Trebisacce-22/09/2022: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del canto-capitolo XXII dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo.

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Salvatore La Moglie

 

 

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del canto-capitolo XXII dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo.

 

Il canto XXII. Siamo sempre nel cerchio ottavo, in Malebolge, e ancora nella quinta bolgia dei barattieri che sguazzano nella pece bollente. La paura e i fondati sospetti di Dante e l’ingenuità di Virgilio (che questa volta si è fatto ingannare dal diavolo Malacoda). Protagonisti sono quel gran barattiere e maestro di inganni Ciampolo di Navarra, frate Gomita, Michele Zanche e i diavoli Alichino e Calcabrina, che si azzuffano ferocemente e ridicolmente dopo esser stati tratti in inganno dall’astuto Ciampolo.

 

Dante riprende la narrazione soffermando l’attenzione sull’inusuale, bizzarro, triviale ma anche comico e beffardo segnale di partenza dato da Barbariccia con le sue scorregge e ci propone le sue sempre azzeccate similitudini con ben altri segnali, per poi concludere che, nonostante la sua paura e i suoi fondati sospetti sulla lealtà dei diavoli, nella vita (come dice un proverbio toscano) occorre sapersi adeguare alle situazioni, per cui in chiesa coi santi e nelle taverne, nei luoghi malfamati con i furfanti, i lestofanti, le canaglie, i ribaldi: Io vidi già cavalier muover campo, e cominciar stormo e far lor mostra, e tal volta partir per loro scampo; corridor vidi per la terra vostra, o Aretini, e vidi gir gualdane, fedir torneamenti e correr giostra; quando con trombe, e quando con campane, con tamburi e con cenni di castella, e con cose nostrali e con istrane; né già con sì diversa cennamella cavalier vidi mover né pedoni, né nave a segno di terra o di stella. Noi andavam con li diece demoni: ahi fiera compagnia! Ma nella chiesa coi santi, ed in taverna co’ ghiottoni: Io ho visto (altre volte) cavalieri mettersi in marcia, iniziare l’assalto o sfilare in parata, rassegna e talvolta battere in ritirata per mettersi in salvo; ho visto soldati a cavallo, o Aretini, far scorrerie nei vostri territori, e ho visto cavalcate di predoni (durante le gualdane si bruciava, rubava, si facevano prigionieri e quant’altro per neutralizzare il nemico e in segno di vendetta), scontri nei tornei e combattimenti nelle giostre; quando con trombe e quando da sul carroccio (dei Comuni), con tamburi e segnali con bandiere o fumate di giorno e fuochi di notte, o con altri segnali di uso locali o forestieri, stranieri; ma mai con una così strana, bizzarra, inconsueta cennamella (strumento a fiato usato negli eserciti, ma il riferimento e al buco del sedere di Barbariccia da cui sono uscite le sonore scorregge…) ho mai visto muoversi cavalieri o soldati, e neppure una nave al segnale di una campana o altro nella direzione di una terra in vista o dalla posizione delle stelle.

Noi camminavamo insieme ai dieci demoni: ahimè, che compagnia malvagia, crudele, paurosa! Ma occorre sapersi adattare alle compagnie a seconda dei luoghi, per cui in chiesa con i santi e nelle taverne, cioè in certi luoghi poco consigliabili, con i golosoni e i gran bevitori, ovvero con i manigoldi, i bricconi.

L’attenzione di Dante è, però, rivolta soltanto (cioè continuamente) alla pegola, cioè alla pece, per poter vedere ogni aspetto, condizione della bolgia e dei peccatori che in essa venivano bolliti, cotti, bruciati (per veder della bolgia ogni contegno e della gente ch’entro v’era incesa). Seguono due splendide similitudini con tanto di bestiario: dentro ci sono i delfini, i ranocchi e i dannati che vorrebbero riemergere per provare un po’ di sollievo ma che subito si reimmergono non appena vedono Barbariccia: Come i dalfini, quando fanno segno a’ marinar con l’arco della schiena, che s’argomentin di campar lor legno, talor così, ad alleggiar la pena, mostrav’alcun de’ peccatori il dosso, e nascondea in men che non balena. E come all’orlo dell’acqua d’un fosso stanno i ranocchi pur col muso fori, sì che celano i piedi e l’altro grosso, sì stavan d’ogne parte i peccatori; ma come s’appressava Barbariccia, così ritraèn sotto i bollori: Come i delfini, riemergendo, venendo a galla col dorso danno ai marinai il preannuncio di tempesta e li mettono in allarme, per cui si adoperano per mettere in salvo la loro nave, così, talvolta, per alleviare la pena, qualcuno dei dannati riemergeva dal fondo della pece bollente con la schiena, mostrando il dorso per poi rituffarsi velocissimo nella pece. E come alla superficie dell’acqua di un fosso si vedono i ranocchi stare soltanto con il muso, con la testa di fuori, così da nascondere le zampe e il resto del corpo, allo stesso modo stavano dappertutto i peccatori; ma non appena Barbariccia si avvicinava, i miserabili si rituffavano rapidamente nella pece bollente (per paura di essere roncigliati).

