Trebisacce-29/06/2023: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

canto-30-inferno-I Falsari

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Moglie Salvatore

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del canto XXX dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo.  Protagonisti sono i falsatori di persone, di monete e di parole, duramente puniti nella decima bolgia.

 Il canto-capitolo XXX. Decima bolgia. I falsatori di persone. Corrono per la bolgia furiosi e azzannano gli altri dannati per sfogare la lora rabbia impotente. Gianni Schicchi e Mirra. I falsatori di monete. Sono tormentati dalla sete e deturpati orribilmente dall’idropisia. Il maestro Adamo (l’uomo-liuto) e i conti Guidi di Romena. I falsatori di parole. Sono consumati e tormentati dalla febbre. La moglie di Putifarre. Sinone da Troia. Plebea e triviale lite tra maestro Adamo e Sinone, con Dante affascinato spettatore poi amorevolmente ripreso e perdonato da Virgilio. Il contrappasso per tutta questa categoria di falsatori è sempre per analogia: come in vita si diedero da fare, con passione, a falsare persone, monete e a giurare il falso dicendo delle enormi bugie, adesso, nell’Inferno, sono deformati per l’eternità nelle loro persone, nel fisico e, i mentitori di professione, nella lingua, nella bocca (da cui uscirono le parole false e bugiarde) prosciugata per la troppa arsura dovuta ad eccessiva febbre.

 Nel canto-capitolo XXX  Dante, per spiegare la pena e la condizione in cui versano questi altri falsatori, ricorre a due similitudini in cui si parla della follia dovuta ad eccessivo furore, che conduce alla violenza, di due mitici personaggi trattati da Ovidio: Atamante e poi Ecuba. Con Dante è ancora Griffolino, il quale gli rivela il nome del dannato che va correndo furioso per la bolgia azzannando gli altri mal nati, cioè Gianni Schicchi (che ha appena azzannato Capocchio). Griffolino indica a Dante anche l’anima di Mirra, la corrotta ingannatrice (poi trasformata in pianta) che, con una sua contraffazione, cioè fingendo di essere un’altra donna, era riuscita ad avere una relazione incestuosa con il proprio padre, Cinira, re di Cipro; quindi si parla della contraffazione di Buoso Donati realizzata da Gianni Schicchi su istigazione del nipote Simone Donati, per redigere un testamento a lui favorevole. Dante sofferma, dunque, la propria attenzione su altri falsatori: Nel tempo che Iunone era crucciata per Semelè contra ‘l sangue tebano, come mostrò una e altra fiata, Atamante divenne tanto insano, che veggendo la moglie con due figli andar cercata da ciascuna mano, gridò: “Tendiam le reti, sì ch’io pigli la leonessa e’ leoncini al varco”; e poi distese i dispietati artigli, prendendo l’un ch’avea nome di Learco, e rotollo e percosselo ad un sasso; e quella s’annegò con l’altro carco. E quando la fortuna volse in basso l’altezza de’ Troian che tutto ardiva, sì che ‘nsieme col regno il re fu casso.

Ecuba trista, misera e cattiva, poscia che vide Polissena morta, e del suo Polidoro in su la riva del mar si fu la dolorosa accorta, forsennata latrò sì come cane; tanto il dolor le fe’ la mente torta. Ma né di Tebe furie né troiane si vider mai in alcun tanto crude, non punger bestie, non che membra umane, quant’io vidi due ombre smorte e nude, che mordendo correvan di quel modo che ‘l porco quando del porcil si schiude. L’una giunse a Capocchio, ed in sul nodo del collo l’assannò, sì che, tirando, grattar li fece il ventre al fondo sodo. E l’Aretin, che rimase, tremando, mi disse: “Quel folletto è Gianni Schicchi, e va rabbioso altrui così conciando”.

“Oh!” diss’io lui,  “se altro non ti ficchi li denti a dosso, non ti sia fatica a dir chi è, pria che di qui si spicchi”. Ed elli a me: “Quell’è l’anima antica di Mirra scellerata, che divenne al padre fuor del dritto amore amica. Questa a peccar con esso così venne, falsificando sé in altrui forma, come l’altro che là sen va, sostenne, per guadagnar la donna della torma, falsificare in sé Buoso Donati, testando e dando al testamento norma”.

