Trebisacce-26/09/2023: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

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Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del canto XXXIII dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo.  Protagonisti sono ancora i traditori dannati per sempre nel fiume ghiacciato di Cocito.

 Il canto-capitolo XXXIII ovvero il canto del conte Ugolino. Siamo nella zona dell’Antenora e dei traditori della Patria o della parte politica. Invettiva di Dante contro Pisa vituperio delle genti del bel paese dove il sì sona. Poi, i due Poeti, proseguono e giungono nella terza zona: la Tolomea dove sono puniti i traditori dei commensali (o degli invitati o degli ospiti; dal nome del biblico Tolomeo, governatore di Gerico, che un giorno invitò a banchetto il suocero Simone con i figli di costui e li fece uccidere a tradimento; secondo alcuni, da Tolomeo, re d’Egitto, che favorì l’uccisione di Pompeo, che si era rifugiato presso di lui). Sono immersi supini nel ghiaccio fino al capo e non possono sfogare il loro dolore con il pianto perché le lacrime si gelano e accecano serrando gli occhi. Frate Alberigo e Branca Doria. Invettiva di Dante contro i Genovesi.

 Con efficace tecnica narrativa da romanzo, Dante (che qui raggiunge davvero il massimo delle sue capacità di narratore) riprende il racconto dell’incontro con il cannibalico conte Ugolino lasciato in sospeso proprio per creare, nel lettore, un clima da suspense, da tensione e da desiderio di conoscere le profonde ragioni che spingono Ugolino a rodere in eterno la testa, il cervello malato che aveva partorito la spietata e crudele idea di imprigionare il conte traditore e i suoi due figli e due nipoti, lasciandoli morire atrocemente di fame nella famosa Torre della fame. E il fatto che Ugolino mangia la testa dell’arcivescovo Ruggieri ci sembra un ulteriore contrappasso ad personam che Dante vuole infliggere a quest’ultimo per punirlo della sua ferocia: oltre alla pena e alla punizione del ghiaccio avrai, per l’eternità, anche quella di essere azzannato alla testa dal tuo nemico, tu che prima lo hai ingannato carpendo la sua fiducia e, poi, lo hai fatto morire di fame insieme a quattro giovanissimi, il più grande pare fosse di quindici anni o poco più.

Ma cosa aveva commesso di grave Ugolino? Il conte Ugolino era un personaggio importante e ben in vista. Figlio di Guelfo della Gherardesca, nato nella prima metà del ‘200, ebbe possedimenti e potere nella maremma di Pisa e in Sardegna. La sua famiglia era ghibellina ma egli parteggiò per i guelfi aiutandoli (insieme al genero Giovanni Visconti) ad impadronirsi (1274-75) della repubblica marinara di Pisa. L’impresa, però, fallì e, accusato come traditore, fu imprigionato e condannato all’esilio. Rientrò a Pisa nel ’76 con l’aiuto del nipote Nino Visconti; nell’84 ebbe il comando della flotta pisana contro Genova ma venne sconfitto nella Battaglia della Meloria. In seguito, per evitare la sconfitta di Pisa da parte della Lega composta da Genova, Lucca e Firenze, e per creare divisioni nella stessa Lega (e, alla fin fine, per evitare il peggio), cedette ai Lucchesi i castelli di Bientina, Ripafratta e Viareggio e ai Fiorentini quelli di Fucecchio, S. Maria in Monte, Castelfranco e Montecalvoli. Nel 1288 le famiglie ghibelline dei Gualandi, dei Sismondi e dei Lanfranchi, sotto la guida dell’arcivescovo Ruggieri, ebbero la meglio e, l’anno successivo, a Pisa fu eletto, come capitano di guerra, Guido da Montefeltro.

Dunque, se Dante punisce Ugolino nel Cocito per il tradimento del partito ghibellino, l’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini (nipote del cardinale Ottaviano, fu arcivescovo di Ravenna nel 1271 e poi di Pisa nel 1278) che avrebbe dovuto parteggiare per i guelfi e invece parteggiava per i ghibellini, viene condannato da Dante sia come vile traditore del conte, attirato a Pisa con l’inganno e fatto imprigionare per nove mesi e, soprattutto, per l’infamia di aver escogitato la crudele e feroce vendetta di far morire di fame Ugolino insieme a quattro innocenti ragazzi, lui che non era soltanto un uomo di potere ma un sacerdote, un uomo di chiesa che mai avrebbe dovuto scendere a un livello così basso di abiezione.