La scena, da romanzo e/o da film di horror che Dante fa seguire, noi la vediamo come davanti ai nostri occhi e ci resta scolpita nella mente: I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia, uno aspettar così, com’elli ‘ncontra ch’una rana rimane ed altra spiccia; e Graffiacan, che li era più contra, li arruncigliò le ‘mpegolate chiome e trassel su, che mi parve una lontra: Io ho visto, e ancora adesso, nel ricordare, provo raccapriccio, un peccatore stare come accade che una rana resta e un’altra salta e scompare nell’acqua del fosso (vuol dire che lo sventurato dannato non è riuscito a rituffarsi nella pece); e Graffiacane, che gli stava di fronte e più vicino (che non gli altri diavoli), gli afferra con l’uncino i capelli pieni di pece, riportandolo a galla, facendolo riemergere in maniera tale da sembrare di vedere una lontra (cioè una orribile, schifosa massa nera, vischiosa, untuosa).

Quindi, il Poeta dice che lui sapea già di tutti quanti (i diavoli) il nome, sì li notai quando furono eletti (tanto bene li aveva memorizzati, impressi nella mente, quando erano stati scelti da Malacoda come scorta), e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come (e poi sono stato molto attento, quando si chiamavano fra di loro, a capire qual era il nome di ciascuno dei diavoli, a come si chiamassero).

I maledetti demoni gridavan tutti insieme (facendo gazzarra): O Rubicante, fa che tu li metti li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!: O Rubicante, mettigli gli artigli addosso, in modo tale da scuoiarlo! E mentre assiste a quella scena, Dante chiede al suo maestro di fare in modo, se può, di sapere chi è lo sciagurato venuto a man delli avversari suoi, cioè lo sventurato, il malcapitato caduto nelle mani dei suoi nemici, tormentatori (il diavolo è biblicamente sempre indicato come il nemico,  l’avversario). Dante non vuole e/o non riesce a parlare per il terrore che tuttora prova e chiede a Virgilio di farsi interlocutore del dannato (che è Ciampolo o Giampolo – da Jean Paul –  di Navarra), di chiedergli chi sia e se ci sono anime degne di esser menzionate (naturalmente, Barbariccia concede che il colloquio avvenga): Lo duca mio li s’accostò a lato; domandollo ond’ei fosse, ed ei rispose: “I’ fui del regno di Navarra nato. Mia madre a servo d’un segnor mi pose, che m’avea generato d’un ribaldo, distruggitor di sé e di sue cose. Poi fui famiglia del buon re Tebaldo: quivi mi misi a far baratteria; di ch’io rendo ragione in questo caldo”: Virgilio gli si è avvicinato di lato e gli ha domandato di dove fosse, da dove provenisse e lo sventurato dannato ha risposto di esser nato nel regno di Navarra; che la madre, che lo aveva avuto da una relazione con uno scapestrato, un disonesto che aveva distrutto la propria vita (si era suicidato) e i propri beni, lo aveva posto al servizio di un signore; poi è stato anche famiglio, servo presso la corte del giusto e valoroso re Tebaldo II di Navarra (re dal 1253 al 1270): qui ha iniziato a praticare la baratteria, a farsi corrompere per denaro, del quale peccato, della quale colpa è punito e sconta la pena nel bollore di questa bolgia.

