Trebisacce-12/04/2023: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del canto XXVIII dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo.  Protagonisti sono i seminatori di discordia, gli scismatici: Maometto, Fra Dolcino, Pier da Medicina, Curione, Il Mosca dei Lamberti e Bertram de Born che, alla fine, pronuncerà la parola “contrappasso”: l’unica volta in tutta la Commedia.

Dante- Inferno- Canto 28-
Salvatore La Moglie
Dante- Inferno- Canto 28–

Maometto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del canto XXVIII dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo.  Protagonisti sono i seminatori di discordia, gli scismatici: Maometto, Fra Dolcino, Pier da Medicina, Curione, Il Mosca dei Lamberti e Bertram de Born che, alla fine, pronuncerà la parola “contrappasso”: l’unica volta in tutta la Commedia.

 

Il canto-capitolo XXVIII. Cerchio ottavo, nona bolgia. Ad essere puniti sono i seminatori di discordia, gli scismatici. Maometto. Fra Dolcino. Pier da Medicina. Curione. Il Mosca dei Lamberti. Bertram de Born. Il loro contrappasso (per analogia) consiste nel fatto che come loro, in vita, operarono per dividere e seminare discordia e zizzania, creando grandi lacerazioni, adesso sono costretti, in eterno, a girare, correre per la bolgia e, ad ogni giro, passare davanti ad un diavolo che li mutila, li spacca, li lacera e ferisce con una spada. Poi le ferite si richiudono ma, al prossimo giro, le anime sono di nuovo spaccate e divise dal diavolo di turno. È questo l’eterno supplizio che hanno meritato: come divisero e lacerarono così, nell’Inferno, sono orribilmente divisi e lacerati dalle spade dei diavoli.

 

Dante (e non è la prima volta) entra subito in media res e ci introduce nella nona orribile e terrorizzante bolgia dei seminatori di discordie e lo fa, come al solito, con similitudini e riferimenti alla storia antica o a quella più recente di qualche parte del nostro Paese e facendo spiegare a un celebre dannato (Maometto) in cosa consiste la pena che quei peccatori devono scontare: Chi porìa mai pur con parole sciolte dicer del sangue e delle piaghe a pieno ch’i’ ora vidi, per narrar più volte? Ogne lingua per certo verrìa meno per lo nostro sermone e per la mente c’hanno a tanto comprender poco seno.

S’el s’aunasse ancor tutta la gente che già in su la fortunata terra di Puglia fu del suo sangue dolente per li Troiani e per la lunga guerra che dell’anella fe’ sì alte spoglie, come Livio scrive, che non erra, con quella che sentìo di colpe doglie per contastare a Ruberto Guiscardo; e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie a Ceperan, là dove fu bugiardo ciascun pugliese, e là da Tagliacozzo, dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo; e qual forato suo membro e qual mozzo mostrasse, d’aequar sarebbe nulla il modo della nona bolgia sozzo.

Già veggia, per mezzul perdere o lulla, com’io vidi un, così non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla: tra le gambe pendevan le minugia; la corata pereva e ‘l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia. Mentre che tutto in lui veder m’attacco, guardommi, e con le man s’aperse il petto, dicendo: “Or vedi com’io mi dilacco! Vedi come storpiato è Maometto! Dinanzi a me sen va piangendo Alì, fesso nel volto dal mento al ciuffetto. E tutti li altri che tu vedi qui, seminator di scandalo e di scisma fur vivi, e però son fessi così. Un diavol è qua dietro che n’accisma sì crudelmente, al taglio della spada rimettendo ciascun di questa risma, quand’avem volta la dolente strada; però che le ferite son richiuse prima ch’altri dinanzi li rivada.

Ma tu chi se’ che ‘n su lo scoglio muse, forse per indugiar d’ire alla pena ch’è giudicata in su le tue accuse?”.

