Trebisacce-16/07/2022: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del canto-capitolo XX dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo.

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Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del canto-capitolo XX dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo.

Siamo nell’ottavo cerchio o regno di Malebolge, il regno della Frode e della Malizia allo stato puro e assoluto: quarta bolgia: gli indovini, i maghi, gli astrologi. Siccome, con la frode  e l’inganno, sostenevano di prevedere il futuro e di guardare con gli occhi in avanti, andarono ingannevolmente con la mente oltre i limiti umani, adesso, nell’Inferno, per contrappasso per contrasto, camminano con passo lento e complicato perché devono camminare, in eterno, a ritroso, con il volto all’indietro, stravolti come loro stravolgevano la verità; parlarono tanto, riempendosi la bocca di falsità e di cose ingannevoli e ora sono costretti a tacere. Virgilio, gli antichi e nuovi indovini e l’origine di Mantova.

 Dunque, il canto-capitolo si apre con Dante che dice al lettore che gli corre l’obbligo, che è necessario scrivere versi su una nuova, insolita, strana pena e dare argomento, contenuto al XX canto-capitolo della prima cantica che si occupa, parla della condizione delle anime dannate sprofondate sotto terra e per sempre negli abissi infernali (di nova pena mi conven far versi e dar matera al ventesimo canto della prima canzon ch’è  dei sommersi: e ti viene in mente il libro di Primo Levi I sommersi e i salvati; solo che nell’Inferno di Dante non si salva nessuno e solo pochi ne escono come perdonati, gratificati e anche alquanto esaltati dal Poeta). Dante era ben disposto tutto quanto a guardare attentamente il fondo visibile della quarta bolgia (nello scoperto fondo), che era bagnato dalle lecrime di dolore dei dannati lì puniti (che si bagnava d’angoscioso pianto); e, quindi, vede arrivare anime su per la bolgia circolare (vidi gente per lo vallon tondo venir), in silenzio e piangendo col passo lento con cui si procede nelle processioni nella vita terrena (tacendo e lacrimando, al passo che fanno le letane in questo mondo: nelle processioni religiose, infatti, si cantano le litanie). Come lo sguardo mi scese più in basso verso di loro, tanto da poterli vedere più completamente e poter suscitare in me enorme stupore e orrore, mi fu chiaro che ognuno di quei dannati era terribilmente stravolto tra il mento e l’inizio del petto, del busto (come ‘l viso mi scese in lor più basso, mirabilmente apparve esser travolto ciascun tra ‘l mento e ‘l principio del casso); poiché il volto era girato dalla parte del dorso, per cui era necessario che camminassero a ritroso in quanto gli era impedito di guardare in avanti (chè dalle reni era tornato il volto, ed in dietro venir li convenìa, perché ‘l veder dinanzi era lor tolto). Forse, talvolta, per effetto di una paralisi, succede che qualcuno resti completamente stravolto; ma io non  ho mai visto né credo che esista qualcosa del genere (forse per forza già di parlasìa si travolse così alcun del tutto; ma io nol vidi, né credo che sia). Che Dio possa concederti, caro lettore, di poter trarre frutto, ammaestramento, lezione morale (dalla lettura dei miei versi), ma considera da te stesso (mettendoti nei miei panni), come avrei potuto non piangere (di fronte a quel terrificante e doloroso spettacolo), quando, cioè, vidi da vicino la nostra immagine, figura di uomo così orribilmente deformata, distorta tanto che le lacrime che uscivano dagli occhi andavano a bagnare le natiche, (sottinteso: finendo, attraverso la fenditura delle stesse, per depositarsi sull’ano: Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto di tua lezione, or pensa per te stesso com’io potea tener lo viso asciutto, quando la nostra imagine di presso vidi sì torta, che ‘l pianto delli occhi le natiche bagnava per lo fesso).

E, infatti, piangevo appoggiato a uno dei massi, ad una sporgenza della roccia della bolgia, tanto che Virgilio (che è l’alter ego di Dante, con tono di rimprovero) mi ha detto (certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi del duro scoglio, sì che la mia scorta mi disse): Anche tu fai parte di quegli sciocchi (che hanno pietà per simili malvagi così ben puniti)? Qui, nell’Inferno, la vera pietà (verso Dio) vive solo quando è ben morta quella verso questi dannati che lo hanno offeso (nell’arte della divinazione, di prevedere il futuro): chi è più scellerato di colui che prova pietà, compassione per quelli che sono stati puniti dalla Giustizia divina? (Ancor se’ tu delli altri sciocchi? Qui vive la pietà quand’è ben morta: chi è più scellerato che colui che al giudicio divin passion porta?). Insomma, Virgilio (con molta enfasi) rimprovera duramente il suo discepolo per aver mostrato pietà e tormento interiore per quella abiettissima categoria di dannati che non meritano alcuna commozione e compassione per la loro punizione: essere pietosi con loro è da sciocchi e addirittura da scellerati. Ma Dante, in verità, ha provato pena pensando a come possa ridursi l’uomo nel suo mal operare e mal vivere e poi essere così orribilmente punito dalla Giustizia divina.