Da notare (ancora una volta) che al centro del romanzo della Commedia ci sono sempre i fatti della cronaca e della storia contemporanea a Dante, le lotte fratricide tra Guelfi e Ghibellini, Bianchi e Neri, le lotte per il potere tra Signorie, Principati e Comuni, tra italiani e italioti, che porteranno ai famigerati capitani di ventura e ai tradimenti e agli sporchi giochi di Potere (incentrati sul proprio particulare), con una lunga scia di sangue che aveva fatto inorridire Dante per via delle conseguenze e degli effetti da lui patiti e vissuti sulla propria pelle ma soprattutto vissute e patite dalle società di allora, tanto che, dopo Dante, anche Machiavelli sognerà (nel Principe) un’Italia unificata e senza più la presenza nefasta degli stranieri che se la contendono tenendola divisa e lacerata, con una parte degli italiani pronti al o Franza o Spagna, purchè se magna!… È come se sia Dante che Machiavelli abbiano detto e ci dicano tuttora, nelle loro opere immortali: povera patria! E l’uno sperava nel Veltro e l’altro in un principe virtuoso che liberassero il Paese dal marasma e dal caos politico-istituzionale e sociale in cui versavano, ma che non sarebbero mai arrivati… E sono sicuro che apprezzerebbero molto la canzone di Franco Battiato, appunto, Povera patria: Povera patria! Schiacciata dagli abusi del potere di gente infame, che non sa cos’è il pudore, si credono potenti e gli va bene quello che fanno e tutto gli appartiene. Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni! Questo paese è devastato dal dolore

Ma andiamo a sentire il drammatico, disperato e sconvolgente racconto del conte Ugolino, mai interrotto dall’attento Dante: La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a’ capelli del capo ch’elli avea di retro guasto. Poi cominciò: “Tu vuoi ch’io rinovelli disperato dolor che ‘l cor mi preme già pur pensando, pria ch’io ne favelli. Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch’i rodo, parlar e lagrimar vedrai inseme.

Io non so chi tu se’ né per che modo venuto se’ qua  giù; ma fiorentino mi sembri veramente quand’io todo. Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino, e questi è l’arcivescovo Ruggieri: or ti dirò perch’i son tal vicino. Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri, fidandomi in lui, io fossi preso e poscia morto, dir non è mestieri; però quel che non puoi aver inteso, ciò è come la morte mia fu cruda, udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso.

Breve pertugio dentro dalla muda la qual per me ha il titol della fame, e ‘n che conviene ancor ch’altrui si chiuda, m’avea mostrato per lo suo forame più lune già, quand’io feci ‘l mal sonno che del futuro mi squarciò ‘l velame.

Questi pareva a me maestro e donno, cacciando il lupo e’ lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno. Con cagne magre, studiose e conte Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi s’avea messi dinanzi dalla fronte. In picciol corso mi parìeno stanchi lo padre e’ figli, e con l’agute scane mi parea lor veder fender li fianchi. Quando fui desto innanzi la dimane, pianger senti’ fra ‘l sonno i miei figliuoli ch’eran con meco, e domandar del pane. Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli pensando ciò che ‘l mio cor s’annunziava; e se non piangi, di che pianger suoli?

Già eran desti, e l’ora s’appressava che ‘l cibo me solea essere addotto, e per suo sogno ciascun dubitava; e io senti’ chiavar l’uscio di sotto all’orribile torre; ond’io guardai nel viso a’ mie’ figliuoli sanza far motto. Io non piangea, sì dentro impetrai: piangean elli; e Anselmuccio mio disse: ‘Tu guardi sì, padre! che hai?’. Perciò non lacrimai né rispuos’io tutto quel giorno né la notte appresso, infin che l’altro sol nel mondo uscìo.

Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere, e io scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso, ambo le man per lo dolor mi morsi; ed ei, pensando ch’i’ ‘l fessi per voglia di manicar, di subito levorsi e disser: ‘Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, e tu ne spoglia’. Queta ‘mi allor per non farli più tristi; lo dì e l’altro stemmo tutti muti; ahi dura terra, perché non t’apristi?

Poscia che fummo al quarto dì venuti, Gaddo mi si gettò disteso a’ piedi, dicendo: ‘Padre mio, chè non m’aiuti?’. Quivi morì; e come tu mi vedi, vid’io cascar li tre ad uno ad uno tra ‘l quinto dì e ‘l sesto; ond’io mi diedi, già cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due dì li chiamai, poi che fur morti: poscia, più che ‘l dolor potè ‘l digiuno”.

Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti riprese ‘l teschio misero co’ denti, che furo all’osso, come d’un can, forti: Quel peccatore (ha smesso di rodere il teschio del nemico mortale e) ha sollevato la bocca dal pasto feroce, crudele, orribile, pulendola con i capelli della testa che aveva guastato rodendolo alla nuca. Poi ha cominciato (a parlare): Tu vuoi che io rinverdisca, che rinnovi un dolore disperato che opprime, tormenta il mio cuore già solo a pensarci, prima ancora di parlarne. Ma se le mie parole (il mio racconto) possono essere causa, motivo per far aumentare, per rendere maggiore  (e più duratura) l’infamia del traditore che io rodo, (allora) vedrai (un uomo) parlare e piangere allo stesso tempo.