E poi che i due rabbiosi fuor passati sovra cu’ io avea l’occhio tenuto, rivolsilo a guardar li altri mal nati: Nel tempo che Giunone era crucciata, imbronciata a causa di Semele (figlia del re Cadmo, fondatore di Tebe, di cui si era invaghito Giove) contro i Tebani, come ha mostrato più volte (per es., facendo incenerire Semele e impazzire Atamante), Atamante era diventata così folle che, vedendo la moglie Ino, con in braccio i due figli (Learco e Melicerta), aveva gridato (scambiandoli per leonessa con due leoncini): Tendiamo le reti, in modo che io possa prendere, catturare, al passaggio, la leonessa e i leoncini; e poi distese le spietate mani (divenute come artigli), afferrando l’uno dei due che si chiamava Learco, e lo fece rotolare, roteare e lo percosse con un sasso (uccidendolo); e lei andò ad annegare in mare con l’altro figlio (Melicerta).

E quando la ruota della Fortuna ha fatto precipitare, ha abbattuto la superbia dei Troiani esempio di superbia punita dalla divinità) che spingeva ad osare ogni cosa, per cui insieme col regno è stato cancellato, è scomparso anche il re (Priamo), la infelice Ecua (moglie di Priamo), misera e prigioniera, dopo aver visto la figlia Polissena uccisa (sgozzata sulla tomba di Achille), e dopo essersi accorta, la sofferente, del cadavere del figlio Polidoro sulla riva del mare (ucciso dallo zio Polinestore, al quale Ecuba ha poi strappato gli occhi), come fuori di sé, impazzita si era messa a latrare come un cane, tanto il dolore le aveva stravolto la mente (era stata trasformata in cagna).

Ma non si sono visti mai uomini infuriati, persone furiose Tebane né Troiane contro qualcuno così feroci, crudeli, nel ferire bestie o membra umane, uomini (come hanno fatto Atamente o Ecuba), come io ho visto due dannati nudi e pallidi, che davano morsi (ad altri compagni di pena) correndo (per la bolgia) come corre un maiale quando si libera dal porcile (si noti la ricorrente assimilazione dell’uomo peccatore alla bestia, all’animale: perché tale è un uomo che non informa la propria vita secondo ragione, buonsenso, virtù e fede). Uno di questi dannati (Gianni Schicchi) ha raggiunto Capocchio e lo ha azzannato sul nodo del collo, alla nuca, in modo che, cosicchè, trascinandolo (a pancia in giù), gli ha fatto grattare il ventre sul fondo duro, pietroso (della bolgia). E l’Aretino (Griffolino), che era rimasto fermo (come paralizzato), tremando (per la paura di essere addentato a sua volta), mi ha detto: Quello spirito maligno, quel demonio, quel forsennato, è Gianni Schicchi, e va (correndo) furioso, rabbioso (come un cane idrofobo) contro gli altri (dannati) conciandoli in malo modo, per le feste.

Io gli ho detto: (Augurandoti che…) possa l’altro (dannato, cioè Mirra) non ficcarti i denti addosso, non azzannarti, non ti dispiaccia, non ti pesi di dirmi chi è, prima che di qui si allontani. E lui: Quella è l’anima antica (perché personaggio mitologico e perché è lì da tanto tempo) e scellerata di Mirra, che era diventata amante del padre al di fuori dell’amore lecito (secondo natura ed etica). Essa, fingendo (ingannevolmente) di essere un’altra donna, era riuscita a peccare col padre, proprio come quell’altro (lo Schicchi, che se ne va correndo per la bolgia come un folletto) ha avuto il coraggio, la temerarietà di adattarsi a contraffare, a fingere di essere Buoso Donati, al fine di ottenere la mula regina dell’armento (di Buoso, da lui soprannominata Tonina, regina di tutte le mule di Toscana), (e fingendo così bene ha fatto, a nome di Buoso) testamento, dando ad esso valore legale (in quanto fatto secondo tutte le norme vigenti).