Si tratta di uno spettacolo orrendo, un vero e proprio film dell’orrore e del brivido, ideato dal regista più crudelmente fantasioso che vuole terrorizzare gli spettatori che hanno avuto il coraggio di andarlo a vedere. Qualcosa di peggio di un campo di battaglia con cadaveri e feriti  orrendamente mutilati. E dunque: Chi potrebbe mai, anche se in prosa (e non con parole in versi legati da problemi di ritmo e di rima), narrare compiutamente del sangue e delle ferite, che io ho visto in questa bolgia, per quanto tentasse di provare a farlo più volte? Certamente ogni lingua sarebbe insufficiente a causa del linguaggio e della mente che, per esprimere cose tanto straordinarie e terrificanti, hanno poca capacità di comprendere (qualcosa di così vasto e complesso).

Se anche si potesse riunire tutti gli uomini (cioè tutti i morti e i feriti) nelle guerre che hanno insanguinato le terre di Puglia (cioè, nell’Italia Meridionale, nel Regno di Napoli), terre già così soggette alle varie vicende della sorte,  tanto che ha versato il suo sangue a causa (delle guerre) dei Romani (Troiani, in quanto discendenti da Enea) e a causa della lunga guerra punica (218-202 a. C.) che, come scrive Tito Livio, che non sbaglia, ha reso un bel bottino di anelli (tolte dalle dita dei tanti caduti Romani), insieme con quella gente che morì per impedire la conquista, da parte di Roberto il Guiscardo (tra 1057 e 1071) dell’Italia del Sud (che era dominata dai bizantini e dai longobardi), e l’altra gente ancora (uccisa durante le guerre tra Svevi e Angioini, tra 1266 e 1268) le cui ossa sono tuttora raccolte a Ceprano (nel Lazio), laddove tutti i nobili (i baroni) pugliesi si sono rivelati traditori di Manfredi, come pure quella che è sepolta a Tagliacozzo (1268) dove a vincere per pura astuzia strategica (senza armi, cioè con attacco a sorpresa) è stato il vecchio consigliere del re Carlo I d’Angiò, Alardo di Valèry; (ebbene) se tutti questi caduti mostrassero le loro membra o ferite o amputate, (un tale spettacolo, una tale scena) non si potrebbe tuttavia paragonare, eguagliare alla condizione orribile, disgustosa (che si può vedere) nella  nona bolgia.

Certamente, una botte, che se perdesse una doga mediana o una delle doghe laterali del fondo, non si sfascerebbe, non si presenterebbe così forato, squarciato, spaccato come ho visto io un dannato dal mento fin dove si scorreggia, cioè fino all’ano: tra le gambe pendono le budella; si vedono le interiora (cuore, fegato, polmoni, milza) insieme al ripugnante, disgustoso stomaco che trasforma in merda tutto quello che viene ingerito.

Mentre io mi concentro su di lui per guardarlo attentamente (per vedere se lo riconosco), lui mi guarda e con le mani si apre il petto, dicendo: Ora puoi veder come io mi apro, come mi spacco, divido! Guarda com’è deturpato, lacerato Maometto! Davanti a me cammina piangendo, soffrendo Alì (mio genero e successore), spaccato nel volto dal mento alla fronte (su cui cade il ciuffo dei capelli). E tutti gli altri dannati che tu puoi vedere qui, da vivi sono stati seminatori di discordia e di scissioni, per questo, qui, sono spaccati (feriti, tagliati). Un diavolo sta qui dietro (nascosto ma pronto a…) e ci concia per le feste (ci aggiusta, sistema a dovere, ben bene), così crudelemente, sottoponendo ciascuno di questa (schiera, ma meglio) razza, accozzaglia di dannati, di nuovo al taglio della spada, dopo che abbiamo fatto l’intero giro della dolorosa bolgia; e questo accade perché le ferite si richiudono prima che ognuno di noi gli si trovi davanti (al nuovo giro).

Ma tu chi sei, che sul ponte ti sporgi per curiosare, per osservare, forse per ritardare di andare a scontare la pena che ti è stata assegnata in base alla confessione delle tue colpe fatta davanti a Minosse?

