Trebisacce-26/11/2023: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo qui di seguito l’analisi del primo canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo nel 2022.  Protagonista è il leggendario Marco Porcio Catone detto l’Uticense che, per difendere le libertà repubblicane di Roma, si uccise con la propria spada. Dante ne fa il guardiano del Purgatorio e il simbolo assoluto della libertà, per la quale si può anche rinunciare alla vita.

La Moglie

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo qui di seguito l’analisi del primo canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo nel 2022.  Protagonista è il leggendario Marco Porcio Catone detto l’Uticense che, per difendere le libertà repubblicane di Roma, si uccise con la propria spada. Dante ne fa il guardiano del Purgatorio e il simbolo assoluto della libertà, per la quale si può anche rinunciare alla vita.

 Il canto-capitolo I ovvero il canto di Dante-Catone-Uticense e dell’inno alla libertà  (nell’accezione più sublime della parola). Un vero e proprio manifesto, una vera e propria dichiarazione di poetica, di Weltanschauung, di visione e concezione globale della vita e del mondo. Spiaggia dell’Antipurgatorio. L’invocazione alle Muse. Le quattro stelle, ovvero le quattro virtù cardinali. Virgilio (con eccessiva riverenza e captatio benevolentiae) parla con Catone e chiede di far proseguire il viaggio a Dante, viaggio che, se è voluto da Dio, non può avere ostacoli. Primo rito (simbolico) di purificazione per Dante, sulla spiaggia dell’Antipurgatorio: il volto pieno della caligine infernale lavato con rugiada e poi giunco (simbolo di umiltà) intorno ai fianchi. (Tutto si svolge all’alba della domenica di Pasqua, tra le ore 4 e le ore 5 del 10 aprile 1300).

 Dopo tanto Male, dopo tanto dolore, dopo tanta perdizione e abiezione; dopo averne viste tante nel cieco mondo dell’Inferno, dopo aver scrutato e investigato a fondo, esplorato a 360° gli abissi del cuore e della mente di quel legno storto che è l’uomo quando non si fa guidare dal lume della Ragione e sorreggere dalla luce della Fede, ora il Poeta, l’io narrante di questo straordinario e folle viaggio nel Regno dei Morti (follia voluta da Dio, sorretta dalla Grazia divina) ora può lasciarsi alle spalle il mar sì crudele del mondo senza luce e (per citare Joseph Conrad) del cuore di tenebra dell’uomo e, con la navicella del proprio ingegno (della cui grandezza Dante conferma, ancora una volta, di essere ben consapevole), navigare per un mondo migliore, correre e percorrere migliori acque e, dunque, alzare le vele per meglio proseguire nel folle-viaggio-volo fino al vero e proprio assalto al Cielo, fino a giungere a vedere e toccare Dio, che è Sommo Bene, immenso Amore, immensa Luce, Luce di beatitudine.

Dunque, il viaggio di Dante, uomo senza valigia che è appena uscito dal cuore della notte della malvagità umana, prosegue senza sosta. Dopo il fuoco delle sofferenze e delle durissime pene infernali siamo al fuoco della penitenza, dell’espiazione, della purificazione, della catarsi, della speranza, della possibilità del rinnovamento, della palingenesi, del riscatto, della riabilitazione, della possibilità di risorgere, della resurrezione morale e spirituale, della liberazione dal peccato, della possibilità di salvarsi, di poter raggiungere la virtù e approdare – in vario modo e per vari gradi – alla luce di Dio e alla beatitudine che regna nel Paradiso, dove diverse voci fanno dolci note; così diversi scanni in nostra vita rendon dolce armonia tra queste rote (Paradiso, VI).

Secondo il grande medievalista Jacques Le Goff il Purgatorio è stata un’invenzione medievale, qualcosa che non esisteva e che gli uomini della Chiesa hanno, sostanzialmente, messo in piedi nella seconda metà del XII secolo, anche per aumentare il proprio potere sulle coscienze e il proprio denaro, per fare commercio delle indulgenze e, insomma, denaro in cambio della possibilità di potersi purificare e passare, quindi, a miglior vita spirituale. In una intervista concessa al quotidiano La Repubblica (L’invenzione del Purgatorio, 27 settembre 2005), il grande storico diceva alcune interessanti cose che ci sembra opportuno riportare: (…) È convinzione diffusa che il Purgatorio sia sempre esistito, ma non è affatto così. Esso ha preso forma nella seconda metà del XII secolo. In precedenza, pensando all’ aldilà, gli uomini immaginavano solo due luoghi antagonisti, l’ Inferno e il Paradiso. A poco a poco, ha poi iniziato a delinearsi una realtà intermedia, la cui funzione era quella di consentire la purificazione delle anime prima dell’ingresso nel Paradiso. Il Purgatorio, quindi, non è nato all’improvviso e già definito nelle sue caratteristiche. È piuttosto il risultato di una lenta e progressiva maturazione legata a un insieme di cambiamenti intervenuti nelle credenze e nei comportamenti degli uomini del Medioevo. Fin dalle origini, il cristianesimo aveva immaginato la possibilità  che le anime potessero liberarsi dai peccati rimasti dopo la morte. Nel VII secolo s’inizia a parlare di “fuoco purgatorio” e di “pene purgatorie”, ma fino a metà del  XII secolo il luogo dove le anime si purificano resta indefinito. La grande novità introdotta dal Purgatorio è la definizione di un luogo unico, preciso e riconoscibile. (…)

La nascita del Purgatorio modifica la giurisdizione esercitata sui morti, favorendo la pratica delle indulgenze. Secondo la dottrina tradizionale, gli uomini da vivi rispondevano al tribunale della chiesa, una volta morti però erano giudicati solamente dal tribunale di Dio. Con il Purgatorio si crea una sorta di tribunale comune in cui intervengono sia Dio che la chiesa. Le anime che vi transitano, infatti, continuano a dipendere da Dio, ma beneficiano anche dell’ azione della chiesa che distribuisce le indulgenze. Il Purgatorio, dunque, ha rinforzato il potere della struttura ecclesiastica, che così, oltre che dei vivi, è responsabile in parte anche dei morti. Una situazione che la Riforma protestante ha in seguito fermamente condannato. Per gli uomini del Medioevo però l’esistenza del Purgatorio accresceva le speranze di salvezza, dato che non tutto era definitivamente stabilito al momento della morte. Perfino per gli usurai, che fino ad allora erano irrimediabilmente condannati all’Inferno, inizia a profilarsi un aldilà meno cupo. Naturalmente vivere con tale speranza modifica radicalmente la prospettiva della vita quotidiana. (…)