Io non so chi tu sia né in che modo (da vivo) sei giunto quaggiù (nell’Inferno) ma, nell’ascoltarti, mi pare che tu sia fiorentino (e, quindi, a conoscenza delle vicende toscane).

Tu devi sapere che io fui il conte Ugolino e questi è (è tuttora quella bestia che è sempre stata sulla Terra, sembra voler dire Ugolino) l’arcivescovo Ruggieri, ora ti spiegherò perché io sono un tale vicino, così feroce con lui. E non occorre, non c’è bisogno di raccontare (tanto i fatti sono conosciuti) che, in conseguenza dei suoi malvagi pensieri, dei suoi disegni di tradimento, di inganno, essendomi io fidato di lui, sono stato prima imprigionato e poi fatto morire; però, in merito a quello che non puoi aver saputo (perché non è noto a tutti), e cioè come la mia morte è stata crudele, feroce, disumana, ora sentirai e potrai dire se egli mi ha offeso o meno (e se il mio risentimento e il mio odio siano fondati, giusti o meno).

Una stretta feritoia, finestrella dentro la torre dei Gualandi che, dopo il mio caso è stata chiamata torre della fame, e nella quale altri ancora saranno certamente rinchiusi, mi aveva mostrato, attraverso il suo buco, la sua fessura che erano passati più mesi (dal luglio 1288 al marzo 1289), da quando io avevo fatto il brutto, terribile sogno (premonitore), che mi svelò quello che sarebbe accaduto (di orribile) in futuro.

Questi (cioè l’arcivescovo Ruggieri) mi appariva (nel sogno) come capo, guida e signore di una battuta di caccia, per dare la caccia al lupo (Ugolino visto come uomo pericoloso) e ai lupicini, lupacchiotti (cioè lui e i suoi figli, da eliminare perché, magari, in futuro, avrebbero potuto essere ancora più pericolosi di Ugolino) sul monte Pisano (San Giuliano), a causa del quale Pisa non riesce a vedere Lucca (perché ne impedisce la vista). (Egli, come a volersi nascondere, per non apparire il responsabile principale di quella caccia spietata) aveva collocato davanti a sé, a capo della comitiva, cagne affamate, sollecite alla preda e ben ammaestrate (ovvero il popolo minuto), insieme alla famiglie ghibelline dei Gualandi, dei Sismondi e dei Lanfranchi. Dopo una breve corsa, il padre e i figli (lupo e lupicini) mi apparivano stanchi e mi sembrava di vedere che le zanne aguzze (dei cani) laceravano i loro fianchi, le loro carni.

Quando mi sono svegliato, prima del mattino (e i sogni di prima mattina si avverano…), ho sentito piangere i miei figlioli (chiama così figli e nipoti: Gaddo, Uguccione, Nino, detto il Brigata, e Anselmuccio), che erano (prigionieri nella torre) con me, mentre dormivano, e chiedevano del pane, chiedevano da mangiare. (Tu che mi ascolti) sei davvero crudele se non ti commuovi, pensando a quello che il mio animo presagiva, annunciava a se stesso (il sogno che diventava realtà): e se non piangi (per quel che ti sto raccontando), per quali cose sei solito piangere, cosa ti porta a piangere, cos’è che ti fa piangere? (A Ugolino sembra che Dante non si sia mostrato scosso e commosso da quel racconto più di tanto, ma Dante non resta indifferente e si commuove eccome! Anzi, diventa furioso, oltre che sconvolto e turbatissimo, quando il conte finisce di narrare la sua tristissima  e straziante vicenda. Per il momento, lo sta solo ascoltando attentamente, fin nei minimi particolari).

Erano già svegli e si avvicinava l’ora in cui di solito ci portavano il cibo e ciascuno di noi temeva per il (brutto) sogno (appena) fatto (che sarebbe accaduto qualcosa di terribile); io ho sentito inchiodare la porta (principale) della prigione che sta sotto all’orribile torre (e fa da entrata); per cui io ho guardato nel viso dei miei figliuoli senza dir nulla (in silenzio, un silenzio che parla da solo, che dice che il loro destino di morte orribile e crudelissima è ormai segnato). Io non piangevo, tanto, a tal punto mi ero, dentro di me, come pietrificato (del resto, non può piangere anche perché deve mostrarsi forte di fronte a quei ragazzi per sostenerli in quella cattiva sorte): piangevano loro; e il mio Anselmuccio ha detto: Tu, padre, ci guardi in tale maniera (diversa dal solito, cioè, sei così pensieroso, preoccupato, angosciato)! Cos’hai, cosa c’è? (Anselmuccio ha letto nel volto del padre la disperazione, che è soprattutto disperazione terribile per la morte atroce che dovranno fare quegli adolescenti, che hanno solo la colpa di appartenere a lui). Ugolino si è chiuso in un dolore atrocemente muto: Per questo non ho pianto né ho risposto per tutto il giorno e neppure la notte successiva, fino al sorgere di un nuovo giorno, fino al mattino seguente.

