè così vuole la volontà divina e, quindi, è inutile che gli uomini la mettano così in croce, la bestemmino e maledicano quando invece, molti, dovrebbero lodarla, cioè coloro che non sono toccati dai suoi trasferimenti di sorte e di stato e anzi hanno ottenuto da essa benefici. Si dice, popolarmente, che si danno schiaffi alla fortuna, e questo intende, insomma, dire Dante per bocca di Virgilio, del suo alter ego. Ma la Fortuna – spiega ancora l’antico Poeta – se ne sta beata al suo posto con le altre Intelligenze create con i cieli durante la Creazione, governa, fa girare il corso della (sua) sfera dei beni terreni (la Ruota delle Fortuna…) e gode felice nei cieli più alti (volve sua spera e beata si gode)…

Detto questo, Virgilio fa sapere a Dante che adesso stanno per discendere a maggior pieta, cioè dove ci sono più dolore, angoscia e tormento per i dannati; è circa mezzanotte ed è molto buio, le stelle non brillano più, si sono spostate nell’emisfero occidentale e, dunque: non ci è concesso di indugiare, di stare ancora qui (e il troppo star si vieta). E così i due attraversano il cerchio fino ad approdare al successivo, cioè al quinto: tagliano, cercano di accorciare (noi ricidemmo il cerchio) il cammino per ritrovarsi all’altra riva sovr’una fonte che bolle e riversa per un fossato che da lei deriva: passano all’altezza di una sorgente le cui acque calde si riversano in un fossato che è stato scavato dalle stesse acque. Quest’acqua, più che nera, era scura (l’acqua era buia assai più che persa) e noi, insieme alle onde grige, torbide, cupe (bige) del corso d’acqua scendiamo giù attraverso una via malagevole e poco rassicurante (entrammo giù per una via diversa). Queste acque, questo ruscello (tristo ruscel) sbocca nella palude e diventa un fiume chiamato Stige (il secondo fiume infernale, che circonda la Città di Dite) una volta disceso al piè delle maligne piagge grige.

Siamo praticamente nel quinto cerchio e Dante, che stava tutto intento a guardare per vedere chi fossero i dannati di quel triste luogo, a un certo punto, vede agitarsi nella palude (la palude Stigia, in quel pantano) genti fangose, completamente nude e con sembiante offeso, cioè dall’aspetto sofferente e tormentato per il cruccio e per la rabbia di essere condannati in eterno a quella miserabile pena. Sono gli iracondi, i quali si percotean non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi troncandosi co’ denti a brano a brano: si picchiano e si danno botte l’un l’altro come possono: non solo con le mani, ma a colpi di testa, di petto e con calci per poi darsi dei terribili e rabbiosi morsi coi denti, staccando pezzi di carne l’uno dal corpo dell’altro. Sono dei veri e propri corpi più che anime, e tu vedi la scena pietosa e terribile di corpi che si lacerano le carni e se le danno di santa ragione più che di anime tutte ignude, nudità che, come al solito, vuol essere metafora morale e spirituale piuttosto che semplice nudità fisica. Anche questa una sequenza da romanzo e/o da film di horror, dei cui generi Dante può ritenersi un anticipatore, un inventore.

Virgilio spiega all’esterrefatto Dante che quelli sono gli iracondi, cioè l’anime di color cui vinse l’ira che, cioè, in vita si sono fatte vincere dall’ira e hanno commesso violenza fisica (con percosse e altro) sui loro simili e che, adesso, per legge del contrappasso (per analogia), sono condannati a percuotersi tra di loro e a sbranarsi come animali. Gli dice pure di credere per certo che sotto le fangose e calde acque ci sono tanti altri dannati che con il loro respiro fanno gorgogliare quelle acque, tanto che si formano delle bolle alla superficie: come puoi vedere dovunque tu giri gli occhi, lo sguardo: ripetono in eterno (quasi un inno alla loro triste condizione umana, viene sempre da dire) che nell’aere dolce, nel dolce mondo, nella vita terrena dove splende il sole che rallegra gli animi, loro sono stati tristi, cioè chiusi nella tristezza e nella malinconia per il loro cattivo carattere, covando nel loro cuore il fumo del cupo livore, l’ira repressa che però giace dentro di loro e come il fumo offusca le facoltà dell’animo e della mente, inducendoli a fare il male. Gli iracondi accidiosi, che in vita hanno covato una malvagia ira repressa, adesso, per legge del contrappasso (per analogia) sono condannati a  stare tristemente immersi nell’oscura, sporca e fetida melma dello Stige:…fitti nel limo, dicon: ‘Tristi fummo nell’aere dolce che dal sol s’allegra, portando dentro accidioso fummo: or ci attristiam nella belletta negra’. Quest’inno si gorgoglia nella strozza, che dir nol posson con parola integra.

Quell’inno, quel ritornello (il sarcasmo è evidente…), che è poi un lamento ripetuto in eterno, viene emesso dalla gola di questi iracondi accidiosi o, se si vuole, accidiosi d’iracondia (una sorta di variante di iracondi) come in un continuo gorgoglio, poiché non riescono a pronunciare le parole nella loro interezza. Sia detto per inciso, già nel Convivio Dante definisce l’accidia come vizio per difetto dell’ira e sembrerebbe essere uno stato psicologico di cupezza e di livore represso, che viene covato dentro l’anima e che poi può esplodere facendo gravi danni agli altri. Dunque, è cosa ben diversa dall’accidia che afflisse il Petrarca e che è molto più simile alla moderna inettitudine di Svevo o alla noia e alla indifferenza di Moravia o al male di vivere di Montale.

Quindi i due Poeti girano, camminano per un lungo tratto del cerchio (così girammo della lorda pozza grand’arco), tra la riva asciutta e la parte melmosa, con lo sguardo rivolto alle anime immerse nel fango (a chi del fango ingozza); poi, finalmente, giungono ai piedi di una torre che si trova aldiquà dello Stige e che ha la funzione di segnalare al terribile Flegiàs, guardiano del quinto cerchio e traghettatore, nocchiere dello Stige, e agli altri demoni, la presenza dell’arrivo di nuove anime.