Trebisacce-27/01/2024: DANTE, IL CANTO XVIII DELL’INFERNO E IL ROMANTICISMO INGLESE (DI PINO COZZO)

 

DANTE, IL CANTO XVIII DELL’INFERNO E IL ROMANTICISMO INGLESE

DI PINO COZZO

 

Nel canto, si evince un desiderio del Poeta di precisione e di concretezza rappresentativa, ed una volontà di simmetria ed ordine, perfino sovrabbondanti. Dante attraversa le bolge, anzi le malebolge (e come potrebbe essere altrimenti!), dove incontra una schiera di dannati che vengono torturati da diavoli beffardi e crudeli, e gli abitanti sono divisi in due schiere, che si muovono l’una nel senso opposto all’altra. Vi è ovviamente un’aura di disordine e degrado, e vi abitano i ruffiani e i seduttori, da una parte, e nell’altra, gli adulatori, immersi in una conca di sterco. Il linguaggio è fondato sull’allitterazione dei termini che si succedono, per dare più forza ed impulso ai concetti, ed il tono dello stile è diverso dal solito, se non contrapposto. Lenta e quasi monotona la parte introduttiva, più rapida e incalzante la seconda, con l’immagine dei frustati e dei frustatori che ne sono protagonisti. Come pensavano alcuni poeti del Romanticismo inglese, l’uomo non può avere idea di qualcosa che sia più grande di lui, così come un bicchiere non può contenere qualcosa che vada altre la sua capacità, ma Iddio si è fatto uomo non perché venisse così percepito dagli uomini, ma perché è egli stesso creatore degli uomini. Quegli scrittori appartenevano a quella generazione di giovani il cui cuore aveva vibrato di felicità per la Rivoluzione francese e avevano formalmente condannato il movimento razionalistico del secolo precedente. Il Romanticismo fu dapprima un movimento letterario, e la eccelsa forza dei poeti fu l’immaginazione, che prese il posto della ragione per la soluzione della dicotomia della vita e della natura, insieme con l’amore per la bellezza e la passione per i sentimenti.  E Lord Byron, che creò una moda che si diffuse in tutta Europa e che sembrava meglio esprimere “le mal du siècle”, la cosmica ansia, il tumulto interiore, la povertà dello spirito di ribellione verso un ordine prestabilito, scrisse “Lei cammina in bellezza”. E ancora, il tema centrale di Keats delle più eccelse odi è quel particolare senso romantico del conflitto tra il reale e l’ideale, tra l’umana ansia dopo una vita di bellezza e felicità e la tragica realizzazione del dolore e della morte, come ultima realtà dell’umana esistenza nel mondo. L’unica certezza dell’uomo è la contemplazione del “bello”, che è anche verità. Il messaggio di Keats si evince anche negli ultimi due versi di “Ode su un’urna greca”: “La bellezza è verità, vera bellezza che è tutto ciò che conosci sulla terra, e tutto ciò che devi conoscere”. Allora, è difficile concepire un potere o un progetto in termini sovrannaturali, ed è il motivo per cui forse fatichiamo a pensare a Dio come essere perfetto, ritenendo che la completezza di qualcosa sia una qualità astratta ed avulsa dalla realtà. La pura perfezione porta a pensare al concetto di divinità come infinito, incomprensibile, imperscrutabile, lontano dalla nostra mente: “Quando Dio appare, Egli è luce per gli animi semplici che vivono nelle tenebre, ma mostra la sua natura umana a coloro che vivono nello splendore del giorno”. E’ la causa prima, che muove il Sole, la Luna e tutte le altre Stelle, mentre i nostri abissi di crudeltà, egoismo e follia ci fanno sprofondare ben al di sotto di tutto ciò che esiste in natura. Sì, perché noi vediamo molto meno di tante creature, ci muoviamo più maldestramente di tanti animali, la nostra forza è ben poca cosa in confronto ai felini, eppure, siamo stati messi nella condizione di governare e guidare il pianeta, onde poi comportarci in modo scellerato e distruttivo. Ma, per contro, ogni opera di civiltà dell’uomo, ogni modificazione o miglioramento provano come il potere sia comunque creativo e soprannaturale. Ed è forse per questo che si sente superiore alla natura, perché è infelice quando vive in essa. “Ogni granello di sabbia, ogni sasso della terra, ogni colle o monte, ogni corso d’acqua, ogni filo d’erba o albero rappresentano i Canti dell’esperienza e i Canti dell’Innocenza, laddove i primi sono legati all’immanente e al tangibile, mentre i secondi vivono nel mondo del romanticismo, dell’immaginazione, dell’aspetto spirituale e sentimentale, per sentirsi ed essere commisurati alla natura, in cui, profeticamente, si possa immaginare che ci si svegli dal sonno e si cerchi il suo mite creatore, e dove il selvaggio deserto diventi un ridente e rigoglioso giardino.