Finito di parlare e di confessare la propria colpa con l’appropriata pena, il disgraziato Navarrese viene azzannato da Ciriatto sannuto mentre Barbariccia lo avvolge con le sue ali per impedire ogni assalto; quindi dice a Virgilio di sbrigarsi a chiedere qualcos’altro prima che il malcapitato (il sorco…) venga fatto a pezzi da lui e dagli altri diavoli: E Ciriatto, a cui di bocca uscìa d’ogni parte una sanna come a porco, li fe’ sentir come l’una sdrucìa. Tra male gatte era venuto il sorco; ma Barbariccia il chiuse con le braccia, e disse: “State in là, mentr’io lo ‘nforco”. E al maestro mio volse la faccia: “Domanda” disse “ancor, se più disii saper da lui, prima c’altri ‘l disfaccia”: E Ciriatto, dalla cui bocca (ai due lati) sporgevano due zanne come a un cinghiale, gli ha fatto sentire come anche una sola era capace di lacerare dolorosamente. (Proverbio): tra gatte maleintenzionate, feroci era venuto a trovarsi il sorcio, il topo! (Cioè, a Ciampolo era andata proprio male!): però, Barbariccia, lo ha avvolto, lo ha stretto (da dietro) con le sua braccia (per impedire ogni altro assalto) e ha detto, ai diavoli, di stare lontani durante tutto il tempo che lo teneva sotto la sua protezione e, poi, voltandosi verso Virgilio, lo ha sollecitato, se ne aveva desiderio, a fare altre domande a Ciampolo, prima che venisse straziato, fatto a pezzi da altri diavoli (e magari anche da lui).

Virgilio, approfitta della “cortesia” di Barbariccia e domanda: Or di’: delli altri rii conosci tu alcun che sia latino sotto la pece?: Dimmi: degli altri rei, dannati che sono sotto la pece, conosci (per caso) qualcuno che sia italiano? Risposta: I’ mi partii, poco è, da un che fu di là vicino: così foss’io ancor con lui coperto, ch’i’ non temerei unghia né uncino!: Poco fa, mi sono allontanato da uno che proveniva da un luogo vicino all’Italia (cioè dalla Sardegna): ah, fossi ancora insieme a lui sommerso nella pece (per riemergere, adesso soffriva mille volte di più…), non avrei paura né dei colpi di unghia né di quelli di uncino!…

I diavoli, però, sono impazienti anche perché hanno capito che il malcapitato vuole approfittare della presenza dei due Poeti per avere un sollievo, un respiro, per non essere colpito da loro, per cui tende ad allungare i tempi del colloquio. Così, Libicocco sbotta: “Troppo avem sofferto” disse, e preseli ‘l braccio col runciglio, sì che, stracciando, ne portò un lacerto: Abbiamo sopportato, abbiamo avuto pazienza fin troppo!, dice il diavolo e, con il ronciglio, gli afferra un braccio in maniera così violenta da portarne via un brandello, un pezzo. Ma non finisce qui: anche Draghignazzo vuole accanirsi, vuole la sua parte nella tragi-commedia che vede protagonista il povero Ciampolo: Draghignazzo anco i volle dar di piglio giuso alle gambe; onde ‘l decurio loro, si volse intorno intorno con mal piglio: Draghignazzo vuole anch’esso colpirlo all’improvviso e con violenza alle gambe; ma il suo gesto, da arancia meccanica, cioè di mera, stupida e inutile violenza unita ad altrettanto sadismo, infastidisce il decurione, ovvero il capo della sporca decina, Barbariccia, il quale si guarda tutto intorno con fronte aggrottata, volto crucciato e minaccioso (con cui intende calmare i poco eroici furori dei suoi sottoposti e ristabilire la catena del comando).