Non appena un raggio di sole è entrato nel terribile, angosciante carcere, io ho visto attraverso quei quattro volti (come in uno specchio) il mio stesso aspetto (con i segni della sofferenza, della fame, della disperazione e del terrore), (e così) per la rabbia (impotente e per la disperazione) ho preso a morsi entrambe le mani; e loro, pensando che io avessi fatto quel gesto per voglia, desidederio di mangiare, subito si sono alzati in piedi e hanno detto: Padre, ci sarà molto meno doloroso se tu mangerai della nostra carne, se ti ciberai di noi: tu ci hai dato la vita e queste misere carni e tu spogliacene, riprenditele.

È commovente sentire che quei ragazzi si offrono come cibo per il proprio padre. Certo, vorrebbero anche porre, al più presto, fine al loro supplizio, ma resta nella mente quel generoso gesto e lo spirito di sacrificio di quei giovanissimi. Gesto di fronte al quale Ugolino capisce che deve riprendere il self control, il controllo di se stesso, dei propri nervi la cui saldezza è messa continuamente in forse dal pensiero, dall’incubo della morte terribile per fame (e probabilmente anche per sete) per lui ma soprattutto per quegli innocenti e pertanto: Mi sono perciò calmato (si era sforzato, cioè, di apparire calmo, perché un gesto o una parola potevano essere fraintesi) per non renderli ancora più tristi (e per tranquillizzarli); quel giorno (il secondo dopo che la porta era stata ben chiusa con i chiodi) e il successivo siamo stati tutti in silenzio; ahi, terra crudele, perché non ti sei spalancata (con un cataclisma che ci inghiottisse tutti, ponendo fine a un tale strazio)? (Magari un terremoto o qualcosa di simile avrebbe potuto porre fine a un supplizio terribile e ad una morte atroce, ma le forze della natura, pur invocate, non hanno ascoltato la preghiera di Ugolino e così): Dopo essere giunti al quarto giorno, Gaddo (il più grande) si è gettato disteso ai miei piedi, dicendomi: Padre mio, perché non mi aiuti? (La sua invocazione ha un sapore biblico e ci fa ricordare, infatti, quella del Cristo sulla croce che dice a Dio: Padre mio, perché mi hai abbandonato?). (Gaddo) è morto proprio vicino ai miei piedi (quivi morì); e come è vero che tu mi vedi, così io ho visto gli altri tre crollare, cadere morti per terra uno dopo l’altro, tra il quinto e il sesto giorno; per cui io, sfinito, esausto, cieco per l’ira, il dolore e la fame, ho provato a cercarli a tentoni (per vedere dove erano i loro corpi e per poter dare loro una carezza prima di morire), e per due giorni li ho chiamati (nome per nome), dopo che erano morti: poi, alla fine, più che il dolore, ha potuto il digiuno, la fame (e sono morto anch’io, e non: mi sono messo a mangiare la loro carne, come per tanto tempo e in tanti hanno creduto e, quindi, la tesi della tecnofagia di Ugolino è priva di ogni fondamento!…).

Il drammatico, terribile e sconvolgente racconto-urlo, racconto-grido-di-dolore del conte Ugolino sul disumano e incivile crimine commesso dall’arvivescovo Ruggieri è terminato: Dopo aver detto queste parole, con gli occhi biechi e torvi (pieni di odio e di furore vendicativo) ha ripreso a rodere il miserevole, infelice cranio, teschio con i denti che erano, sembravano, nell’addentare l’osso, forti come quelli di un cane.