Il passaggio da un aldilà caratterizzato da due luoghi antagonisti, Inferno e Paradiso, a un aldilà articolato in tre regni va messo in parallelo con l’ arretramento del manicheismo avvenuto nella società medievale tra la metà del XII e la metà del XIII secolo. Il mondo medievale diventa più sfumato. L’antica opposizione tra ricchi e poveri, potenti e deboli, inizia a modificarsi con l’emergere di una fascia intermedia. Nella gerarchia sociale, tra signori e sudditi, si profila la categoria dei borghesi. Sul piano culturale, altri elementi che giocano a favore della nascita del Purgatorio sono il crescente interesse per le rappresentazioni geografiche come pure le nuove traduzioni di Euclide, da cui si ricava la nozione di intermediario. Più in generale, poi, la nascita del Purgatorio s’inscrive in quel lento processo che di solito viene definito come la discesa dei valori dal cielo alla terra. Da questa complessa evoluzione della società è nata la credenza del Purgatorio, credenza che poi si è diffusa grazie alle predicazioni di francescani e domenicani. (…)

Dante ha trasformato completamente la geografia dell’ aldilà. Per lui, il Purgatorio non è più un luogo sottoterra, vicino e simile all’ Inferno. È invece una montagna che si erge in mezzo al mare, fatta di circoli concentrici che le anime percorrono dal basso verso l’ alto. Per accedere al Paradiso devono risalire completamente le pendici del Purgatorio, con un percorso ascensionale inverso a quello dell’ Inferno. Dante traduce in immagini l’elemento rivoluzionario introdotto dal Purgatorio, vale a dire la dimensione della speranza. Una speranza che sul piano dell’ immaginario collettivo cambia tutto.(…) La dottrina della chiesa immagina le anime del Purgatorio come dotate di una specie di corpo che le rende sensibili alle sofferenze, sia quelle spirituali che quelle corporali. Nel Purgatorio esse subiscono pene simili a quelle dell’Inferno, ritrovando il fuoco, che ne è l’elemento più tipico e virulento. Nonostante ciò, Dante ha molto contribuito a sottrarre il terzo luogo al dominio dell’Inferno. Egli, infatti, ha attribuito al Purgatorio uno statuto autonomo, uguale a quello degli altri due luoghi, mentre la chiesa aveva la tendenza a farne una regione dipendente dall’Inferno. Il poeta fiorentino è uno spirito positivo, aspirato verso l’ alto dal suo umanesimo, e quindi la sua visione del Purgatorio ne risente. (…)

La Divina Commedia ha svolto un ruolo fondamentale nel processo che ha imposto il Purgatorio come un elemento essenziale dell’ oltretomba. La chiesa però non se ne è occupata più di tanto. Dante era un laico e quindi il suo straordinario poema non venne preso in considerazione come opera spirituale. Egli però non è solo un immenso poeta ma anche un uomo di pensiero che quindi ha saputo pensare il Purgatorio, rappresentandolo in maniera completa e introducendo perfino alcuni elementi originali, come ad esempio l’antipurgatorio. (…)

A parte le interessanti tesi di Le Goff, va detto che l’esistenza di una via di mezzo, di un regno intermedio tra Inferno e Paradiso, cioè di un Purgatorio, diventa articolo di fede con il Concilio di Lione nel 1274, ma va sottolineato soprattutto che, certamente, Dante ci ha messo tantissimo del suo, fino ad inventarselo e fare del regno intermedio dei morti un regno in cui – diversamente dagli altri due in cui prevale l’eternità – il tempo esiste e serve per concedere alle anime pentite e convertite, anche nel momento terminale della propria esistenza, appunto di potersi emendare, purificare per poi poter salire in Paradiso dopo un lungo periodo di espiazione. Dunque, Dante, da quel grande creatore che era, con la sua potente fantasia, con la meravigliosa navicella del suo ingegno, del suo intelletto, inventa il Purgatorio (pure di forma conica, solo che ora si sale, si ascende e non si scende) e ce lo presenta come un’altissima montagna in cima alla quale è situato il Paradiso Terrestre (per sempre perduto dall’uomo dopo la caduta, dopo il peccato originale ad opera di Adamo ed Eva). La montagna si trova in mezzo al mare, nelle acque dell’Oceano Antartico, nell’emisfero australe (agli antipodi di Gerusalemme, simbolo di Liberazione e di Redenzione), e non si dimentichi che Ulisse, nel suo folle volo non sorretto dalla Grazia divina, riesce ad avvistarla prima di inabissarsi nel mare insieme ai suoi compagni: su quella montagna, su quel Paradiso perduto non si può giungere senza il supporto della Fede, senza la luce e l’egida della Grazia divina.

Il cono del Purgatorio è costituito da un Antipurgatorio (invenzione assolutamente dantesca) con un’ampia spiaggia dove giungono e si ritrovano tutti gli spiriti destinati alla purificazione e attendono un tempo prestabilito prima di cominciare la loro salita sulla montagna per la purificazione totale. A guardiano del Purgatorio è posto Marco Porcio Catone detto l’Uticense, pagano e suicida (46 a. C., in Utica, a nord di Cartagine; era nato nel 95) per la difesa delle libertà repubblicane in opposizione al liberticida Giulio Cesare. Dal quarto al sesto canto-capitolo ci sono due balzi con dentro gli spiriti negligenti lenti a pentirsi e morti di morte violenta; dal settimo all’ottavo, nella Valletta dei prìncipi, ci sono le anime dei prìncipi negligenti; nel nono troviamo la Porta del Purgatorio con l’angelo guardiano, quindi dal decimo al trentatreesimo ci sono sette cornici (o: gironi, cerchi, balze per i sette peccati o vizi capitali, i quali furono elencati da Evagrio Pontico, monaco e asceta cristiano orientale del IV sec. d. C.) che portano al Paradiso Terrestre: nella prima cornice ci sono i superbi, nella seconda gli invidiosi, nella terza gli iracondi, nella quarta gli accidiosi, nella quinta gli avari e i prodighi, nella sesta i golosi e nella settima i lussuriosi.

Del suicidio, anzi del doppio suicidio, altamente morale ed esemplare di Catone, ha fatto sapere bene Plutarco in Vita di Catone: Catone sguainò la spada e se la conficcò sotto il petto; non morì subito, perché, per la ferita della mano, aveva potuto spingere con minor forza. […] Poiché le interiora non erano rimaste lese, il medico si avvicinò, cercò di rimetterle al loro posto e di ricucire la ferita. Ma appena Catone si riebbe e capì, mandò via il medico, riaprì la ferita, si strappò le viscere con le mani e morì

Tante sono state, in sette secoli, le interpretazioni dei commentatori sul perché Dante abbia (provocatoriamente) scelto un pagano e per giunta un suicida (anche se per protesta morale e politica) a custode del secondo Regno ultraterreno, un suicida contro il simbolo, per Dante sacro, della Roma ormai avviata ad essere imperiale. Ebbene, Erich Auerbach ha spiegato benissimo nei suoi Studi su Dante (in cui propone la sua analisi figurale della Commedia) che la vicenda di Catone è diventata la prefigurazione di quella libertà cristiana che ora egli è chiamato a custodire… È la libertà eterna dei figli di Dio, che disprezzano ogni cosa terrena; la liberazione dell’anima dalla servitù del peccato, di cui qui è introdotta come “figura” la libera scelta catoniana della morte di fronte alla servitù politica. Del resto, il suicidio in nome della superiore libertà morale e spirituale era ammesso anche da alcuni Padri della Chiesa (per es., sant’Agostino)  e anche da san Tommaso d’Aquino, uno dei maggiori teologi-filosofi della Scolastica.

