Trebisacce-28/03/2024: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del quarto canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo nel 2022. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salvatore La Moglie

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del quarto canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo nel 2022.  Protagonista è Belacqua, liutaio fiorentino, vecchio amico del Poeta e, soprattutto, grande pigro che fa l’elogio della lentezza e fa ridere Dante.

 

Il canto-capitolo IV ovvero il canto di Belacqua. Antipurgatorio. Primo balzo. Seconda schiera di negligenti nel pentirsi che, appunto per pigrizia, si pentirono solo in extremis, in fin di vita. Il liutaio fiorentino Belacqua, vecchio amico del Poeta e grande pigro, pigro quasi per antonomasia. Siamo all’incontro con il secondo amico ritrovato e al secondo amarcod sul dolce mondo e sulla dolce vita terrena fatta anche di scherzi, di preseingiro, di scambi di battute tra amici, di reciproca ironia che provoca il riso. E, infatti, come ai vecchi tempi, anche qui Dante ride. Il contrappasso per questa schiera è per evidente analogia: come in vita hanno tardato a pentirsi, così adesso ritardano il tempo della purificazione; sono stati pigri e oziosi sulla Terra e ora sono costretti ad esserlo anche nell’Aldilà, come espiazione della pena, e per lo stesso tempo trascorso in vita negligentemente e indolentemente; sono costretti a stare seduti all’ombra di grandi macigni, in atteggiamento, appunto, pigro e ozioso (Tutto si svolge nella mattinata del 10 aprile del 1300, dalle ore 9 fino alle 12).

 

Il canto-capitolo IV appare come una vera e propria digressione, una sorta di capitolo di pausa, distensivo, leggero, ironico, di una certa comicità fino al riso (il riso di Dante) dopo il pacato ma comunque drammatico e anche commovente racconto della vita di Manfredi, che ha pregato l’attento Dante di rivolgersi alla figlia Costanza affinchè preghi per lui in modo tale da poter ottenere uno sconto di pena e poter presto salire in Paradiso e godere della visione di quel Dio che, nel suo immenso Amore e nella sua immensa Misericordia, lo ha perdonato e accolto nelle sue braccia per sempre, nonostante i decreti dei burocratici e politicizzati uomini di chiesa, capaci solo di vendicarsi, in nome di Dio, ma non di perdonare. Non si pensi, però, che il racconto sia banale e di mera digressione: in Dante nulla è banale e, ha fatto bene un dantista importante come Giorgio Petrocchi a mettere in guardia dal banalizzare troppo la figura di Belacqua, a non ridurre la scena in cui è protagonista a una macchietta e, pertanto, ha invitato a una revisione, dell’episodio che lo riguarda, in senso antimacchiettistico.

Dante è stato così attento e così preso dal racconto di Manfredi da aver perso la cognizione del tempo e, pertanto, la nuova narrazione incomincia con tutto un discorso filosofico e poi astronomico. Dante finge di saper poco di astronomia ed essendo discepolo, fa fare a Virgilio una brillante lezione di astronomia in cui gli spiega la posizione del sole negli emisferi e la differenza di orario in un polo e in un altro. Se nell’emisfero australe, dove adesso si trovano loro, è mezzogiorno, in quello boreale è notte.

Tra una lezione di filosofia o di astronomia (insieme a precisi riferimenti geografici) e soprattutto di vita, bisogna ribadire che la Divina Commedia è davvero una straordinaria, inesauribile e preziosa miniera in cui si trova di tutto, dalla quale poter attingere tanto sapere e tanta saggezza, tanti pensieri, tante massime, tanti aforismi e riflessioni che non possono non arricchire il lettore attento e agguerrito, ma soprattutto disposto a penetrare a fondo l’enciclopedico testo dantesco e farne tesoro per la vita.