Dante è sconvolto, quell’orribile storia di un padre che, impotente, è condannato dalla malvagità di un uomo-feccia a veder morire di fame il proprio giovanissimo e innocente sangue, non lo ha fatto restare indifferente come potrebbe sembrare e, invece, lo ha commosso e impressionato, facendolo riflettere, ancora una volta, sulla tragedia toscana, e italiana in genere, delle conseguenze e ripercussioni funeste, negative scaturite dall’odio di parte, dalle lotte tra le varie fazioni, l’una contro l’altra armata, generatrici di guerre civili, stragi, delitti e crimini orribili e inenarrabili. E contro questa disumanità, contro la violenza della Storia e del mondo operata non da esseri metafisici ma da uomini in carne ed ossa, appartenenti ai ceti sociali più alti e, insomma, alle classi dirigenti capaci di tanto Male (e, direbbe Gramsci, anche tanto capaci di sovversivismo), Dante (che sembra farsi quasi il portavoce dell’immenso dolore di Ugolino e del suo urlo disperato)  lancia la sua ennesima invettiva, che è un’invettiva-anatema (da Antico Testamento) che auspica una provocatoria, metaforica sorta di finemondo per la sola Pisa (avendo, Dante, nella mente che, nella condanna che lo riguardava, erano coinvolti anche i suoi figli che, pertanto, avrebbero potuto avere un destino amaro, simile a quello dei ragazzi di Ugolino): Ahi, Pisa, vituperio delle genti del bel paese là dove ‘l sì sona, poi che i vicini a te punir son lenti, muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, sì ch’elli annieghi in te ogni persona! Chè se ‘l conte Ugolino aveva voce d’aver tradita te delle castella, non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. Innocenti favea l’età novella, novella Tebe, Uguiccione e ‘l Brigata e li altri due che ‘l canto suso appella: Ahi Pisa, disonore, vergogna dei popoli dell’Italia, il bel paese dove si parla la lingua del (cioè l’italiano, dove l’affermazione positiva viene espressa con la particella ), poiché i tuoi vicini Fiorentini e Lucchesi sono lenti a punirti, si muovano le due isolette, la Caprara e la Gorgona (di fronte al Tirreno, vicino all’Arno) e facciano da argine, diga all’Arno sulla foce, in modo che esso allaghi Pisa e che possa sommergere, ingoiare, annegare tutti i suoi abitanti! Perché se il conte Ugolino aveva fama di aver tradito Pisa per i castelli (ceduti al nemico con l’obiettivo di creare divisioni nella Lega e per salvare la stessa Pisa; ma, per Dante, era colpevole piuttosto per aver tradito il partito ghibellino), non avresti dovuto porre a un supplizio, a un martirio (così feroce) i ragazzi. (Perché) la giovane età li rendeva innocenti, (o cara Pisa, che sei come una) novella, nuova Tebe (famosa per i crudeli delitti della stirpe di Cadmo; inoltre, la leggenda vuole che Pisa sia stata fondata da Pelope, figlio di Tantalo, re di Tebe): Uguccione e Nino, detto il Brigata, e gli altri due che il canto più sopra ricorda (cita, nomina). (A noi, più o meno attenti lettori, restano solo due dubbi: 1) Ugolino ha detto tutta la verità?: tra i giovani c’era forse qualcuno un po’ più adulto e già con qualche responsabilità politica?; 2) Dante ha dato troppo, eccessivo credito al racconto di Ugolino, facendolo assurgere a verità dei fatti? Può darsi che la verità sia quella di Ugolino, forse eccessivamente romanzata, per poter lanciare, alla fine, l’ennesimo strale contro le città toscane e italiane in genere, divise e lacerate dalle lotte politiche che generavano solo guerre, sangue, distruzione, morte, violenze e dolore.

Quindi i due Poeti continuano il loro cammino e giungono alla terza zona (il passaggio avviene rapidamente), quella della Tolomea e spiega la condizione di questi dannati, mentre Virgilio dice a Dante (che gliel’ha chiesto) che il vento che già avverte in quella parte lo avvertirà, tra non molto, ancora di più in un’altra (ciòè nella Giudecca) e comprenderà meglio di cosa si tratta (cioè del vento prodotto dal battere eterno delle ali di Lucifero che, pertanto, mantengono quegli orribili luoghi sempre ben gelati). Intanto, un uomo-feccia, immerso nella sua buca ghiacciata, si rivolge verso di loro gridando: è frate Alberigo di Ugolino dei Manfredi, grande traditore dei parenti che si fidarono di lui e caddero nella sua trappola mortale a loro fraudolentemente tesa, poi, passata alla storia con la celebre espressione: Vengano le frutta! Il frate, gaudente, era uno dei capi del partito guelfo di Faenza; venuto in discordia con alcuni parenti (Manfredo e Alberghetto) li attirò, in seguito, con un inganno, nella sua villa di Cesate per un pranzo rappacificatore; però, egli aveva ordinato ai suoi familiari e uomini di fiducia, che al momento di portare la frutta in tavola (Vengano le frutta! era, appunto, la parola d’ordine, la frase in codice), brandissero i pugnali e le spade per uccidere senza pietà gli invitati. Era il 2 maggio del 1285. Da quel terribile episodio di sangue (spiega il Buti, antico commentatore di Dante) è poi venuto il detto, il proverbio: Elli ebbe delle frutta di frate Alberigo (e poi il famoso vengano le frutta!): Noi passammo oltre, là ‘ve la gelata ruvidamente un’altra gente fascia, non volta in giù, ma tutta riversata. Lo pianto stesso lì pianger non lascia, e ‘l duol che truova in su li occhi rintoppo, si volge in entro a far crescer l’ambascia; che le lagrime prime fanno groppo, e sì come visiere di cristallo, riempion sotto il ciglio tutto il coppo. E avvegna che sì come d’un callo, per la freddura ciascun sentimento cessato avesse del mio viso stallo, già mi parea sentir alquanto vento: per ch’io: “Maestro mio, questo chi move? Non è qua più ogni vapore spento? Ed elli a me: “Avaccio sarai dove di ciò ti farà l’occhio la risposta, veggendo la cagion che ‘l fiato piove”.