Dunque, Catone come modello, paradigma di sentimento altissimo della libertà per la cui difesa e in nome del quale vale la pena di morire (libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta): sentimento della libertà nel significato più pieno e assoluto della parola e Dante sembra identificarsi in Catone, anche lui preferirebbe morire piuttosto che vivere da servo e da schiavo del Potere. E Catone ci fa venire in mente un passo importante dei Saggi di Michel de Montaigne laddove si legge che filosofare è apprendere a morire, che la premeditazione della morte è premeditazione della libertà e che chi ha appreso a morire ha disappreso a servire: se penso che dovrò morire, allora rifiuto di essere servo e difendo la mia libertà. Dunque, suicidio attuato per protesta, rivolta morale, ideale e politica, per grande sentimento della libertà e, insomma, per grande coerenza morale e ideale, per grande personale virtù e rettitudine di uomo che si era fatto guidare dalla ragione, dai valori dell’onestà, della verità, della giustizia, avendo come sommo fine (proprio come Dante!…) il bene comune, il bene di tutti e l’avversione alle lotte fratricide, che generano soltanto odio, ingiustizie, soprusi, violenza e morte. Pertanto, l’eroico gesto estremo di Catone non è da condannare e collocare nel cerchio infernale dei suicidi ma diventa un gesto esemplare, degno di ammirazione e Catone un esempio, un modello di eccezionale coerenza e virtù da esaltare fino a farne il custode del Purgatorio, emblema, simbolo della più alta virtù e della piena libertà morale e spirituale e, quindi, della liberazione dal peccato e della possibilità della salvezza. E Dante si immedesima e si riconosce in Catone fino a far pensare che sia un suo riflesso, una sorta di alter ego in cui adombrare la sua stessa figura di uomo onesto, integerrimo, dotato di grandezza d’animo e, insomma, di tutte le più alte virtù ed estremamente coerente e fedele ai propri ideali da preferire la morte alla privazione della libertà morale e spirituale, pronto a morire per difendere la sua verità e  le sue idee, pur di continuare ad essere un uomo con la u maiuscola e non, come si direbbe oggi, un italiano medio, da tengo famiglia, pronto a barattare la propria coscienza, la propria dignità e moralità in cambio della vita. Insomma, quello di Dante è un vero e proprio manifesto, una vera e propria dichiarazione di poetica, di Weltanschauung, di visione e concezione globale della vita, del mondo e della realtà per cui un uomo si pone il problema del senso della vita, della sua esistenza e della sua posizione su questo mondo e proprio in relazione al mondo in cui vive, che è in un certo modo.

Si è visto, nell’Inferno, il caso di Pier delle Vigne (in cui Dante riconosceva la propria simile sorte) e il commovente racconto della sua vita giunta all’apice della potenza e poi distrutta dalla calunniosa macchina del fango messa in moto dall’invidia di mediocri cortigiani che seppero convincere Federico delle sue presunte infedeltà e ingratitudine. Egli decide di trovare uno sbocco all’ingiusto disonore e al pubblico disprezzo (la gogna mediatica, diremmo oggi) nel suicidio come rivolta morale e come gesto di protesta che dovrebbe riscattare dalle terribili accuse. Il suicidio non è certo un esito felice per qualsiasi esistenza, è sempre un gesto forte, una scelta sofferta. Il suicidio può essere considerato come un gesto di debolezza, di umiltà o di forza. I motivi possono essere tanti e tanti i tipi di suicidio. Tra questi c’è, appunto, il suicidio come atto di coraggio, di rivolta morale, di ribellione, di sfida, di protesta, di rifiuto sdegnoso nei confronti di certi eventi della vita, insomma il suicidio come gesto di forza, forza spirituale e morale, il suicidio come forte sentimento di libertà e di liberazione, il suicidio per protesta ideale, morale, politica. Ed è questo il caso del pagano Catone l’Uticense, oppositore di Cesare, che preferisce la morte alla perdita della libertà politica e, dunque, egli simboleggia la libertà in senso assoluto e, quindi, la libertà interiore, spirituale, la libertà dal peccato e, secondo Auerbach, finisce anche per essere figura di Cristo. Dante (che si riconosce, si identifica in lui) scrive infatti: Libertà va cercando ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta.

Come esempio di suicidio altamente etico, come affermazione della propria libertà e della propria rettitudine, allo stesso tempo; emblematico ed esemplare, fra l’altro, del cittadino che accetta le leggi della polis anche se sa che sono sbagliate e ingiuste, si potrebbe ricordare il suicidio di Socrate. Vittima di una montatura diretta ad eliminarlo dalla scena culturale e politica, egli venne accusato di empietà, di ateismo, cioè di negare gli dèi della polis e di volerne introdurre degli altri e, inoltre, di corrompere i giovani con dottrine volte a sovvertire l’ordine sociale. Venne processato e condannato a morte. Avrebbe potuto scegliere (se avesse vilmente ammesso colpe che non aveva) l’esilio, l’allontanamento dalla polis e addirittura la fuga con evasione organizzata dai suoi discepoli, ma egli scelse di accettare il verdetto del tribunale e, quindi, la morte, ovvero il suicidio, bevendo la cicuta. E scelse affermando che era preferibile subire un’ingiustizia piuttosto che commetterla e che occorreva, comunque, dare l’esempio di rispettare le Leggi della polis (da lui personificate, viste come qualcosa di vivo e di vitale e non qualcosa di astratto, e con cui dialogare), nella consapevolezza che non sono state esse a condannarlo ma gli uomini. In questo modo, Socrate (evitando una disonorevole fuga che lo avrebbe fatto ritenere vile e colpevole) mostrava (in piena libertà morale e con alta coscienza) di non sfuggire alla condanna, anche se ingiusta e, nello stesso tempo, la contestava e protestava contro di essa con estrema finezza filosofica, culturale, ovvero protestava contro quegli uomini (cioè la classe politica dirigente contro cui puntò il dito) che avevano fatto (attraverso una montatura) un uso distorto, ingiusto delle Leggi, quelle Leggi che lui non vuole offendere, proprio per dare alto esempio morale alla cittadinanza. Come dire: le Leggi della polis sono sacrosante e vanno rispettate, ma sono gli uomini che le utilizzano male e commettono ingiustizie, mentre lui è disposto (come Cristo) a morire per la sua idea di Verità e di Giustizia, bevendo l’amaro calice fino alla fine, fino alla feccia e con le sue stesse mani, cioè per sua scelta etica. Ai nostri giorni, un’etica così alta è quasi impensabile, specialmente nel nostro Paese, in cui a prevalere (come si è già fatto notare) è l’italiano medio all’Alberto Sordi e del tengo famiglia. Specialmente in ambito politico… Si pensi soltanto al caso dell’on. Bettino Craxi: accusato dai giudici di Mani Pulite (o Tangentopoli, 1992) di aver preso, per il suo partito (il PSI, Partito Socialista Italiano), un bel po’ di miliardi dal mondo del capitalismo, degli imprenditori, ha preferito l’esilio, ovvero la vittimistica ma disonorevole fuga in Tunisia (ad Hammamet) piuttosto che sottoporsi alle Leggi dello Stato e dimostare magari la propria innocenza e anche (se condannato) che sono gli uomini e non le leggi a commettere ingiustizia… Insomma, tutto il contrario del virtuoso Socrate, il quale, più che alla sua vita, teneva a quelle delle Istituzioni, delle Leggi, al principio della legalità e, quindi, al bene della comunità, soprattutto al bene dei giovani, ai quali voleva dare l’esempio. In definitiva, sia Socrate che Dante dicono che il problema dei problemi è l’uomo, la sua rettitudine, la sua coscienza, il suo libero arbitrio, il suo senso di responsabilità e la sua scelta del Bene o del Male. Pertanto, le leggi ci sono ma chi pone mano ad esse, chi si premura di farle rispettare?, afferma Dante nel Purgatorio, e se se ne fa un utilizzo distorto, errato, ecco che si finisce per creare delle ingiustizie, fino a costringere Socrate a bere la cicuta per senso dello Stato (della polis) sia per condannare Dante ad un ingiusto esilio e, in verità, solo per eliminarli dalla scena…