Quando i diavoli un poco rappaciati foro (quando si furono un po’ calmati), a lui ch’ancor mirava sua ferita (al dannato che ancora guardava la ferita infertagli da Libicocco), Virgilio gli ha domandato sanza dimoro (senza alcun indugio, subito): Chi fu colui da cui mala partita di’ che facesti per venire a proda?: Chi è quello da cui hai detto di esserti dannosamente (per te, per tua sventura) allontanato, separato per riemergere sull’argine, sull’orlo della bolgia? Risposta: Fu frate Gomita, quel di Gallura, vasel d’ogne froda, ch’ebbe i nemici di suo donno in mano, e fe’ sì lor, che ciascun se ne loda. Danar si tolse, e lasciolli di piano, sì com’e’ dice; e nelli altri offici anche barattier fu non picciol, ma sovrano. Usa con esso donno Michel Zanche di Logodoro; e a dir di Sardigna le lingue lor non si sentono stanche. Ohimè, vedete l’altro che digrigna: i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello non s’apparecchi a grattarmi la tigna: Si chiama frate Gomita, e viene dalla Gallura (in Sardegna), un uomo che ha racchiuso in sè ogni genere di frode; ha avuto nelle proprie mani, in pugno i nemici del suo signore (il giudice e vicario Nino Visconti, signore del Giudicato della Gallura: la Sardegna era stata tolta ai Saraceni  dalla Repubblica marinara di Pisa e divisa in quattro giudicati, cioè regioni amministrative e giudiziarie) e costui agì con loro in modo tale che ciascuno di essi lo può lodare, gli è grato, ne è rimasto soddisfatto (perché, dietro molto denaro, li liberò tutti, fingendo che fossero riusciti a scappare dalle prigioni: proprio di piano, de plano, cioè con procedimento sommario e, cioè ancora, alla chetichella…; però, il Visconti, scoperta la sua infedeltà e corruzione, lo farà impiccare); anche negli altri incarichi, uffici esercitati è stato barattiere non di poco conto, non piccolo ma grande, sommo. Lo frequenta e conversa molto con lui il signore Michele Zanche, (governatore del giudicato) di Logudoro, e a parlare della Sardegna le loro lingue non si stancano mai (egli venne ucciso a tradimento dal genero genovese Branca Doria nel 1275).

Ahimè, vedete che l’altro diavolo (Farfarello) digrigna i denti: io parlerei ancora ma temo che si prepari a grattarmi la tigna (una sporca infezione della pelle, per cui grattarsi con le unghie può dare momentaneo sollievo, ma non gli unghioni dei diavoli…), cioè a conciarmi per le feste, a straziarmi, a strapparmi le carni (Ciampolo preferirebbe rituffarsi nella pece bollente…).

A questo punto, Barbariccia (il gran proposto, lo definisce ironicamente Dante, cioè il grande comandante, capitano, capo della sporca decina) si volta verso Farfarello che, stralunava gli occhi, cioè li torceva trucemente in atteggiamento offensivo e aggressivo, pronto a colpire, gli dice: Fatti ‘n costà, malvagio uccello, cioè allontanati, uccello cattivo (uccello perché è alato). E appare comico e curioso che il malvagio Barbariccia chiami malvagio il suo subalterno… Da notare è che il fraudolento Ciampolo è riuscito a creare dissapori tra i diavoli: è come se lì vi fosse una sfida di furbizia e astuzia tra gente di bassa lega.

Intanto, lo spaurato (spaventato) Navarrese ha ricominciato a parlare dicendo ai due Poeti che se avessero voluto vedere o udire dannati Toscani o Lombardi (cioè italiani), lui li avrebbe fatti venire vicino a loro, a patto però che: stieno i Malebranche un poco in cesso (i diavoli stiano un po’ in disparte), sì ch’ei non teman delle lor vendette (in modo che non abbiano a temere delle loro punizioni, dei loro assalti); e io, seggendo in questo luogo stesso, per un ch’io son, ne farò venir sette quand’io suffolerò, com’è nostro uso di fare allor che fori alcun si mette (e io, stando fermo in questo stesso luogo, punto, anche da solo, ne farò venire molti, quando fischietterò, come siamo soliti fare tra di noi quando qualcuno si mette fuori dalla pece: per cui, sottinteso, un dannato emerge e vede che non ci sono diavoli intorno che possano uncinarli).

Ciampolo sta tendendo una trappola, un inganno ai diavoli ma pare che Cagnazzo (Cagnaccio: come un cane, ha molto fiuto…) abbia intuito la malizia del dannato esperto in frode, in inganni e, infatti, leggiamo che: Cagnazzo a cotal motto levò ‘l muso, crollando il capo, e disse: “Odi malizia, ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!”: Cagnazzo, nel sentire quelle parole, alza e scuote la testa (mostrando disapprovazione, da buon cane che ha fiutato l’inganno) e mette in guardia i suoi colleghi: Senti l’inganno, l’astuzia (guarda che inganno) che ha escogitato per potersi immergere, rituffarsi nella pece! (per evitare gli uncini). Ond’ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia, rispuose: “Malizioso son io troppo, quand’io procuro a’ miei maggior tristizia”: Allora egli, che era fornito di espedienti, di astuzie, di capacità di trarre in inganno in gran quantità, in abbondanza, ha risposto che certo lui era malizioso, maligno, visto che procurava tormenti, sofferenze ai suoi compagni di sventura, di pena, maggiori di quelli che già avevano (perché gli uncini erano peggio della pece).