Dunque, vediamo come inizia a scrivere il distratto Dante e poi cercare di riassumere il suo discorso e la lezione di Virgilio a cui segue il ragionamento sulla salita del monte che quanto più si sale tanto meno diventa pesante, faticosa, come dire che se la via della purificazione e della salvezza è intrapresa con buona volontà e spirito non indolente e pigro, allora l’ascensione diventa sempre più leggera e facile:  Quando per dilettanze o ver per doglie, che alcuna virtù nostra comprenda, l’anima bene ad essa si raccoglie, par ch’a nulla potenza più intenda; e questo è contra quello error che crede ch’un’anima sovr’altra in noi s’accenda. E però, quando s’ode cosa o vede che tegna forte a sé l’anima volta, vassene ‘l tempo e l’uom non se n’avvede; ch’altra potenza è quella che l’ascolta, e altra è quella c’ha l’anima intera: questa è quasi legata e quella è sciolta. Di ciò ebb’io esperïenza vera, udendo quello spirto e ammirando; ché ben cinquanta gradi salito era lo sole, e io non m’era accorto, quando venimmo ove quell’anime ad una gridaro a noi: “Qui è vostro dimando”. Maggiore aperta molte volte impruna con una forcatella di sue spine l’uom de la villa quando l’uva imbruna, che non era la calla onde salìne lo duca mio, e io appresso, soli, come da noi la schiera si partìne. Vassi in Sanleo e discendesi in Noli, montasi su in Bismantova e ‘n Cacume con esso i piè; ma qui convien ch’om voli; dico con l’ale snelle e con le piume del gran disio, di retro a quel condotto che speranza mi dava e facea lume. Noi salavam per entro ‘l sasso rotto, e d’ogne lato ne stringea lo stremo, e piedi e man volea il suol di sotto. Poi che noi fummo in su l’orlo suppremo de l’alta ripa, a la scoperta piaggia, “Maestro mio”, diss’ io, “che via faremo?”. Ed elli a me: “Nessun tuo passo caggia; pur su al monte dietro a me acquista, fin che n’appaia alcuna scorta saggia”.

Lo sommo er’alto che vincea la vista, e la costa superba più assai che da mezzo quadrante a centro lista. Io era lasso, quando cominciai: “O dolce padre, volgiti, e rimira com’io rimango sol, se non restai”. “Figliuol mio”, disse, “infin quivi ti tira”, additandomi un balzo poco in sùe che da quel lato il poggio tutto gira. Sì mi spronaron le parole sue, ch’i’ mi sforzai carpando appresso lui, tanto che ‘l cinghio sotto i piè mi fue. A seder ci ponemmo ivi ambedui vòlti a levante ond’eravam saliti, che suole a riguardar giovare altrui. Li occhi prima drizzai ai bassi liti; poscia li alzai al sole, e ammirava che da sinistra n’eravam feriti. Ben s’avvide il poeta ch’ïo stava stupido tutto al carro de la luce, ove tra noi e Aquilone intrava.

Ond’ elli a me: “Se Castore e Polluce fossero in compagnia di quello specchio che sù e giù del suo lume conduce, tu vedresti il Zodïaco rubecchio ancora a l’Orse più stretto rotare, se non uscisse fuor del cammin vecchio. Come ciò sia, se ‘l vuoi poter pensare, dentro raccolto, imagina Sïòn con questo monte in su la terra stare sì, ch’amendue hanno un solo rizzò e diversi emisperi; onde la strada che mal non seppe carreggiar Fetòn, vedrai come a costui convien che vada da l’un, quando a colui da l’altro fianco, se lo ‘ntelletto tuo ben chiaro bada”.

“Certo, maestro mio”, diss’io, “unquanco non vid’io chiaro sì com’io discerno là dove mio ingegno parea manco, che ‘l mezzo cerchio del moto superno, che si chiama Equatore in alcun’arte, e che sempre riman tra ‘l sole e ‘l verno, per la ragion che di’, quinci si parte verso settentrïon, quanto li Ebrei vedevan lui verso la calda parte. Ma se a te piace, volontier saprei quanto avemo ad andar; ché ‘l poggio sale più che salir non posson li occhi miei”.

Ed elli a me: “Questa montagna è tale, che sempre al cominciar di sotto è grave; e quant’om più va sù, e men fa male. Però, quand’ella ti parrà soave tanto, che sù andar ti fia leggero com’a seconda giù andar per nave, allor sarai al fin d’esto sentiero; quivi di riposar l’affanno aspetta. Più non rispondo, e questo so per vero”.

E com’ elli ebbe sua parola detta, una voce di presso sonò: “Forse che di sedere in pria avrai distretta!”. Al suon di lei ciascun di noi si torse, e vedemmo a mancina un gran petrone, del qual né io né ei prima s’accorse. Là ci traemmo; e ivi eran persone che si stavano a l’ombra dietro al sasso come l’uom per negghienza a star si pone.