E dopo che i due furiosi, rabbiosi dannati (Schicchi e Mirra) sui quali avevo concentrato l’attenzione, fissato lo sguardo, erano passati, io ho rivolto l’attenzione, gli occhi su altri dannati (mal nati, cioè gli uomini-feccia, questa volta falsatori di moneta). Dante sofferma la sua attenzione su maestro Adamo, detto di  Brescia ma, probabilmente inglese e presente a Bologna nel 1270. Fu al servizio dei conti Guidi di Romeno, in Casentino, i quali lo indussero a coniare fiorini falsi, con tre carati d’oro in meno. Per questo fu condannato e fatto bruciare vivo dalla Signoria di Firenze nel 1281. Maestro Adamo si presenta, agli occhi di Dante, liutiforme, praticamente un uomo-liuto: Io vidi un, fatto a guisa di leuto, pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia tronca dall’altro che l’uomo ha forcuto.  La grave idropesì, che sì dispaia le membra con l’omor che mal converte, che ‘l viso non risponde alla ventraia, faceva lui tener le labbra aperte come l’etico fa, che per la sete l’un verso il mento e l’altro in su rinverte.

“O voi che sanz’alcuna pena sete, e non so io perché, nel mondo gramo”, diss’elli a noi, “guardate e attendete alla miseria del maestro Adamo; io ebbi vivo assai di quel ch’i’ volli, e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo. Li ruscelletti che de’ verdi colli del Casentin discendon giuso in Arno, faccendo i lor canali freddi e molli, sempre mi stanno innanzi, e non indarno, chè l’imagine lor vie più m’asciuga che ‘l male ond’io nel volto mi discarno. La rigida giustizia che mi fruga tragge cagion del loco ov’io peccai a metter più li miei sospiri in fuga. Ivi è Romena, là dov’io falsai la lega suggellata del Batista; per ch’io il corpo su arso lasciai. Ma s’io vedesse qui l’anima trista di Guido o d’Alessandro o di lor frate, per Fonte Branda non darei la vista. Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate ombre che vanno intorno dicon vero; ma che mi val, c’ho le membra legate? S’io fossi pur di tanto ancor leggero ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia, io sarei messo già per lo sentero, cercando lui tra questa gente sconcia, con tutto ch’ella volge undici miglia, e men d’un mezzo di traverso non ci ha. Io son per lor tra sì fatta famiglia: e’ m’indussero a batter li fiorini ch’avevan tre carati di mondiglia”.

E io a lui: “Chi son li due tapini che fumman come man bagnate ‘l verno, giacendo stretti a’ tuoi destri confini ?”: Ho visto uno di questi (maestro Adamo) che era a forma di liuto (perché con il ventre gonfio per l’idropisia, mentre il collo e il viso sono sottili), se solo avesse avuto l’inguine troncato, separato dalle gambe. La grave, enfiante idropisia, che deforma e crea sproporzione tra le membra, a causa dell’umore, della linfa che viene trasformata in modo anomalo, cioè mal convertita, tanto che il viso (magrissimo) non corrisponde (cioè è come un pugno nello stomaco…) al ventre (gonfissimo e tumidissimo), e gli fa tenere le labbra aperte come fa il tisico che, per la (troppa) sete, rivolge un labbro verso il mento e un altro verso l’alto, cioè verso il naso (per cercare di alleviare l’arsura e per poter aspirare più aria).

Il dannato si rivolge ai due Poeti e dice: O voi che siete in questo mondo di dolore, miserabile (dell’Inferno) senza pagare alcuna pena e non so perché (mostra invidia, lui che soffre così tanto), guardate e riflettete, prestate attenzione alla (attuale) condizione misera, infelice (ma anche nel senso che lì gli manca tutto, non ha più l’abbondanza e le ricchezze di una volta) del maestro Adamo: io, da vivo, ho avuto in abbondanza quello che ho desiderato, e adesso, ahimè!, povero me!, desidero tantissimo una goccia d’acqua (per un po’ di refrigerio). I ruscelletti che dai verdi colli del Casentino discendono giù, finiscono nell’Arno, rendendo i loro canali freschi e dolci nel loro scorrere, mi stanno sempre davanti agli occhi, e non invano (perché è in questo immaginare e desiderare che il castigo è più terribile e mai così terribile la reminiscenza e la struggente nostalgia), perché la loro immagine (cioè il loro ricordo) mi accresce di più l’arsura  che non la malattia (l’idropisia) per cui io dimagrisco, mi assottiglio nel volto. La giustizia severa, inflessibile (di Dio) che mi punge, tormenta, trae motivo dal luogo dove, in cui io ho peccato per far aumentare di più i miei sospiri (cioè per farmi soffrire di più).