Un altro caso di suicidio esemplare, diretto a difendere la propria libertà e la propria moralità è quello di un altro grande filosofo, Lucio Annea Seneca, il quale, non a caso, nelle sue celebri Lettere a Lucilio ricorda, come esemplari ed altamente etici, i suicidi di Catone e di Socrate. Anche per il precettore di Nerone (che tanta influenza ebbe sul pensiero del citato Montaigne) il suicidio è vissuto come via libertatis, come affermazione suprema di libertà. Se il nostro corpo è la triste e oscura dimora dell’anima, questa può uscire da esso e trovare la propria libertà anche con il suicidio, che finisce per essere esemplare, emblematico e metaforico. Il vero saggio sceglie sempre la via più giusta per affermare la propria suprema libertà interiore e rifiutare ogni forma di schiavitù. E, allora, occorre essere forti e decisi e da veri stoici impugnare un’arma o ingurgitare il veleno come hanno fatto Catone e Socrate. Dunque, la scelta della morte come exitus, come uscita dalla vita, che è sempre preferibile alla schiavitù, alla servitù: è scelta di libertà. Sospettato di congiura da Nerone, al saggio Seneca non restava che stoicamente difendere la propria libertà con il veleno e, non bastando, tagliandosi le vene con lenta e straziante morte.

Si potrebbe citare anche il suicidio esemplare di epoca romantica, generato dalla fantasia di Ugo Foscolo: Jacopo Ortis, morto suicida per la patria (e anche per l’amore perduto). Il suicidio di Jacopo per lo sciagurato destino della propria patria ha fatto scrivere al De Sanctis che:…ci è tutta una tragedia nazionale in una tragedia individuale.

Volendo istituire un parallelo, un confronto tra il suicidio per protesta, rivolta politico-morale attuata da un uomo di duemila anni fa e da un altro più vicino ai nostri tempi, si potrebbe fare il nome di Jan Palach (studente di Filosofia) il quale, di fronte ai carri armati sovietici (ovvero del Patto di Varsavia istituito, nel 1955, a difesa dei paesi comunisti dell’Europa dell’Est contro l’Europa Occidentale, stretta in sua difesa nel Patto Atlantico, istituito nel 1949), di fronte ai carri armati che avevano occupato le strade di Praga nell’indimenticabile primavera del 1968, preferì darsi fuoco con la benzina (era il 16 gennaio del 1969), diventando una torcia umana. Anche il suo suicidio, come quello di Catone, finisce per avere una valenza metaforica, simbolica come particolare modalità di resistenza e di contestazione e, allo stesso tempo, una funzione esemplare, di exemplum da, eventualmente, imitare (e, infatti, altri quattro suoi amici lo imitarono), per chi volesse anteporre l’idea e l’ideale della Libertà aldisopra di ogni cosa: la morte eroica piuttosto che la schiavitù politica.

Infine, in merito al suicidio come gesto etico, di protesta ed eroico allo stesso tempo, si potrebbe citare anche quello a cui, in Giappone, ha indotto e tuttora induce l’etica del samurai, per cui quando il samurai o il semplice cittadino (con la mentalità del samurai) si avvede del proprio fallimento su qualcosa a cui teneva fortemente, o di fronte a una vergogna che non fa onore, oppure a un’ingiustizia o a un forte dolore, ecco che fa harakiri o seppuku: si suicida con il taglio del ventre, della pancia al quale, in certi casi, si accompagna anche il taglio della testa con una spada ben affilata: quello che è accaduto al famoso scrittore Yukio Mishima nel 1970, che si è ucciso col rituale del samurai per eccessivo, estremo nazionalismo, per estremo amore della propria patria e, infatti, prima di suicidarsi ecco cos’ha lasciato detto: Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.

Per concludere, a fronte di tanti esemplari ed emblematici suicidi, potremmo citare il caso poco esemplare dell’antieroe, dell’inetto Amleto e del suo mancato suicidio, Amleto che rappresenta la viltà universale di fronte alla paura della morte. Nel celebre monologo – essere o non essere – Shakespeare gli fa dire che è il pensiero e la paura della morte che ci rende vile e codardi e non ci fa impugnare un arma che, con il suicidio, porrebbe fine alla nostra miserabile esistenza, durante la quale siamo costretti a subire offese, ingiurie, soprusi e quant’altro da parte dei nostri simili. Con il suo filosofico monologo, Amleto assurge, di fatto, ad emblema dell’esistenzialismo dell’uomo moderno e della sua inettitudine pre-sveviana di fronte a una realtà e ad un mondo sempre più complessi e difficili da affrontare. Amleto anticipa gli Obolomov, gli Zeno Cosini e tutti i musiliani uomini senza qualità che verranno secoli dopo, ovvero quegli antieroi e inetti alla vita che sono malati nella volontà, sono inadeguati all’esistenza di tutti i giorni e, pertanto, eternamente indecisi, irresoluti, troppo riflessivi, troppo cerebrali, troppo devitalizzati, come paralizzati, troppo problematici e pieni di dubbi e incertezze, incapaci di agire e di compiere un gesto anche minimamente eroico. Essi sono gli antinapoleone dei tempi della Modernità e della Postmodernità: se Napoleone, da quell’eroe che era, prendeva di petto la realtà, loro la subiscono, si vedono vivere (direbbe Pirandello) e, insomma, si fanno prendere di petto dalla realtà. Di fronte alla richiesta di vendetta che gli viene dal fantasma del padre assassinato, egli, invece di passare subito all’azione, ecco cosa si mette a dire a se stesso e a noi, a cui chiede comprensione per la sua inettitudine e problematicità esistenziale, dicendoci che, alla fin fine, è anche la nostra, quella di tutti noi: Essere o non essere, questo è il problema: se sia più nobile d’animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua  fortuna, o prender l’armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli. Morire, dormire… null’altro, e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne: è una soluzione da desiderarsi devotamente.  Morire… dormire… sognare forse.  Ma qui é l’ostacolo, perché in quel sonno di morte quali sogni possano assalirci quando siamo già sdipanati dal groviglio mortale, deve farci riflettere. È questa la remora che di tanto prolunga la vita ai nostri tormenti. Perché chi sopporterebbe le frustate e gli insulti del tempo, le angherie del tiranno, il disprezzo dell’uomo borioso, le angosce del respinto amore, gli indugi della legge, la tracotanza dei grandi, i calci in faccia che il merito paziente riceve dai mediocri, quando di mano propria potrebbe saldare il suo conto con due dita di pugnale? Chi vorrebbe caricarsi di grossi fardelli imprecando e sudando sotto il peso di tutta una vita stracca, se non fosse il timore di qualche cosa, dopo la morte, il paese inesplorato donde mai non tornò alcun viaggiatore, a sgomentare la nostra volontà e a persuaderci di sopportare i nostri mali piuttosto che correre in cerca d’altri che non conosciamo? Così la coscienza ci rende tutti codardi; così l’incarnato naturale della risolutezza si scolora al cospetto del pallido pensiero. E così imprese di grande importanza  e rilievo deviano dal loro corso e  perdono il nome stesso di azione…