Il fondatore dell’Islamismo (560-633), che Dante punisce come colpevole di aver creato una grave scissione nella religione nell’adorazione dello stesso Dio, crede che Dante sia uno dei tanti dannati precipitati nell’Inferno, ma Virgilio gli spiega subito che: Né morte ‘l giunse ancor, né colpa ‘l mena a tormentarlo; ma per dar lui esperienza piena, a me, che morto son, convien menarlo per lo ‘nferno qua giù di giro in giro: e quest’è ver così com’io ti parlo: Né la morte lo ha ancora raggiunto (è vivo) né alcuna colpa lo porta qui per subire tormenti (come voi); ma per consentirgli, dargli piena e diretta conoscenza (del peccato), è necessario, mi tocca – a me che sono morto per davvero – condurlo, guidarlo quaggiù, attraverso l’Inferno, di cerchio in cerchio; e questo è vero com’è vero che ti parlo.

Le parole di Virgilio creano stupore tra i dannati: Più fuor di cento che, quando l’udiro, s’arrestaron nel fosso a riguardarmi per maraviglia, obliando il martiro: Sono state più di cento (cioè tantissime) le anime che, quando hanno sentito le parole di Virgilio, si sono fermate nel fondo della bolgia a osservarmi con meraviglia, dimenticando il tormento, la pena (certamente tornando, dolorosamente, con la mente al dolce mondo ormai per sempre perduto e che si potrà solo rimpiangere e averne una struggente nostalgia).

Intanto, Maometto riprende a parlare e cita Fra Dolcino (Dolcino Tornielli di Novara, fu capo della setta ereticale dei Fratelli Apostolici che predicava il ritorno della Chiesa alla purezza delle origini e la comunanza dei beni materiali e delle donne, cioè una sorta di comunismo; fu scomunicato da papa Clemente V che, insieme ai vescovi di Vercelli e di Novara, gli lanciò contro una vera e propria crociata diretta a neutralizzarlo; dopo una lunga resistenza, nel 1307 dovette arrendersi per fame per poi essere arso vivo insieme ad altri suoi seguaci, dopo un processo-montatura per eresia messo in piedi dall’Inquisizione): Or di’ a fra Dolcin dunque che s’armi, tu che forse vedra’ il sole in breve, s’ello non vuol qui tosto seguitarmi, sì di vivanda, che stretta di neve non rechi la vittoria al Noarese, ch’altrimenti acquistar non sarìa leve: Tu che forse tra breve ritornerai a vedere il Sole, devi dire, dunque, a Fra Dolcino che, se non vuole presto raggiungermi qui, si provveda, si fornisca di viveri, di cibo in maniera tale che, il blocco, l’assedio della neve non lo costringa alla resa e quindi alla vittoria del vescovo di Novara (che lo combatteva, d’accordo con il papa; ma a combatterlo pare fosse soprattutto il vescovo di Vercelli), vittoria che, diversamente, non sarebbe facile da conseguire.