Dunque, Virgilio dice con fermezza: Nessuna pietà! E per comprendere questo mio durissimo giudizio basterebbe che tu alzassi un po’ la testa per poter vedere alcuni di questi malvagi e riflettere su quello che hanno combinato sulla Terra: Drizza la testa, drizza, e vedi a cui s’aperse alli occhi de’ Teban la terra; per ch’ei gridavan tutti: ‘Dove rui, Anfiarao? Perché lasci la guerra?’. E non restò di ruinare a valle fino a Minos che ciascheduno afferra. Mira c’ha fatto petto delle spalle: perché volle veder troppo davante, di retro guarda e fa retroso il calle. Vedi Tiresia, che mutò sembiante quando di maschio femmina divenne cangiandosi le membra tutte quante; e prima, poi, ribatter li convenne li duo serpenti avvolti, con la verga, che riavesse le maschili penne. Aronta è quei ch’al ventre li s’atterga, che ne’ monti di Luni, dove ronca lo Carrarese che di sotto alberga, ebbe tra’ bianchi marmi la spelonca per sua dimora onde a guardar le stelle e ‘l mar non li era la veduta tronca. E quella che ricuopre le mammelle, che tu non vedi, con le trecce sciolte, e ha di là ogni pilosa pelle, Manto fu, che cercò per terre molte; poscia si puose là dove nacqu’io; onde un poco mi piace che m’ascolte: Ecco, guarda un po’ questi campioni di malvagità! Il primo è Anfiarao (uno dei sette re che sostennero Polinice nell’assedio di Tebe; avendo previsto la propria morte in guerra, cercò di sfuggire al destino nascondendosi ma fu tradito da sua moglie Erifile e, pertanto, costretto a combattere e morì ingoiato da una voragine che si aprì sotto il suo carro): sotto gli occhi dei Tebani, la terra si aprì, per cui tutti gridavano (c’è ironia nelle loro parole): ‘Dove precipiti, Anfiarao? Perché abbandoni la guerra?’. E non smise di precipitare in basso, giù, fino ad arrivare qui nell’Inferno, davanti a Minosse che afferra tutte le anime con la coda e assegna loro la pena appropriata. Guarda come ha il petto al posto delle spalle: siccome (sulla Terra) volle vedere troppo in là nel futuro, adesso (qui nell’Inferno) guarda all’indietro e cammina a ritroso…

E poi c’è Tiresia (indovino tebano che esercitava la sua arte di mago durante la guerra dei sette re contro Tebe; secondo la leggenda, fu trasformato in donna dopo aver percosso con una verga due serpenti che si accoppiavano; ritornò uomo sette anni dopo e dopo aver percosso gli stessi serpenti di nuovo accoppiati): quel Tiresia che mutò il proprio  aspetto maschile in quello di femmina, trasformandosi completamente in tutte le sue membra; e, per poter ritornare alla peluria, al sesso maschile, dovette percuotere con la sua magica verga gli stessi serpenti avvinghiati nell’atto sessuale.

E c’è ancora Aronta (o Arunte, indovino etrusco che, secondo Lucano, abitò tra i monti della Lunigiana; predisse la guerra civile tra Cesare e Pompeo e la sconfitta di quest’ultimo), quell’Aronta che segue Tiresia, cioè gli sta col dosso contro il ventre e che, nei monti di Luni, dove coltivano la terra i contadini di Carrara che abitano nella pianura, egli ebbe una dimora rupestre tra i bianchi marmi, da dove nulla gli impediva di  guardarele stelle e il mare.

E infine, c’è Manto (figlia di Tiresia e anche lei indovina; morto il padre, fuggì da Tebe e dalla tirannia di Creonte per poi stabilirsi nel luogo dove, in seguito, sarebbe sorta Mantova), quella che ricopre, nasconde i seni con le trecce sciolte dei capelli e ha, dal lato del corpo che non vedi, ogni parte ricoperta di peli (appare come un’invasata).  Narra Virgilio che essa vagò per molte terre, per molti luoghi e poi si fermò dove nacqui io (cioè nell’attuale Mantova; il maestro era nato ad Andes) e per questo mi farebbe piacere se tu mi ascoltassi un po’.