Come avrebbe potuto un uomo così impugnare decisamente un’arma contro se stesso, come fece Catone, se non era capace di impugnarla neppure contro l’assassino del padre per vendicarlo?…

Il romanzo della Divina Commedia prosegue, certo in tono minore, ovvero con ben altre situazioni e personaggi e con ben altro stato d’animo e ben altro paesaggio. L’animo del narratore appare rasserenato, più tranquillo, più disteso, meno inquieto e meno turbato, anche se sempre più consapevole che conquistare certe altezze, ovvero la virtù e poi la beatitudine, la felicità spirituale, celeste, costa grande fatica e implica una ancora più grande forza di volontà nel volerle perseguire: occorrono i lumi della Ragione e della Fede, i due grandi fari che servono per illuminare la nostra esistenza, il percorso, il viaggio difficile e pieno di insidie della nostra vita terrena dopo il quale ci attende quello verso la vita ultraterrena che, nella visione medievale, era la vera dimensione, la vera vita e la vera realtà, dopo il pellegrinaggio nella lacrimarum valle, nella misera valle di lacrime.

Il viaggio di Dante attraverso il mondo della  speranza, dell’espiazione, della purificazione e della salvezza  dura tre giorni: dall’alba del 10 aprile del 1300 (è la domenica di Pasqua) fino al mattino del mercoledì successivo. Non c’è più il buio, la tenebra e l’oscurità dell’Inferno e anche questo rende il viaggio meno penoso, certamente più lieto dopo tanto orrore e abiezione lasciati alle spalle; pertanto, come sospeso tra cielo e terra, la sua alta fantasia, la sua meravigliosa nave-ingegno può proseguire nel suo folle-viaggio-volo e intraprendere un nuovo percorso, una nuova navigazione e una nuova narrazione: questa volta nel e sul regno dove le anime si purificano in vista della conquista del Paradiso, della beatitudine celeste, per cui occorre essere ben degni: Per correr miglior acque alza le vele omai la navicella del mio ingegno, che lascia dietro a sé mar sì crudele; e canterò di quel secondo regno dove l’umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno.

Anche qui, come nell’Inferno, c’è l’invocazione alle sante (sacre) Muse (poiché sono vostro), alla Poesia che è sembrata morire nel Primo Regno, quella scritta per la perduta gente dell’Inferno (la morta poesì resurga) in particolare a Calliope (che vuol dire dalla bella voce), Calliope che è la musa dell’epica e tra le Muse la maggiore. La morta poesia risorga, dice il Poeta nella sua invocazione, e Calliope si alzi (si sollevi alquanto: ed è un sollevarsi soprattutto metaforico) per soccorrerlo, per venirgli in aiuto con più decisione, accompagnando il suo canto con quella musica (armonia) di cui le misere (sventurate) Piche (ovvero le Pieridi, figlie di Pierio, re di Tessaglia) sperimentarono il colpo per aver voluto sfidare le Muse uscendone sonoramente sconfitte e, quindi, imperdonabilmente trasformate in gazze da Calliope (secondo la mitologica narrazione di Ovidio): Ma qui la morta poesì resurga, o sante Muse, poi che vostro sono; e qui Calliopè alquanto surga, seguitando il mio canto con quel suono di cui le Piche misere sentiro lo colpo tal, che disperar perdono. Segue una lunga sequenza descrittiva dell’ambiente e dell’atmosfera che regna nella spiaggia dell’Antipurgatorio, ben altra cosa se confrontati a quelli dell’Inferno: Dolce color d’oriental  zaffiro, che s’accoglieva nel sereno aspetto del mezzo, puro infino al primo giro, a li occhi miei ricominciò diletto, tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta che m’avea contristati li occhi e ‘l petto.

Lo bel pianeto che d’amar conforta faceva tutto rider l’oriente, velando i Pesci ch’erano in sua scorta.  I’ mi volsi a man destra, e puosi mente a l’altro polo, e vidi quattro stelle non viste mai fuor ch’a la prima gente. Goder parea ‘l ciel di lor fiammelle: oh settentrional vedovo sito, poi che privato se’ di mirar quelle!: Un dolce (soave, delicato) colore azzurrino di zaffiro orientale che si addensava nella limpidezza quieta (serena) dell’aria, pura fino all’orizzonte, ha fatto rinascere un senso di godimento (di gioia) per i miei occhi, appena sono uscito fuori dall’atmosfera dell’Inferno, che mi ha tanto rattristato la vista e l’animo (la mente). (Lo zaffiro è una pietra preziosa di colore azzurro che si trova in Media e, nel Medioevo, si riteneva avesse la virtù di far uscire i prigionieri dal carcere, di placare l’ira di Dio e di togliere ogni sporcizia, impurità dagli occhi).