Quindi Maometto si allontana e si fa avanti un altro dannato, cioè Pier da Medicina (di cui si sa poco, forse è da identificare in tal Pietro Aino da Medicina; di sicuro c’è che seminò discordia tra i da Polenta di Ravenna e i Malatesta di Rimini ): Poi che l’un piè per girsene sospese, Maometto mi disse esta parola; indi a partirsi in terra lo distese. Un altro, che forata avea la gola e tronco il naso infin sotto le ciglia, e non avea mai ch’una orecchia sola, ristato a riguardar per maraviglia con li altri, innanzi alli altri aprì la canna, ch’era di fuor d’ogni parte vermiglia, e disse: “O tu cui colpa non condanna e cu’ io vidi su in terra latina, se troppa somiglianza non m’inganna, rimembrati di Pier da Medicina, se mai torni a veder lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina. E fa sapere a’ due miglior da Fano, a messer Guido e anco ad Angiolello,  che se l’antiveder qui non è vano, gittati saran fuor di lor vasello e mazzerati presso alla Cattolica per tradimento d’un tiranno fello. Tra l’isola di Cipri e di Maiolica non vide mai sì gran fallo Nettuno, non da pirate, non da gente argolica. Quel traditor che vede pur con l’uno, e tien la terra che tale qui meco vorrebbe di vedere esser digiuno, farà venirli a parlamento seco; poi farà sì, ch’al vento di Focara non sarà lor mestier voto né preco”: Maometto (mentre sta parlando) tiene un piede un po’ alzato, sollevato (come pronto) per andare oltre e, terminato il suo discorso, finito di parlare, per allontanarsi, lo appoggia per terra (scena grottesca, fa notare più di un commentatore…). Poi è apparso un altro dannato con la gola forata e il naso spaccato, tagliato fin sotto le ciglia, con non più di un’orecchia, che è rimasto lì a guardarmi con gli altri per lo stupore (creato dalla mia persona), ha aperto prima degli altri la gola (per poter parlare: direttamente con la gola), che di fuori, all’esterno è tutta rossa per il sangue, e ha detto: O tu che non sei condannato per alcuna colpa e che io ho visto in terra italiana, in Italia, se non sono ingannato per troppa somiglianza tua con qualcun altro, ricordati (non ti dimenticare) di Pier da Medicina, possa, così, tu (un giorno) tornare a vedere la dolce pianura padana che da Vercelli scende fino al castello di Marcabò (costruito dai Veneziani). E fai sapere ai due più ragguardevoli cittadini di Fano (Marche), cioè  Guido del Cassero e Angiolello da Carignano che, se qui nell’Inferno prevedere il futuro non è cosa vana, saranno lanciati fuori dalla loro nave, messi in un sacco e gettati in mare presso il borgo di Cattolica (tra Rimini e Fano) per il tradimento di un malvagio tiranno (i due nobili furono ingannevolmente attirati in una trappola mortale da Malatestino dei Malatesta, Signore di Rimini, detto dell’Occhio perché guercio, che li fece annegare in mare dai suoi uomini).

Il dio Nettuno non ha mai visto, tra Cipro e Maiorca, un delitto più orribile, nefando di quello, neppure di quelli commessi dai pirati o dai Greci. Quel traditore che vede solo con un occhio (Malatestino), e governa il territorio di Rimini, che un dannato che è qui con me vorrebbe non aver mai visto, li farà (ingannevolmente) venire ad un appuntamento, a un colloquio con lui; e poi farà in modo che non avranno bisogno né di fare voti nè di dire preghiere per salvarsi dalle tempeste provocate dal vento che proviene da Focara (tra Cattolica e Pesaro).

Dante replica così: E io a lui: “Dimostrami e dichiara, se vuo’ ch’i porti su di te novella, chi è colui dalla veduta amara”: Se vuoi che io porti tue notizie (una volta sulla Terra), indicami e dimmi chiaramente, spiegami chi è il dannato per il quale la vista di Rimini si è rivelata dolorosa, dannosa.

Questa la risposta del dannato: Allor puose la mano alla mascella d’un suo compagno e la bocca li aperse, gridando: “Questi è desso, e non favella. Questi scacciato, il dubitar sommerse in Cesare, affermando che ‘l fornito sempre con danno l’attender sofferse”: Allora lui ha messo la mano sulla mascella di un suo compagno (di pena) e gli ha aperto la bocca, gridando: Questi è il dannato (di cui ti ho detto) e non può parlare (perché ha la lingua tagliata). Costui (cioè Caio Curione, tribuno della plebe, passato da uomo di Pompeo a uomo di Cesare, da lui consigliato a varcare il Rubicone), costui, scacciato da Roma, persuase Cesare a troncare ogni dubbio (in merito al passare il Rubicone), sostenendo che chi è pronto (all’azione) sopporta (sempre con) danno il suo indugiare (cioè paga un caro prezzo).