Nel Casentino si trova Romena, il luogo dove io ho falsato, alterato la lega di cui è fatto il fiorino d’oro, che su una faccia ha l’immagine del santo protettore (San Giovanni Battista, e sull’altra quello del giglio fiorentino); e per questa colpa sono stato arso vivo. Ma se io vedessi qui l’anima malvagia di Guido o di Alessandro o dell’altro loro fratello (Aghinolfo oppure Ildebrandino), non baratterei la soddisfazione, il piacere di vederli puniti qui (come me!…) con tutta l’acqua di Fonte Branda (in Romena). Qui dentro c’è gia Guido, se le anime furiose, arrabbiate che corrono per la bolgia dicono la verità; ma a cosa mi giova, se ho le membra impedite, se ho difficoltà a muovermi (per la malattia)? Se io fossi (esprime sete di vendetta) anche solo un poco più leggero, agile, da potermi spostare in cento anni per un’oncia (cioè per poter percorrere in un secolo circa due centimetri e mezzo!…), io mi sarei già messo in cammino, per (dargli la caccia) cercarlo in mezzo a questa gente deforme, ripugnante, brutta a vedersi, sebbene la bolgia abbia una circonferenza di 11 miglia e non abbia meno di mezzo miglio di larghezza. Io sono per colpa loro (lui ne ha poca, la colpa è stata tutta dei conti Guidi!…) tra questa (bella…) compagnia di falsari (di mal nati): essi mi hanno indotto a coniare  fiorini con tre carati di metallo vile.

E Dante (che sembra proprio non voler ascoltare le rimostranze del dannato che rimpiange, impreca e vorrebbe quei fratelli a soffrire insieme a lui le pene dell’Inferno…), Dante, alla fine del racconto di maestro Adamo, gli domanda semplicemente: Chi sono i due miseri (peccatori) dal cui corpo esce fumo (per l’evaporazione del sudore dovuta a febbre altissima) come d’inverno esce il fumo dalle mani bagnate, e che stanno stretti fra di loro alla tua destra?

Maestro Adamo è costretto da Dante a spostare il discorso da lui ad altri casi, quelli dei falsatori di parole, grandi bugiardi e menzogneri fraudolenti. Ma tra falsatori di ogni risma e di vario genere non c’è alcuna solidarietà e non solo si azzannano con i denti ma anche con le parole!… E così accade che, in questa parte terminale del canto-capitolo, maestro Adamo ha un acceso, violento e triviale colloquio con il greco Sinone (l’uomo dell’inganno, detto da Troia perché con false parole aveva convinto i Troiani a far entrare nella città il famoso Cavallo di legno, con dentro i guerrieri), colloquio preceduto da altrettanto volgare, plebeo e violento scambio di botte alla gonfia pancia l’uno e al volto fumante per la febbre l’altro. Con sommo divertimento di Dante (che si è messo lì a guardare la scena), ma con arrabbiatura finale di Virgilio che redarguisce duramente il suo discepolo che ha perso il prezioso tempo a osservare una lite di bassa lega (ma l’intento di Dante è proprio quello di mostrare a noi di che pessima lega son fatti quei falsatori che si confermano, anche nell’Inferno, gli uomini-feccia che sono sempre stati): “Qui li trovai – e poi volta non dierno – ”, rispuose, “quando piovvi in questo greppo, e non credo che dieno in sempiterno. L’una è la falsa ch’accusò Giuseppo; l’altr’è il falso Sinòn greco da Troia: per febbre aguta gittan tanto leppo”. E l’un  di lor, che si recò a noia forse d’esser nomato sì oscuro, col pugno li percosse l’epa croia. Quella sonò come fosse un tamburo; e mastro Adamo li percosse il volto col braccio suo, che non parve men duro, dicendo a lui: “Ancor che mi sia tolto lo muover per le membra che son gravi, ho io il braccio a tal mestiere sciolto”. Ond’ei rispuose: “Quando tu andavi al fuoco, non l’avei tu così presto: ma sì e più l’avei quando coniavi”. E l’idropico: “Tu di’ ver di questo: ma tu non fosti sì ver testimonio là ‘ve del ver fosti a troia richiesto”. “S’io dissi falso, e tu falsasti il conio” disse Sinone; “e son qui per un fallo, e tu per più ch’alcun altro demonio!”. “Ricordati, spergiuro del cavallo” rispuose quel ch’avea infiata l’epa; “e sieti reo che tutto il mondo sallo!”. “E te sia rea la sete onde ti criepa” disse ‘l greco “la lingua, e l’acqua marcia che ‘l ventre innanzi li occhi sì t’assiepa!”.