Venere, il bel pianeta che incita all’amore, faceva brillare (splendere), con la sua luce, tutto l’oriente (da dove sorge il Sole, che è simbolo di Dio), rendendo poco visibile, con il suo splendore, la costellazione dei Pesci, che le sorgeva dietro (si stava avvicinando l’alba). Io mi sono voltato verso destra e ho guardato attentamente in direzione dell’altro polo (cioè quello dell’emisfero antartico, australe) e ho visto quattro stelle (le quattro virtù cardinali: giustizia, fortezza, prudenza e temperanza) che non sono mai state viste da nessun altro se non dai primi uomini (dai progenitori, nell’Eden, cioè da Adamo ed Eva, e sono virtù ormai così poco seguite e praticate dagli uomini, che preferiscono rincorrere beni e “valori” materiali che li conducono a degenerazione morale e alle peggiori forme di corruzione). Sembrava che il cielo si rallegrasse (fosse lieto) della loro luce: oh emisfero settentrionale (boreale) luogo privo di ogni cosa (impoverito), visto che (dal momento che) non puoi (ti è impedito di) ammirare la bellezza di quelle stelle!…

A questo punto, Dante ci fa conoscere il personaggio principale del canto-capitolo, il guardiano del Purgatorio, che ci riporta alla mente l’incontro di Dante con Caronte, il vecchio, bianco per antico pelo, ma i due guardiani sono personaggi decisamente diversi,  soprattutto nella loro natura morale: Catone Uticense. Dante lo ha coraggiosamente e provocatoriamente scelto come custode del Purgatorio perché lo vuole esaltare per la sua valenza di personaggio paradigmatico (in un mondo di corrotti, di opportunisti e di incoerenti d’alto bordo che fungevano da negativi pseudo-modelli che, poi, facevano dilagare, nel popolo, i comportamenti scorretti e illegali) e, quindi, il tono è solenne e di massimo rispetto per la sua figura, tanto da usare il gallicismo veglio anziché il popolare vecchio, proprio per conferirgli una particolare dignità e una certa maestosità. E dunque: Com’io da loro sguardo  fui partito, un poco me volgendo  a l’altro polo, là onde il Carro già era sparito, vidi presso di me un veglio solo, degno di tanta reverenza in vista, che più non dee a padre alcun figliuolo. Lunga la barba e di pel bianco mista portava, a’ suoi capelli somigliante, de’ quai cadeva al petto doppia  lista. Li raggi de le quattro luci sante fregiavan sì la sua faccia di lume, ch’i ‘l vedea come ‘l sol fosse davante: Non appena ho distolto lo sguardo dalle quattro stelle, volgendomi un po’ verso il polo artico (il boreale, cioè il nostro), là da dove la costellazione dell’Orsa Maggiore era sparita (scomparsa, tramontata) ho visto vicino a me un vecchio (per Dante si era vecchi dopo i 46 anni) che era da solo e degno, per l’aspetto, di tanta riverenza (rispetto) di quanta ne deve un figlio al proprio padre. Aveva la barba lunga e brizzolata (un po’ bianca e un po’ grigia), simile ai capelli dei quali scendevano (dalle spalle) sul petto due ciocche (bande). I raggi delle quattro sante (sacre) luci delle stelle gli ornavano il volto in maniera tale che io lo vedevo come se avesse il sole davanti a lui (come se fosse illuminato dal sole, cioè come un fascio di luce, ovvero la Grazia divina).

Catone scambia i due viandanti, i due pellegrini per due dannati scappati dal cieco ed eterno carcere dell’Inferno e, pertanto, li interroga con tono di rimprovero e vuol sapere come diavolo si trovano lì: “Chi siete voi che contro al cieco fiume fuggita avete la pregione etterna?”, diss’el, movendo quelle oneste piume. “Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna, uscendo fuor de la profonda notte che sempre nera fa la valle inferna? Son leggi d’abisso così rotte? o è mutato in ciel novo consiglio, che, dannati, venite a le mie grotte?”: Chi siete voi che siete usciti fuori dall’inferno, procedendo a ritroso del ruscelletto (del fiume sotterraneo che discende verso il centro della Terra e che porta alla spiaggia del Purgatorio) siete usciti fuori dall’Inferno (siete sfuggiti all’eterna prigione dell’Inferno)?, disse agitando la sua barba che lo rendeva degno di rispetto. Chi vi ha guidati (chi vi ha fatto da guida, da scorta) e da faro (luce) per uscire fuori dalla profonda oscurità che rende eternamente buia la voragine infernale? Sono state ormai infrante (violate) le leggi dell’Inferno? o nel cielo si è sostituito un nuovo decreto al vecchio (è stata fatta una nuova legge), per cui voi, anche se dannati, potete giungere fino alle mie rocce (di questo monte, che custodisco, di cui sono il custode)?

A replicare è naturalmente il duca, il maestro e signore, cioè Virgilio, il quale gli spiega, con tono di grande riverenza, che il folle viaggio di Dante è voluto da Dio e che per salvarlo dalle tre fiere della selva oscura, cioè dal peccato, dal deviamento-smarrimento-traviamento-morale (qui definito con la parola follia) è intervenuta Beatrice; quindi lui lo ha guidato nell’Inferno per potergli mostrare l’uomo malvagio e colpevole nella varietà della dannazione eterna e adesso intende condurlo nel Purgatorio per mostrargli come le anime possono purificarsi e con l’espiazione passare alla condizione di anime beate. Certo, spiegare nei dettagli sarebbe cosa lunga, prosegue Virgilio, ma (e qui inizia il vero e proprio discorso retorico con tanto di captatio benevolentiae) ti sia gradita la sua venuta (perché Dante ti somiglia, è come te!): libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta. Tu lo sai bene cosa vogliono dire queste parole, perché con coraggio, ad Utica, ti sei ucciso in nome della libertà. No, i decreti celesti non sono mutati e Minosse continua a fare il suo lavoro di giudice infernale ma non nel primo cerchio; in nome anche della tua sposa, Marzia che, sospirando, soffre con me nel Limbo, ti chiedo di lasciarci proseguire nel viaggio attraverso le cornici del tuo Purgatorio: io farò sapere alla tua Marzia di questo tuo generoso gesto fatto per amor suo: Lo duca mio allor mi diè di piglio, e con parole e con mani e con cenni reverenti mi fe’ le gambe e ‘l ciglio. Poscia rispuose lui: “Da me non venni: donna scese del ciel, per li cui prieghi de la mia compagnia costui sovvenni. Ma da ch’è tuo voler che più si spieghi di nostra condizion  com’ell’è vera, esser non puote il mio che a te si nieghi. Questi non vide mai l’ultima sera; ma per la sua follia le fu sì presso, che molto poco tempo a volger era. Sì com’io dissi, fui mandato ad esso per lui campare; e non lì era altra via che questa per la quale i’ mi son messo. Mostrata ho lui tutta la gente ria; e ora intendo mostrar quelli spirti che purgan sé sotto la tua balìa. Com’io l’ho tratto, saria lungo a dirti; de l’alto scende virtù che m’aiuta conducerlo a vederti e a udirti. Or ti piaccia gradir la sua venuta: libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta. Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara in Utica la morte, ove lasciasti la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara. Non son li editti etterni per noi guasti, ché questi vive e Minòs me non lega; ma son del cerchio ove son li occhi casti di Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega, o santo petto, che per tua la tegni: per lo suo amore adunque a noi ti piega. Lasciane andar per li tuoi sette regni; grazie riporterò di te a lei, se d’esser mentovato là giù degni”: Virgilio, allora, mi ha afferrato e con le parole, le mani e i cenni del volto mi ha esortato ad inginocchiarmi e ad abbassare la testa. Poi gli ha risposto: Non sono venuto qui di mia spontanea volontà: una donna (Beatrice) è scesa dal cielo e dopo le sue preghiere ho aiutato costui (Dante) con la mia compagnia. Ma poiché vuoi che ti siano date maggiori spiegazioni sulla nostra reale, effettiva condizione, (ebbene) il mio volere non può opporsi a te con un rifiuto. Questi non è morto (è ben vivo e non è un dannato); ma per i peccati commessi era vicino alla morte spirituale, tanto che è mancato poco perché non fosse perduto per sempre. Come ti ho detto, io sono stato mandato da lui per salvarlo, e non c’era altra via che questa sulla quale mi sono messo. Gli ho mostrato tutti i dannati (malnati, malvagi dell’Inferno) e adesso ho intenzione di mostrargli le anime che si purificano sotto la tua custodia (la tua autorità, il tuo governo). Come l’ho condotto fin qui sarebbe cosa lunga raccontarti; è dal cielo che scende (che proviene) la virtù che mi ha aiutato a condurlo alla tua presenza per vederti e ascoltare (i tuoi consigli). Ora ti sia ben gradita la sua venuta: (egli, come te) va cercando quella (piena, assoluta) libertà (etica e spirituale), che è cosa così preziosa, come sa (benissimo) chi per lei rinuncia alla vita (chi per suo grande amore è disposto a rinunciare alla vita, sottinteso: il bene più prezioso che abbiamo ma che non è nulla senza la libertà). E tu questo lo sai bene, perché (per il grande amore per la libertà) non ti è stato amaro (duro) preferire la morte in Utica, dove hai lasciato il corpo che, nel giorno del Giudizio Universale, risplenderà (sarà luminoso, come merita e come è giusto che sia).