Segue una lunga digressione che sembra un omaggio all’amato poeta che racconta le origini di Mantova, che prese il nome da  Manto ma che fu fondata (non per magia) dagli abitanti di quei territori dove il Mincio diventa palude; alla fine, dice a Dante (che mostra di conoscere benissimo la geografia della sua Italia bella), con tono perentorio e alquanto solenne, che quella è la verità sull’origine di Mantova e ogni altra versione è falsa, per cui: la verità nulla menzogna frodi: nessuna menzogna, nessuna leggenda o favola inganni la verità, le faccia torto. Dante risponde che i discorsi del maestro sono per lui così sicuri e riscuotono tanto la sua fiducia che tutti gli altri sarebbero del tutto inutili, inefficaci (sarìen carboni spenti). Quindi gli chiede se tra le anime che camminano in quella bolgia ne riconosce altri degni di esser citati (se tu ne vedi alcun degno di nota), perché la mia mente mira, è diretta solo al pensiero di conoscere altri dannati. Virgilio lo accontenta subito e, alla fine, gli ricorda che sono poco più delle sei del mattino e che sta per iniziare un nuovo giorno, per cui bisogna proseguire il viaggio al termine della notte (direbbe Céline) negli abissi dell’animo umano: Quel che dalla gota porge la barba in su le spalle brune, fu, quando Grecia fu di maschi vota sì ch’a pena rimaser per le cune, augure, e diede ‘l punto con Calcanta in Aulide a tagliar la prima fune. Euripilo ebbe nome e così ‘l canta l’alta mia tragedìa in alcun loco ben lo sai tu che la sai tutta quanta. Quell’altro che ne’ fianchi è così poco, Michele Scotto fu, che veramente delle magiche frode seppe il gioco. Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente, ch’avere inteso al cuoio ed allo spago ora vorrebbe, ma tardi si pente. Vedi le triste che lasciaron l’ago, la spuola e ‘l fuso, e fecersi ‘ndivine; facer malie con erbe e con imago. Ma vienne ormai; che già tiene ‘l confine d’amendue li emisperi e tocca l’onda sotto Sobilia Caino e le spine; e già iernotte fu la luna tonda: ben ten de’ ricordar, chè non ti nocque alcuna volta per la selva fonda. Sì mi parlava, ed andavamo introcque (avverbio plebeo, umile, del volgare fiorentino).

E dunque: Quello a cui la barba scende dalle guance sulle spalle scure (e non sul petto…) fu un augure, un indovino al tempo della guerra di Troia, quando in Grecia non c’erano più maschi e rimasero soltanto quelli nella culla (per dire che ce n’erano pochi perché tutti in guerra), quello che decise, determinò, in Aulide, insieme al vaticinatore Calcante, il momento opportuno, giusto per tagliare la prima fune, cioè per sciogliere gli ormeggi delle navi greche e salpare verso Troia, ebbene (quello di cui parlo) è Euripilo, di cui io narro in un passo della mia Eneide, e tu lo sai bene perché la conosci tutta per intero.

Quell’altro che è così magro, esile nei fianchi è Michele Scotto (filosofo scozzese alla corte di Federico II, famoso per le traduzioni di Aristotele e di Avicenna e che, secondo la leggenda, era astronomo e anche mago), che veramente conobbe bene l’arte vana, illusoria, ingannevole della magia. E poi si vedono Guido Bonatti (astrologo che visse presso le corti di vari Signori italiani come consigliere), Asdente (calzolaio di Parma che era ammirato dal popolo per le sue capacità profetiche), il quale avrebbe preferito continuare il suo lavoro di calzolaio impegnato col cuoio e con lo spago (piuttosto che trovarsi qui e in questo modo…), ma si è pentito troppo tardi e ora si danna.

Puoi anche vedere le sciagurate e malvagie donne, cioè le streghe, che lasciarono i lavori di casa, domestici (ago, spola e fuso) per diventare delle indovine, delle maghe; fecero delle malie, dei sortilegi con erbe e immagini di cera o d’altro materiale.

Ma ormai è l’ora di andare (più avanti); perché la luna, in cui la gente crede di vedere l’immagine di Caino con una corona, un fascio di spine, ha raggiunto la linea dell’orizzonte (che separa i due emisferi), cioè sta per tramontare e come sparire nel mare dalla parte occidentale, sotto Siviglia; e ierinotte c’è stato il plenilunio: te ne dovresti ricordare bene, perché (la luce della luna piena) ti ha giovato quando ti sei trovato nella selva oscura (quella del primo canto-capitolo). Mi diceva queste cose e intanto, frattanto continuavamo a camminare (per andare a conoscere cosa c’era nella bolgia successiva).

E mentre i due Poeti proseguono il loro viaggio, a noi poveri mortali, anche questa volta, resta impressa nella mente la realistica scena da film di horror sugli indovini, maghi e altri ingannevoli veggenti e venditori di fumo che cammino a ritroso con il volto che dà sulle spalle e che come cupi e tristi partecipanti a una tetra processione camminano lenti, loro che con la mente e gli occhi illudevano la gente semplice di compiere chissà quali voli verso il futuro. Il disprezzo di Dante verso questi peccatori fraudolenti, che in vita credettero di sostituirsi a Dio, è grande e durissimo il giudizio morale, per cui fa dire al suo doppio, al suo alter ego Virgilio che per questi mal nati non vi può essere alcuna pietà e, anzi, aver pietà di loro è quasi come offendere quel Dio che essi offesero con le loro male arti. Ormai, nel Basso Inferno, la pietas, il pathos e l’empatia non possono più sussistere e il tormento e l’angoscia di Dante sono soprattutto dovuti al pensiero di come l’uomo debba ridursi in certe condizioni per il fatto di non saper essere semplicemente umano, ragionevole e razionale, guidato dalla fede e dal sentimento religioso e, insomma, meno legno storto e più legno dritto capace di buonsenso e di buon uso della ragione e dell’intelletto, capace di amare invece di fare il Male.