A questo punto, cioè di fronte alla proposta-sfida lanciata dal cinico e sadico Ciampolo con le sue parole: Alichin non si tenne, e, di rintoppo alli altri, disse a lui: “Se tu ti cali, io non ti verrò dietro di gualoppo, ma batterò sovra la pece l’ali: lascisi ‘l collo, e sia la ripa scudo, a veder se tu sol più di noi vali”: Alichino non riusce a frenarsi e, contro il parere degli altri diavoli, raccoglie la sfida e gli dice, gli propone: se tu ti immergerai, io non ti verrò dietro correndo veloce, ma volerò con le mie ali sulla pece (e ti raggiungerò, con tutto quel che poi sarebbe seguito…): lasciamo (dice ai diavoli) la sommità, la parte alta dell’argine, mentre l’orlo del pendio (che porta verso la sesta bolgia) faccia da riparo, da nascondiglio a noi (diavoli) che staremo nascosti dietro il suo lato opposto (in modo da non farsi vedere da chi fosse riemerso dalla pece), e si vedrà se tu da solo vali più di tutti noi messi insieme (cioè, chi sarà più veloce e più bravo).

Dante è fortemente impressionato da quello che vede e, rivolgendosi idealmente al lettore, gli dice che tra poco avrà modo di sentire, cioè di leggere (e di assistere e vedere con i propri occhi, tanto la scena appare reale) di un gioco, di una gara strana, inedita, mai vista: O tu che leggi, udirai nuovo ludo: ciascun dell’altra costa li occhi volse; quel prima ch’a ciò fare era più crudo. Lo Navarrese ben suo tempo colse; fermò le piante a terra, ed in un punto saltò e dal proposto lor si sciolse. Di che ciascun di colpa fu compunto, ma quei più che cagion fu del difetto; però si mosse e gridò: “Tu se’ giunto!”. Ma poco i valse: chè l’ali al sospetto non potero avanzar; quelli andò sotto, e quei drizzò volando suso il petto: non altrimenti l’anitra di botto, quando il falcon s’appressa, giù s’attuffa, ed ei ritorna su crucciato e rotto.

Irato Calcabrina della buffa, volando dietro li tenne, invaghito che quei campasse per aver la zuffa; e come’l barattier fu disparito, così volse li artigli al suo compagno, e fu con lui sovra ‘l fosso ghermito. Mal’altro fu bene sparvier grifagno ad artigliar ben lui, ed amendue cadder nel mezzo del bogliente stagno. Lo caldo ghermitor subito fue; ma però di levarsi era neente, sì avìeno inviscate l’ali sue.

Barbariccia, con li altri suoi dolente, quattro ne fe’ volar dall’altra costa con tutt’i raffi, ed assai prestamente di qua, di là discesero alla posta: porser li uncini verso li ‘mpaniati, ch’eran già cotti dentro dalla crosta; e noi lasciammo lor così ‘mpacciati.