E un de’ tristi della fredda crosta gridò a noi: “O anime crudeli, tanto che dato v’è l’ultima posta, levatemi dal viso i duri veli, sì ch’io sfoghi ‘l duol che ‘l cor m’impregna, un poco, pria che ‘l pianto si raggeli”. Per ch’io a lui: “Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna, dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo, al fondo della ghiaccia ir mi convegna”. Rispuose adunque: “I’ son frate Alberigo, io son quel dalle frutta del mal orto, che qui riprendo dattero per figo”. “Oh!”, diss’io lui, “or se’ tu ancor morto?”: Ed elli a me: “Come ‘l mio corpo stea nel mondo su, nulla scienza porto. Cotal vantaggio ha questa Tolomea, che spesse volte l’anima ci cade innanzi ch’Atropòs mossa le dea. E perché tu più volentier mi rade le ‘nvetriate lacrime dal volto, sappie che tosto che l’anima trade come fec’io, il corpo suo l’è tolto da un demonio, che poscia il governa mentre che ‘l tempo suo tutto sia vòlto. Ella ruina in sì fatta cisterna; e forse pare ancor lo corpo suso dell’ombra che di qua dietro mi verna. Tu ‘l dei saper, se tu vien pur mo giuso: elli è ser Branca d’Oria, e son più anni poscia passati ch’el fu sì racchiuso”.

“Io credo” diss’io lui “che tu m’inganni; chè Branca d’Oria non morì unquanque, e mangia e bee e dorme e veste panni”. “Nel fosso su” diss’el “de’ Malebranche, là dove bolle la tenace pece, non era giunto ancora Michel Zanche che questi lasciò il diavolo in sua vece nel corpo suo, ed un suo prossimano che ‘l tradimento insieme con lui fece. Ma distendi oggimai in qua la mano; aprimi li occhi”. E io non glieli apersi; e cortesia fu lui esser villano: Noi abbiamo ripreso il nostro cammino e siamo passati oltre, più in là (nella terza zona della Tolomea) dove la ghiacciaia, la crosta, lo spessore di ghiaccio aspramente, crudelmente imprigiona, copre, rinserra un’altra categoria di traditori: quelli degli ospiti (che si sono fidati), e stanno non (come quelli di prima) con il volto verso il basso (e in posizione verticale) ma completamente distesi supini, con il viso all’insù, in alto. Il pianto stesso non permette, non consente loro di piangere (glielo impedisce perché le lacrime si congelano), e il dolore, il pianto che trova ostacolo, impedimento sugli occhi (non trovando sfogo), si chiude (più dolorosamente) dentro l’anima, dentro il cuore (del dannato) facendo aumentare il tormento (e la pena); poiché (oppure: e questo avviene perché) le prime lacrime (di rapprendono, si congelano) formando un grumo, un nodo (e quindi un ostacolo) e similmente a una visiera di cristallo, di vetro ricoprono tutta la cavità delle occhiaie (cioè tutta la zona degli occhi). E sebbene, il mio viso, per il troppo freddo, abbia perso la sua sensibilità proprio come succede per una parte callosa  (ogni sensibilità avesse cessato stallo…: avesse smesso di dimorare, di permanere sul mio volto), mi è parso già di avvertire abbastanza vento (è prodotto dal batter delle grandi ali di Lucifero), per cui ho chiesto a Virgilio: Maestro mio, questo vento da cosa è prodotto? Non si dice che qui (nell’Inferno) non c’è vento, non c’è alcun vapore (visto che non c’è il Sole)? E Virgilio (mi ha risoposto così): Fra poco (fra non molto, presto), di questo avrai la risposta, saprai con i tuoi stessi occhi perché potrai vedere la causa, cioè da cosa è prodotto questo vento. (Però, la bufera infernal che mai non resta del V canto-capitolo era stata visto da Dante come la giusta punizione voluta da Dio e, quindi, nel cerchio dei lussuriosi il problema del vento non si poneva).