Dante è fortemente impressionato e inorridito nel vedere la condizione in cui si trovava Curione e scrive: Oh quanto mi parea sbigottito con la lingua tagliata nella strozza Curio, ch’a dir fu così ardito! E un ch’avea l’una e l’altra man mozza, levando i moncherin per l’aura fosca, sì che ‘l sangue facea la faccia sozza, gridò: “Ricordera’ti anche di Mosca, che dissi, lasso!, ‘Capo ha cosa fatta’, che fu ‘l mal seme per la gente tosca”: Oh quanto mi è sembrato sbigottito (nel senso di stordito, imbambolato) Curione, con la lingua tutta tagliata fino alla gola, lui che è stato così temerario, audace nel parlare (nel dare il consiglio fraudolento a Cesare)! E un altro dannato, che ha entrambe le mani tagliate, amputate, alzando i moncherini per l’aria tenebrosa dell’Inferno, tanto che il sangue (che gocciola, gronda) gli sporca il volto, ha gridato: Ti ricorderai anche di Mosca, quello che ha detto, ahimè!, Cosa fatta capo ha, (frase) che è stata causa di cose orribili, cioè di divisioni e lotte fratricide per i Toscani.

Mosca dei Lamberti, fiorentino di potente famiglia ghibellina (di cui Dante aveva chiesto notizie a Ciaccio, nel cerchio dei golosi), era stato uomo politico con alti incarichi e anche condottiero. La sua colpa fu di aver dato (nel 1216) un malvagio consiglio alla famiglia degli Amidei e cioè di uccidere Buondelmonte dei Buondelmonti, che aveva offeso gli Amidei rompendo la promessa di matrimonio con una fanciulla di questa famiglia. Egli utilizzò il proverbio: Cosa fatta capo ha, cioè non può essere disfatta e non bisogna pensare alle conseguenze. Che ci furono e gravissime: scatenarono le vendette, le faide tra le due famiglie e poi tra le due rispettive fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini, dei Bianchi e dei Neri che avrebbero insanguinato Firenze e poi tutta la Toscana.

Dante (che non gli perdona il suo malvagio consiglio) aggiunge, a completamento delle dolenti parole di Mosca: “E morte di tua schiatta”; per ch’elli, accumulando duol con duolo, sen gìo come persona trista e matta: (e quel consiglio) è stato  anche all’origine della rovina, della fine della tua casata, famiglia; (per queste mie parole) per cui egli, aggiungendo dolore a dolore (il suo, per la pena da scontare, e quello dovuto al rimorso per il male fatto alla sua famiglia e ai Toscani), se n’è andato via come persona triste, infelice e fuori di sé (appunto, per il troppo dolore).

Subito dopo, Dante prosegue dicendo di aver visto qualcosa di veramente inedito: l’anima di Bertram de Born (o dal Bornio, feudatario e celebre poeta provenzale, vissuto tra il 1140 e il 1215; consigliò Enrico III d’Inghilterra, detto il Re giovane, a ribellarsi al padre Enrico II, seminando discordia tra i due) orribilmente mutilata. Con il suo racconto e l’immagine terrificante della sua mutilazione, che ci resta impressa a vita nella mente, si conclude il canto-capitolo sui seminatori di discordie: Ma io rimasi a riguardar lo stuolo, e vidi cosa, ch’io avrei paura, sanza più prova, di contarla solo; se non che coscienza m’assicura, la buona compagnia che l’uom francheggia sotto l’asbergo del sentirsi pura.

Io vidi certo, ed ancor par ch’io ‘l veggia, un busto sanza capo andar sì come andavan li altri della trista greggia; e ‘l capo tronco tenea per le chiome, pèsol con mano a guisa di lanterna; e quel mirava noi, e dicea: “Oh me!”. Di sé facea  a se stesso lucerna, ed era due in uno e uno in due: com’esser può, quei sa che sì governa. Quando diritto al piè del ponte fue, levò ‘l braccio alto con tutta la testa, per appressarne le parole sue, che fuoro: “Or vedi la pena molesta tu che, spirando, vai veggendo i morti: vedi s’alcuna è grande come questa. E perché tu di me novella porti, sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli che diedi al Re giovane i ma’ conforti. Io feci il padre e ‘l figlio in sé ribelli: Achitofèl non fe’ più d’Absalone e di David coi malvagi punzelli. Perch’io parti’ così giunte persone, partito porto il mio cerebro, lasso!, dal suo principio ch’è in questo troncone. Così s’osserva in me lo contrappasso”: Io sono rimasto a osservare la schiera, la folla dei dannati, e ho visto qualcosa (cioè uno spettacolo), che avrei paura anche solo a raccontare, se non avessi come prova, testimonianza (di averla vista con i miei occhi); se non che mi rassicura e mi dà coraggio la coscienza di dire il vero, la verità, (la coscienza che è) la buona compagnia che rende l’uomo libero (dal timore di non essere creduto), (ponendolo) sotto la difesa che viene a lei dal sentirsi pura (pulita, retta, senza colpe).