Le leggi (i decreti) eterni (di Dio) non sono violati a causa nostra, poiché questi (Dante) è vivo e io non sono sottoposto al giudizio di Minosse; ma sono nel primo cerchio (nel Limbo) nel quale si trova la tua sposa, Marzia, dagli occhi puri, la quale, vedendola, dall’aspetto, sembra che ancora ti preghi, o santo petto, che tu la consideri come tua (come la donna che tuttora ami): dunque, in nome del suo amore, cerca di accogliere le nostre preghiere. (Marzia, secondo l’uso romano, era stata ceduta da Catone all’amico Quinto Ortensio Ortalo, grande oratore e avvocato romano e, quando questi morì, lei gli chiese di poter ritornare da lui e lui accettò: ritorno che è visto simbolicamente da Dante come il ritorno dell’anima a Dio nell’età estrema della nostra esistenza, alla fine della nostra vita). Lasciaci (consentici di) attraversare i setti gironi (o cornici o balze o cerchi del Purgatorio); le riferirò cose gradite di te (sul tuo conto), la ringrazierò per quello che hai fatto per amor suo, se ti fa piacere esser ricordato in quel luogo (nel Limbo).

Catone replica al reverente Virgilio con tono solenne e austero; dice che Marzia è sempre nel suo cuore e che se una donna (Beatrice) vuole il viaggio e la salvezza di Dante, ebbene non c’è poi tanto bisogno di pregare lui. Lui chiede soltanto che Dante compia il rito di purificazione con l’abluzione, il lavaggio del viso e mostri umiltà facendosi cingere da Virgilio con un giunco, simbolo, appunto, di umiltà; quindi scompare misteriosamente (ed è finzione romanzesca che si tinge di giallo o, se si vuole, di favoloso, di fiabesco) e i due si apprestano per il rito purificatorio: “Marzïa piacque tanto a li occhi miei mentre ch’i’ fu’ di là che quante grazie volse da me, fei. Or che di là dal mal fiume dimora, più muover non mi può, per quella legge che fatta fu quando me n’usci’ fora. Ma se donna del ciel ti move e regge, come tu di’, non c’è mestier lusinghe: bastisi ben che per lei mi richegge. Va dunque, e fa che tu costui ricinghe d’un giunco schietto e che li lavi ‘l viso, sì ch’ogne sucidume quindi stinghe; ché non si converria, l’occhio sorpriso d’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo ministro, ch’è di quei di paradiso. Questa isoletta intorno ad imo ad imo, là giù colà dove la batte l’onda, porta di giunchi sovra ‘l molle limo: null’altra pianta che facesse fronda o indurasse, vi puote aver vita, però ch’a le percosse non seconda. Poscia non sia di qua vostra reddita; lo sol vi mosterrà, che surge omai, prendere il monte a più lieve salita”.

Così sparì; e io sù mi levai sanza parlare, e tutto mi ritrassi al duca mio, e li occhi a lui drizzai. El cominciò: “Figliuol, segui i miei passi: volgiànci in dietro, ché di qua dichina questa pianura a’ suoi termini bassi”: Marzia è piaciuta tanto ai miei occhi, finchè sono stato sulla Terra, che ogni cosa a lei gradita che mi avesse chiesto io gliel’ho fatta (gliel’ho concessa). Adesso che si trova nel Limbo, aldilà del fiume infernale (Acheronte), non può più decidere i miei atti, per quella legge che è stata stabilita quando (in seguito alla discesa di Gesù) io sono uscito fuori dal Limbo (dopo la discesa di Cristo nel Limbo si stabilì la definitiva separazione tra esclusi dalla salvezza e anime destinate alla Grazia e alla beatitudine: la finzione romanzesca vuole che il Catone di Dante fosse lì nel Limbo). Ma se una donna del cielo (Beatrice-Grazia-divina) muove, ti aiuta e  guida (sorregge i tuoi passi in favore di Dante), come tu affermi, non c’è bisogno di parole lusinghiere (adulatrici): basta soltanto che tu mi (ri)chieda in suo nome (che tu me lo chieda in suo nome). Dunque, va’ e fai in modo tale da cingere costui (Dante) con un giunco senza nodi (liscio e dritto) e, poi, di lavargli il volto, in modo che tu possa cancellare ogni sporcizia (ogni traccia di bruttura lasciata dal viaggio infernale); (e questo) perché non sarebbe conveniente (sarebbe disdicevole, sconveniente) presentarsi davanti al primo angelo (custode della porta del Purgatorio), che è uno di quelli (dei ministri) del Paradiso, con gli occhi (ingombri), offuscati da qualche residuo di caligine (di nebbia). Questa isoletta (piccola isola) del Purgatorio (situata nell’immenso oceano), tutto intorno, nella sua parte più bassa della spiaggia, laggiù dov’è battuta dalle onde del mare, produce dei giunchi (sulla sabbia) sul terreno molle e fangoso: nessun’altra pianta che mettesse rami con foglie (o facesse crescere) si sviluppasse in fusto (in tronco) legnoso (rigido), potrebbe avervi vita (vi potrebbe crescere, attecchire), perché non si piega (ma resiste!) alla forza delle onde (che percuotono). (Come dire che: le piante superbe non servono per il raggiungimento della  purificazione e della Grazia divina: occorre una pianta umile come il giunco, umile ma molto resistente e, quindi, difficile da abbattere, da far crollare: si piega ma non si spezza!).

Dopo (aver svolto il rito purificatorio) non ritornate per questo luogo (dove ora vi trovate); il sole, che sta per sorgere, vi mostrerà in quale luogo si può salire sul monte attraverso una via più agevole (meno in salita).