E (intanto) uno dei malvagi della crosta ghiacciata, si è rivolto a noi gridando; O anime dannate (li scambia per peccatori), tanto che vi è stata assegnata l’ultima zona dell’Inferno (cioè la Giudecca), toglietemi dal viso le lacrime gelate (che formano delle croste che velano gli occhi), in modo che io possa sfogare un po’ il dolore che mi riempie, mi gonfia il cuore, prima che le (nuove) lacrime si raggelino. Per cui io gli ho detto: Se vuoi che ti aiuti, dimmi chi sei, e se io non ti libero (dalle lacrime gelate), che io sia costretto, possa io scendere, finire nel fondo della ghiacciaia, al fondo di Cocito. (Si tratta di una promessa da marinaio: Dante inganna il dannato, sa che andrà nelle profondità del Cocito ma non per restarvi e, inoltre, può benissimo mentirgli perché non si sente moralmente vincolato a una promessa fatta a un uomo-feccia che non merita altro che il suo disprezzo).

Allora (il dannato c’è cascato!…) ha risposto: Io sono frate Alberigo, io sono quello  (famoso…) della frutta cresciuta nell’orto del Male, che qui ricevo datteri (frutto più pregiato e più raro) in cambio dei fichi  (mi viene reso pan per focaccia, cioè: son ben ripagato per il male che ho fatto).

Io gli ho detto (finge di non sapere): Oh, sei già morto? E lui: Come il mio corpo stia su nel mondo, io non ne so nulla. Questa (zona della) Tolomea ha questa prerogativa, privilegio, caratteristica, particolarità (e cioè) che non sempre (e non per tutti) l’anima vi precipita, vi cade dentro prima che Atropo (una delle Parche) le dia la spinta (per uscire dal corpo, recidendo il filo della vita), cioè prima di morire. E affinchè tu più volentieri mi tolga le lacrime di vetro, raggelate dal volto (c’è captatio benevolentiae da parte del dannato), sappi che (devi sapere che) non appena l’anima ha tradito, commette il tradimento come ho fatto io (questa è l’invenzione, la teoria dantesca su come l’anima di chi tradisce finisce poi nel Cocito), le viene sottratto il corpo da un demonio, che poi se ne impossessa (il diavolo in corpo…), lo amministra, lo tiene in vita fino a quando compie tutto il suo tempo sulla Terra, cioè finchè non muore. L’anima precipita in questo orribile pozzo ghiacciato; e forse sulla Terra appare, si vede ancora il corpo dell’anima che qui dietro, vicino a me, passa, trascorre (l’eterno) inverno (per altri anche, e suona ironico: canta come l’uccello in primavera). Tu dovresti saperlo, se è solo da poco, solo ora che sei venuto qui giù: è messer Branca Doria, e sono già passati parecchi, vari anni che è confitto, rinchiuso nel ghiaccio.

Dante (che finge meraviglia e di essere ingannato) gli risponde che: Io credo che tu mi inganni; perché Branca Doria non è ancora morto, e (anzi) mangia e beve e dorme e si veste (come tutti gli altri vivi: insomma: è vivo e vegeto!).

Branca d’Oria o Doria, della famosa e nobile famiglia ghibellina di Genova, aveva invitato ingannevolmente il proprio suocero Michele Zanche (già incontrato tra i barattieri) e altre persone amiche a banchetto e, con la complicità di un nipote, lo fece orribilmente uccidere (fatto a pezzi!) insieme agli altri (1275 o 1290). In tal modo si sarebbe potuto impossessare del giudicato di Logudoro, in Sardegna. Il Doria nel 1325 risultava ancora in vita.

Frate Alberigo, proseguendo con le sue informazioni in merito alla morte di Branca Doria, credendo di risultare credibile e pertanto meritevole di essere liberato dalla crosta di ghiaccio che gli opprime gli occhi, replica così a Dante:  Nella bolgia dei barattieri, quella dei diavoli Malebranche, dove bolle la pece vischiosa, appiccicosa, Michele Zanche non era ancora arrivato lì che questi (cioè Branca Doria) ha lasciato un diavolo ad occupare, al posto suo, il proprio corpo (cioè: l’anima è qui, il corpo è nel mondo occupato, posseduto da un diavolo), e la stessa sorte ha avuto, e la stessa cosa è accaduta a un suo parente (il nipote) che ha commesso insieme a lui il (terribile) tradimento. Ma ormai distendi, allunga verso di me la tua mano; liberami gli occhi (dal ghiaccio).