Allora il monetier: “Così si squarcia la bocca tua per tuo mal come sòle; chè s’i’ ho sete ed umor mi rinfarcia, tu hai l’arsura e ‘l capo che ti dole; e per leccar lo specchio di Narcisso, non vorresti a ‘nvitar molte parole”.

Ad ascoltarli er’ io del tutto fisso, quando ‘l maestro mi disse: “Or pur mira! Che per poco che teco non mi risso”.

Quand’io ‘l senti’ a me parlar con ira, volsimi verso lui con tal vergogna, ch’ancor per la memoria mi si gira. Qual è colui che suo dannaggio sogna, che sognando desidera sognare, sì quel ch’è, come non fosse, agogna, tal mi fec’io, non possendo parlare, che disiava scusarmi, e scusava me tuttavia, e nol mi credea fare. “Maggior difetto men vergogna lava” disse ‘l maestro, “che ‘l tuo non è stato; però d’ogne trestizia ti disgrava: e fa ragion ch’io ti sia sempre a lato, se più avvien che fortuna t’accoglia dove sien genti in simigliante piato; chè voler ciò udire è bassa voglia”: Io li ho trovati qui, quando sono precipitato in questa bolgia, e da allora non si sono mai mossi e credo che mai si muoveranno per l’eternità. L’una è la falsa, l’ingannatrice moglie di Putifarre che (vedendo che aveva resistito alle sue voglie) accusò Giuseppe di aver tentato di farle violenza; l’altro è l’ingannatore Sinone greco di Troia, ed emettono tanta puzza (dai loro corpi, come di cosa unta, di grasso che brucia) per la febbre troppo alta.

Uno di questi dannati, che non aveva gradito, se l’era presa a male forse per esser stato citato con tanto disprezzo, con parole infamanti, lo ha colpito, gli ha dato un pugno nella pancia gonfia e dura. Questa ha suonato come se fosse un tamburo; e maestro Adamo (a sua volta) lo ha colpito, gli ha dato, assestato un pugno sul volto, che non è sembrato meno duro (di quello di Sinone), dicendogli: Sebbene mi sia impedito di muovere le membra per la pesantezza del mio corpo (oppure: sebbene, benchè io abbia problemi a muovermi per il troppo peso), ho comunque il braccio libero, pronto per tale necessità (cioè per poter percuotere, per assestare pugni). E l’altro ha (malignamente) risposto: Quando andavi al rogo, sei stato messo al rogo, non l’hai avuto così pronto, svelto (perché avevi le mani legate…): hai avuto le mani così e anche di più pronte e svelte quando battevi false monete…

È ormai iniziato una singolar tenzone comico-realstica di bassa lega, con un triviale botta e risposta che Dante (che poi fingerà di farsi riprendere dalla Ragione, cioè da Virgilio) vuole mettere in risalto per mostrarci come quei dannati mantengono ferma la loro personalità, si confermano anche nell’Inferno quello che sono stati nel mondo dei vivi. Pertanto, l’idropico, cioè maestro Adamo, replica a Sinone dandogli dell’infame per l’inganno del Cavallo di Troia: Tu dici il vero in merito a questo, ma non sei stato un testimone veritiero, sincero, quando a Troia sei stato richiesto, chiamato (da Priamo) per dire la verità (sul cavallo di legno).

E Sinone, colpito nel segno, cerca di spararla grossa con un’accusa generica e grossolana: Se io ho detto il falso, tu hai falsato il conio delle monete, e (mentre io) sono qui per un solo peccato, tu ci sei invece per più di uno che ne abbia potuto commettere un (qualsiasi altro) demonio (cioè uno dei tanti dannati, persona diabolica, ma non, quindi, nel senso di diavolo).

Alla generica e debole accusa di aver commesso tanti altri peccati e frodi, maestro Adamo (quello che ha la pancia gonfia) ribatte ancora sull’infamia commessa con la falsa testimonianza sul Cavallo di Troia, falsità ancora più colpevole in quanto l’aveva fatta passare come verità, sotto giuramento: Ricordati spergiuro (che non sei altro), del(l’inganno del) cavallo (e cioè, che giurasti il falso), e ti sia amaro, doloroso, ti rechi tormento il fatto che tutto il mondo lo sa (cioè che sa questa verità, attraverso le opere di Omero e Virgilio).