Così (dopo queste parole), è scomparso; e io mi sono drizzato in piedi senza parlare (fino ad allora era rimasto in ginocchio), e mi sono avvicinato, stretto a Virgilio, e a lui ho rivolto (diretto) i miei occhi (meravigliati e attoniti per la sparizione improvvisa e inaspettata di Catone). Egli ha cominciato a dire: Figliuolo, seguimi (segui i miei passi): torniamo indietro, poiché questa pianura (di)scende lentamente, da qui, verso la sua parte più bassa (più estrema della spiaggia).

Il canto-capitolo si avvicina alla sua conclusione e termina con il rito della prima purificazione che dà l’avvio al processo di rinnovamento interiore, morale e spirituale: Dante viene liberato da tutte le possibili scorie, tracce e residui di lordura, di sporcizia (morale e spirituale) che lo abbiano potuto inquinare durante il terrificante viaggio attraverso l’Inferno: L’alba vinceva l’ora mattutina che fuggia innanzi, sì che di lontano conobbi il tremolar de la marina. Noi andavam per lo solingo piano com’ om che torna a la perduta strada, che ‘nfino ad essa li pare ire invano. Quando noi fummo là ‘ve la rugiada pugna col sole, per essere in parte dove ad orezza, poco si dirada, ambo le mani in su l’erbetta sparte soavemente ‘l mio maestro pose: ond’ io, che fui accorto di sua arte, porsi ver’ lui le guance lagrimose; ivi mi fece tutto discoperto quel color che l’inferno mi nascose. Venimmo poi in sul lito diserto, che mai non vide navicar sue acque omo, che di tornar sia poscia esperto. Quivi mi cinse sì com’altrui piacque: oh maraviglia! ché qual elli scelse l’umile pianta, cotal si rinacque subitamente là onde l’avelse: Il chiarore dell’alba si imponeva sull’ultima parte della notte che stava morendo, tanto che da lontano riuscivo a ravvisare il tremolio del mare. Noi camminavamo per la solitaria spaggia con l’impazienza di colui che ritorna sulla strada smarrita, al quale sembra di procedere verso di essa invano. Quando siamo giunti laddove la rugiada di più resiste al calore del sole e, trovandosi in un posto all’ombra (oppure: con venticello)  lentamente si dirada, il mio maestro ha messo delicatamente le sue mani aperte sull’erbetta (sull’erba tenera): per cui io, che ho capito quello che (l’operazione che) stava per fare, ho avvicinato verso di lui le mie guance piene di lacrime (per la gioia della purificazione, del rinnovamento morale, della vita nuova che stava per iniziare); qui mi ha scoperto (mostrato, reso visibile) quel colore naturale del volto che la caligine infernale mi aveva nascosto.

Quindi siamo giunti sulla spiaggia solitaria (deserta), che non ha mai visto solcare le sue acque da uomo che poi sia stato capace di fare (l’esperienza del) ritorno (di trovare la via del ritorno, come era accaduto ad Ulisse, non sorretto dalla Grazia divina nel suo folle volo). Qui (Virgilio) mi ha cinto i fianchi con un giunco, così come aveva detto di fare Catone (ma altrui può essere anche la volontà di Dio): oh cosa meravigliosa! Perché l’umile pianta di giunco che Virgilio aveva scelto e staccata (strappata) era subito rinata nello stesso posto e identica a quella (tale e quale)…

Sul significato di questo primo canto-capitolo e anche della cantica in generale, Natalino Sapegno così ha commentato nel suo Purgatorio (La Nuova Italia): La libertà morale, che Dante va cercando per sé e per tutti gli uomini, l’ideale di un mondo nuovamente felice e abitato dalle virtù, possono essere conquistati solo attraverso un duro sforzo di purificazione ascetica, nell’umile ossequio a una legge che non ammette compromessi e debolezze. Il simbolo si dispiega in una sorta di rappresentazione rituale, che determina fin d’ora la struttura e il tono di tutta la cantica.

Su questo canto-capitolo introduttivo al Purgatorio un’ultima riflessione me la fa venire l’atteggiamento di eccessiva riverenza e di captatio di Virgilio verso Catone. Se il viaggio è voluto da Dio, perché tanta eccessiva riverenza? Virgilio avrebbe potuto liquidare ogni obiezione e osservazione di Catone con un vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandar e, invece, scuote Dante con le mani e con i cenni dello sguardo facendogli capire che deve genuflettersi e piegare il capo di fronte a un uomo di tale fatta. Evidentemente, Dante vuole che la finzione romanzesca sia quella che propone lui. La finzione serve proprio ad esaltare la figura eroica, romantica ante litteram di Catone per farne, appunto, spiccare la grandezza morale e spirituale, la valenza simbolica, paradigmatica in un mondo senza grandi esempi e modelli e senza grandi valori ed ideali per cui vivere e morire. E se è vero che Catone è una proiezione di Dante e che, insomma, Dante si identifica nel suo allegorico personaggio, allora è come se dicesse ai lettori di ieri e a tutti quelli di dopo che, noi miseri umani, con tutte le nostre miserie e attaccamento alle piccole cose, incapaci di volare alto come fa lui con la navicella del suo ingegno, dovremmo genufletterci, inginocchiarci (e dovremmo farlo tutti…) di fronte a lui e alla sua grandezza morale e spirituale che lo ha portato a riflettere su come sia possibile salvare e rendere felice gli uomini, su come sia possibile salvare un mondo che per un grande scrittore come Ernest Hemingway non è possibile essere salvato (salvi pure il mondo, chi vuole…, scrive alla fine di Morte nel pomeriggio) ma almeno solo ben compreso (purchè voi riusciate a vederlo con chiarezza e nell’insieme…). Dante l’aveva compreso benissimo e voleva anche salvarlo, in nome della felicità terrena e spirituale degli uomini. I quali, però, avrebbero dovuto fare un cambiamento etico a 360°: intraprendere la diritta via della virtù, del vivere secondo alti valori morali, con umiltà ma con tanta forza d’animo, con coerenza, con spirito di sacrificio e, insomma, con la paradigmatica saggezza stoica del pagano-cristiano Catone che, in nome della Libertà Morale (che è anche spirituale e politica), non ci pensò due volte a impugnare un’arma per trafiggersi ed evitare di vivere da servo. E per questo ha merito la salvezza dell’anima. Dante guarda la veneranda e austera figura di Catone e sembra guardare se stesso, sembra come se si guardasse in uno specchio. Per tutto questo, il suicidio di Catone è giustificato sia da Padri della Chiesa come sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino e dallo stesso Dante che, nella Monarchia, aveva esaltato l’inenarrabile sacrificium e nel Convivio aveva parlato di sacratissimo petto di Catone, arrivando a definirlo uomo più di ogni altro degno di significare Dio. Un po’ come Dante, no? Infatti, c’è chi ha definito il Sommo Poeta il quarto Cristo, dopo Socrate, Cristo e San Francesco. Uomini che per una loro Verità e per grande coerenza esistenziale sono stati disposti a pagare prezzi altissimi, fino al sacrificio della vita.