Dante, però, con questo mal nato è rigidissimo, è decisamente intransigente: Io non glieli ho aperti, ed è stata una cortesia aver agito con lui da villano. (Se gli avesse usato la cortesia di un momento di respiro, sarebbe stata un’offesa alla Giustizia divina e questa sì una vera villania contro Dio!… Tanto il dannato è di così infima moralità e colpevole di gravissimo peccato e, dunque, ben ha fatto a non tener fede alla promessa di levargli le croste di ghiaccio qualora gli avesse rivelato il suo nome).

Segue, nel finale, un’altra dura invettiva, questa volta contro i Genovesi e Genova, l’altra potente Repubblica marinara: Ahi Genovesi, uomini diversi d’ogne costume e pien d’ogni magagna, perché non siete voi del mondo spersi? Chè col peggiore spirto di Romagna trovai di voi un tal, che per sua opra in anima in Cocito già si bagna, ed in corpo par vivo ancor di sopra: Ahi, Genovesi, uomini alieni, lontani da ogni civile costume e pieni di ogni vizio, perché non siete sterminati, cancellati dal mondo, dalla faccia della Terra? Poiché con la peggiore anima (il peggior uomo-feccia) della Romagna (frate Alberigo), ho trovato di voi un tale (Branca Doria) che per il suo malvagio operare, per il suo misfatto, con l’anima si trova già immerso nella  ghiacciaia del Cocito, e con il corpo sembra ancora vivo lassù nel mondo.

Dopo l’invettiva-anatema-grido-di-dolore contro Pisa vergogna d’Italia, il canto-capitolo si chiude con l’invettiva-anatema e cioè con un’altra polemica maledizione, anch’essa da Antico Testamento, contro Genova e i Genovesi, meritevoli, come i Pisani, di scomparire dalla faccia della Terra. Ma possibile che Dante, uomo e poeta di grandissima umanità e di altissimo livello morale e culturale possa volere e desiderare che tutti i Pisani e tutti i Genovesi, anche tutti quelli buoni, siano estirpati ed elimanati per sempre dal consorzio umano? La risposta è, naturalmente, no. Dante scrive quelle cose in un momento di estremo risentimento, di estrema ira e indignazione contro coloro che hanno fatto il Male con ferocia e crudeltà inaudita e, pertanto, nel lanciare l’anatema, non può dire: possano essere sterminati solo i malvagi, gli uomini-feccia… Anche Italo Svevo, ne La coscienza di Zeno, alla fine, scrive che per salvare il mondo e per la salute dell’uomo moderno malato e nevrotico, occorrerebbe una grande deflagrazione che lo facesse saltare, che lo distruggesse per poi rifare tutto daccapo… Sia quella di Svevo che di Dante sono delle provocazioni letterarie da non prendere alla lettera. La verità è che Dante non ce l’aveva con tutti i Pisani o tutti i Genovesi: la sua durissima polemica, sparsa per tutti i canti della Commedia e nell’Inferno in modo particolare, è sempre rivolta nei confronti dei ceti altolocati, contro gli uomini di Potere, quelli delle classi dirigenti, dell’establishment sia del livello politico che ecclesiastico (che era anche politico, visto l’enorme potere che la Chiesa ha avuto tra Medioevo ed Età Moderna), sia del livello sociale ed economico. Classi dirigenti che erano capaci di tutto, anche dei peggiori delitti, anche delle peggiori stragi (anche in questo, nei secoli, non è cambiato nulla…) pur di raggiungere i loro poco edificanti fini e obiettivi. Dante ce l’ha a morte con gli uomini-feccia prodotti dalle élites dominanti, dai potentati, dai poteri forti (come li chiamiamo oggi), dalle lobbies e, insomma, da quelli prodotti, scaturiti dal livello del Potere che, in ultima sintesi, si esprime nella categoria del politico, che è il livello, il momento che, nell’operare, nel gestire la cosa pubblica  più può condizionare la vita di una collettività come di un singolo individuo in bene o in male. Diceva Thomas Mann che nel nostro tempo, il destino dell’uomo assume il suo significato in termini politici e questo Dante lo comprendeva perfettamente e ce lo fa comprendere benissimo anche a noi. Con la sua smisurata intelligenza riusciva a vedere da vicino e anche e soprattutto molto lontano e, dunque, comprendeva e aveva piena consapevolezza della corruzione, della degenerazione, dei grandi guasti, delle devastazioni, nella vita sociale e in quella degli individui, che provocavano gli odi di parte, le lotte fratricide tra Comuni, Principati e Signorie, Guelfi e Ghibellini, Bianchi e Neri: lotte incentrate su quello che Francesco Guicciardini avrebbe chiamato il proprio particulare. E, in questa logica perversa, la Chiesa, il Papato c’era dentro fino al collo e, infatti, Dante punta spesso il dito contro gli uomini di chiesa assetati di Potere e di denaro, di ricchezze né più e né meno degli uomini politici e dei loro partiti.