Io ho visto con certezza, chiaramente, e ancora mi sembra di vederlo, un tronco di dannato camminare come camminano gli altri della schiera malvagia; e tiene con una mano per i capelli, penzoloni, la (propria) testa mozzata così come si porta una lanterna. E quella testa troncata ci guarda e dice: Ohimè!

Con gli occhi della testa fa da luce ai suoi passi, e sono due (parti separate) in uno (perché la persona è la stessa) e uno in due (perché è separato da se stesso, un corpo diviso in due parti): e come questo possa essere, possa accadere lo sa soltanto Dio che così stabilisce e punisce. Quando il dannato è giunto proprio davanti al piede del ponte, ha alzato in alto il braccio insieme alla testa, per avvicinare a noi le sue parole (e poterle meglio ascoltare), e sono state (queste): Tu che, da vivo, vai osservando i morti, ben puoi vedere la mia (terribilmente) dolorosa pena; vedi se ce n’è un’altra più dura, grave della mia. E affinchè tu possa portare notizie di me (nel mondo dei vivi), sappi che io sono Bertram dal Bornio, colui che diede i malvagi consigli (o suggerimenti) ad Enrico III, il Re giovane. Io misi padre e figlio l’uno contro l’altro, li resi nemici (seminando zizzania): Achitofèl (consigliere di Davide) non operò peggio di me con Assalone (figlio di Davide) con i suoi malvagi incitamenti. E poiché io (in vita) ho diviso persone strettamente legate da vincoli di sangue (padre e figlio), ahimè!, qui porto la mia testa, il mio cervello (che ha suggerito i cattivi consigli) diviso dal midollo spinale che si trova in questo tronco, in questo busto troncato. Ed è così che viene applicata nel mio caso, per me la legge del contrappasso.

Contra pati, cioè contropatire, patire, soffrire, pagare adeguatamente alla colpa commessa. Si tratta della biblica legge del taglione e dell’occhio per occhio, dente per dente per cui il castigo deve essere simile, adeguato alla natura del delitto. Bertram ammette la sua infame colpa di aver seminato zizzania tra un padre e un figlio e, alla fine, conclude, amaramente, che il contrappasso applicato al suo peccato è quello adeguato, anche se lo fa soffrire terribilmente per l’eternità. Il De Sanctis, a proposito della sua figura e della scena descritta da Dante, ha parlato di sublime dell’orrore. Sia detto per inciso, la parola contrappasso Dante la nomina soltanto in questo canto-capitolo.

Le scene dei corpi orrendamente mutilati della nona bolgia non possono non restare nella nostra mente dopo che Dante ci ha detto di averli realmente visti e dopo averli così realisticamente e plasticamente descritti da farceli toccare con mano.

Insomma, ancora una volta, il giudizio e la condanna morale sono durissimi e più si va giù e più il film e/o il romanzo non possono che essere di orrore e da brivido, e Dante, pur così rigido e implacabile, non riesce a non commuoversi, a non turbarsi e a non tormentarsi interiormente per tanto orrore e nefandezze, per tanta malvagità di cui può essere capace l’uomo-feccia, soprattutto quello dei ceti altolocati, di Potere, ecc. Malvagità che genera malvagità, dolore, violenza, distruzione, delitti, stragi, guerre, sangue… Ma andiamo a vedere questi pensieri di Dante e quello che, cammin facendo, si troverà davanti (insieme a Virgilio) nella decima bolgia.