E Sinone, non sapendo più cosa replicare a quella verità di così pubblico dominio, la butta nel plebeo più assoluto e nella risa sempre più di bassa lega, proprio come di bassa lega è stato lui in vita: E per te sia doloroso, ti rechi tormento la sete per cui ti si screpola la lingua, come pure ti rechi danno, ti sia amaro l’umore corrotto, mal trasformato che ti riempie così tanto il ventre da formare come una siepe (che ti impedisce di vedere davanti a te).

Ma il monetier, cioè il falsatore di monete, non è da meno nel maledire e augurare il male, nel controbattere alle triviali parole di Sinone e questa è la sua piccata risposta: (Se a me accade quello che dici) allo stesso modo, così la tua bocca si spalanca, a causa della tua malattia, per l’arsura che sgretola le labbra, la lingua e il palato come di solito accade (alcuni commentatori, anche il Sapegno, pensano che metaforicamente sia da tradurre così: si spalanca… per l’abitudine alla maldicenza, a sparlare, com’era solita fare già nel mondo); perché se io ho sete e l’umore corrotto mi rigonfia, mi riempie, tu (a te, invece, tocca di peggio…) hai l’arsura e il (continuo) mal di testa; e per (poter) bere l’acqua (lo specchio di Narcisso) non ti faresti pregare poi più di tanto, non avresti bisogno di molte parole per accogliere l’invito…

Il plebeo battibecco è terminato. Dante dice che: Io ero così preso, attento ad ascoltarli (perché affascinato e divertito da quel botta-e-risposta tra i due fraudolenti), quando, tutto a un tratto, Virgilio (con volto e tono severi) mi ha detto: (Bravo!) continua pure a guardare (il bello spettacolo)! Che ci manca poco che non vengo (anch’io) in rissa, in lite con te (come quei due).

Il severo ma benevolo rimprovero è così duro e così avvertito da Dante che: Quando l’ho sentito parlare con (tanta) ira, mi sono voltato verso di lui con un tal senso di vergogna, che ancora mi ritorna (con dispiacere) nella memoria, ci ripenso ancora (vergognandomene). Segue una similitudine: Come colui che sogna un pericolo, un danno per se stesso, e sognando desidera che quello sia solo un sogno (e null’altro) e desidera qualcosa che in effetti è, che è già realtà (e cioè che sogna veramente) ma ha l’impressione che così non sia, (ebbene) allo stesso modo, così, sono diventato io che, non riuscendo a parlare (per la troppa vergogna), ma che desideravo scusarmi (con lui) e, in effetti, mi stavo già scusando (stando a testa bassa e in silenzio, senza parole), e non credevo di fare questo (cioè di scusarmi senza parlare, col solo volto pieno di vergogna e di rossore, di chi si mostra contrito).

Virgilio replica con un’ulteriore lezione, rassicurandolo sul fatto che lui, la Ragione umana, l’alta Coscienza, non si allontanerà mai da lui, starà sempre al suo fianco, e che, se lo ha paternamente redarguito, l’ha fatto per il suo bene, cioè affinchè lui non si soffermi, non sprechi il proprio tempo e non si lasci affascinare e anche sviare da scene plebee messe in atto da uomini ancor più plebei, insomma, da legni storti, da uomini-feccia (e sembra ritornare l’iniziale richiamo del terzo canto-capitolo, cioè il non ragioniam di lor, ma guarda e passa): Una vergogna minore (di quella dimostrata da te) laverebbe, scuserebbe, perdonerebbe, cancellerebbe anche una colpa, una mancanza maggiore, ben più grave (della tua); perciò liberati da ogni rimorso, da ogni senso di colpa: fa’ conto, tieni presente che io ti sarò sempre vicino, sarò sempre al tuo fianco, se ancora dovesse accadere che la sorte, il caso ti faccia capitare, trovare dove ci sono persone, dannati in simile una zuffa, rissa, litigio simile (a quello a cui hai assistito prima, poco fa); perché voler ascoltare ciò (cioè cose del genere, come quelle) non è altro che basso desiderio, cosa da animo volgare (da chi si fa guidare dall’istinto e non dalla ragione). E tu – sottinteso – non sei un animo volgare, istintivo, ma un animo nobile, razionale, ed hai sempre lottato per elevarti e per allontanarti dalla volgare schiera.