Dunque: caro lettore, tra poco vedrai un’inedita scena, qualcosa di mai visto finora: ciascuno dei diavoli ha voltato lo sguardo dalla parte opposta dell’argine (per correre lì) e, primo fra tutti, proprio Cagnazzo, che era il più restio alla proposta di Alichino. Il Navarrese ha colto il momento giusto, propizio: ha puntato bene i piedi per terra (per prendere, spiccare lo slancio al meglio) e in un attimo ha saltato, balzato via liberandosi, allo stesso tempo, dall’abbraccio di Barbariccia (secondo alcuni commentatori: dalle malintenzioni dei Malebranche). Per la qual cosa, per questo ognuno dei diavoli si è sentito in colpa e più di tutti Alichino, perché è stato la causa dell’errore (di aver lanciato la sfida a Ciampolo); e perciò si è mosso e ha urlato: Sei preso! Ti ho acciuffato! Però, gli è valso poco dire queste parole perché le sue ali non sono state più veloci della paura del Navarrese (il coraggio della paura, dice Totò nel film Totò contro Maciste, è stato quello che gli ha fatto spiccare il volo per salvarsi dall’attacco del forzuto…). Così, il Navarrese è riuscito a rituffarsi nella pece, mentre Alichino ha dto di petto, si è impennato (dopo aver sfiorato il fondo della pece) per risalire (e mostrando, in tal modo, il petto), non diversamente, proprio come fa l’anitra (similitudine) di colpo, improvvisamente, quando il falcone si avvicina: lei si immerge nell’acqua (sfuggendo all’assalto) e lui ritorna in alto irritato, sconfitto e avvilito (per non esser riuscito nell’impresa). Calcabrina (dal canto suo), irritato per la riuscita beffa del Navarrese (che ha messo in ridicolo i diavoli), se la prende con Alichino (che c’è cascato…): lo insegue, volando e, compiaciuto del fatto che Ciampolo sia sfuggito all’assalto, coglie l’occasione per azzuffarsi, litigare con Alichino (un regolamento di conti magari per vecchia ruggine tra i due…); e, così, proprio mentre il barattiere scompare nella pece, Calcabrina attacca Alichino con i suoi artigli, con i suoi unghioni e si azzuffano sopra il fosso. Si danno entrambi colpi di unghioni come bestie inferocite e, infatti, Dante dice che Alichino non è da meno nella zuffa: si mostra ben all’altezza come lo sparviero adulto, feroce e aggressivo nel colpirlo, tanto che finiscono per perdere l’equilibrio e precipitano nel fondo della pece bollente. Il bollore riesce subito a separarli ma non era facile, era impossibile uscire, venir fuori da lì, tanto le loro ali erano intrise di pece e appesantite.

Intanto, Barbariccia che, insieme agli altri diavoli se ne sta lì avvilito e crucciato per lo spettacolo umiliante, cerca di riparare alla vergogna di esser stati beffati dall’astuzia del dannato  e invia quattro subalterni sull’argine opposto della bolgia muniti dei loro roncigli, e molto velocemente, rapidamente, da una parte e dall’altra, discendono ciascuno al posto assegnato, cioè posizionandosi in maniera tale per poter ripescare e portare in salvo i due compagni: infatti, allungano i raffi verso i loro amici impeciati, invischiati nella pece e che mostrano di essersi ben scottati nella pelle già indurita dal grande calore. E mentre la scena comica dei diavoli impacciati, cioè impegnati nell’imbarazzante salvataggio dei due finiti nella pece, si sta concludendo con tanto di cruccio e di rammarico per la sporca decina, i due Poeti ne approfittano e si allontanano per proseguire, soli soletti e senza cattiva compagnia, il loro viaggio verso la sesta bolgia, la bolgia degli ipocriti.

L’episodio dei due diavoli fa riflettere su una cosa, e cioè che, ieri come oggi, l’uomo spesso si presenta, verso il proprio simile, aggressivo e minaccioso proprio come un rapace, come l’hobbesiano homo homini lupus. Non riesce a stare in pace con il suo prossimo e preferisce la zuffa, il litigio, la guerra piuttosto che l’amore, la solidarietà e l’amicizia. Forse ha ragione Freud: l’aggressività e bellicosità dell’uomo hanno viaggiato di pari passo con  lo sviluppo della civiltà e, paradossalmente, invece di debellarle, continua a farne uso. Il più cattivo si manifesta con la guerra, con armi sempre più sofisticate e annientatrici, con cui, l’uomorapace finisce per rischiare di distruggere anche se stesso.

Anche le sequenze da romanzo o film di horror di questo capitolo sui Malebranche e la bolgia dei barattieri ci resta impresso nella mente. Come dimenticare la sporca decina dei triviali, plebei, sarcastici, cinici e feroci demoni che, alla fine, cadono nella trappola-inganno tesa dal consumato fraudolento barattiere Ciampolo di Navarra, più diabolico degli stessi diavoli? Ma non si deve dimenticare che la polemica di Dante è sempre contro la malvagità dell’uomo, attuata con diverse modalità, e contro il Dio Denaro e il Male che riesce a generare: il denaro che è un vero e proprio veleno, tossico che infesta e appesta il mondo e l’umanità intera, inducendo gli uomini ai peggiori crimini, ai peggiori delitti. Per i quali dev’esserci sempre il giusto castigo: delitto e castigo. Una conclusione alla quale sarebbe giunto, qualche secolo più tardi, Fedor Dostoevskij.