Dunque: Quando a causa di una sensazione intensa di gioia o dolore, che occupa pienamente una delle nostre facoltà sensitive, la nostra anima si concentra tutta su di essa, sembra non badare più ad altra sua potenziale facoltà; e questo contraddice la dottrina errata che sostiene che nell’uomo si formi un’anima dopo l’altra. (Si tratta della dottrina della pluralità delle anime attribuita a Platone e ai suoi seguaci, secondo cui nell’uomo vivono tre animevegetativa, sensitiva e razionale o intellettiva – che nascerebbero una dopo l’altra con il passare del tempo). E perciò (per questo) quando l’uomo vede o ascolta qualcosa che riesce a tenere la sua anima fortemente concentrata su di essa, (ebbene) il tempo passa (trascorre) senza che l’uomo se ne avveda (accorga); (ciò accade) perché (spiega molto bene Niccolò Tommaseo) una è l’essenza intellettiva e un’altra è l’essenza sensitiva che invade tutta l’anima, per cui mentre una è impedita (legata), l’altra, invece, è libera (sciolta) nella propria attività, perché l’attenzione dell’anima è rivolta altrove. Di questo io ho avuto reale (diretta) esperienza nell’ascoltare e ammirare (nel guardare con stupore) quell’anima (di Manfredi); infatti, il sole era salito di cinquanta gradi, e io non me n’ero accorto, quando siamo arrivati dove (nel luogo in cui) quelle anime, all’unisono, hanno gridato a noi: Questo è il punto (il luogo) di cui ci avete chiesto (per salire più agevolmente sul monte). (Insomma, Dante vuol dire che tutte le facoltà, le potenze della sua anima erano come concentrate e dirette verso un solo oggetto, cioè alla figura e al racconto di Manfredi, tanto che non si era avveduto che il sole era  salito di 50 gradi, per cui erano passate tre ore e venti minuti da quando era sorto).

Molte volte l’uomo di campagna (il contadino) quando l’uva diventa matura, per impedire che i ladri la rubino,  chiude con una forcatella, un piccolo fascio di rami spinosi ( di pruno) un’apertura più larga di quanto fosse il sentiero (il passaggio) stretto attraverso il quale Virgilio e io dietro a lui abbiamo iniziato la salita, dopo che la schiera di anime si è allontanata da noi. Con i soli piedi è possibile andare a Sanleo (cittadina presso Urbino) e discendere a Noli (città presso Savona) o salire a Bismantova (montagna dell’Appennino Emiliano); (luoghi certamente impervi e disagevoli) ma qui (sulle pareti rocciose del Purgatorio) è necessario che l’uomo voli (che si voli); intendo dire (parla per metafora) con le ali agili e con le penne del grande desiderio (di purificazione), seguendo la mia guida che mi dà speranza e fa da faro (illumina il mio cammino).

Noi salivamo attraverso il sentiero scavato nella roccia, e le sue pareti (le sponde, le fiancate) ci stringevano da entrambi i lati, e la ripidezza del suolo (che percorrevamo) richiedeva l’aiuto (l’uso) di mani e piedi. Dopo che noi siamo giunti al limite estremo delle alte pareti, in una parte che si trovava all’aria aperta (quindi era visibile), io ho detto: Maestro mio, (adesso) quale via seguiremo? (I due novelli alpinisti e turisti faidate sono alquanto stanchi e c’è il problema delle vertigini). Egli mi ha risposto: Nessuno dei tuoi passi cada (ritorni) indietro: procedi (avanza) in direzione del monte dietro di me (non andare né a destra e né a sinistra), finchè non incontriamo una guida che conosce il luogo (e ci può insegnare come procedere).

La cima (la vetta) della montagna era così alta che gli occhi non erano in grado di distinguerla (di vederla bene) e la fiancata (la costa) assai più ripida dei 45 gradi dell’angolo formato da una linea portata dal centro di un quadrante a quello del cerchio (ovvero una linea che tagli a metà un quadrante, il quarto di una circonferenza). Io ero stanco, quando ho cominciato a dire: O dolce padre (Virgilio lo chiama spesso figlio, figliuolo), voltati (verso di me) e osserva come io resterò indietro e solo se non ti fermi.

E Virgilio: Figliolo mio, trascinati fin qui (cerca di arrivare fino a quel punto), e mi ha indicato un ripiano (un balzo, uno spazio pianeggiante) che era situato un po’ più in alto, e che girava (cingeva) tutto il lato visibile del monte (insomma, un ripiano circolare).

Le sue parole mi hanno spronato così tanto, che io mi sono sforzato di proseguire carponi (carpando: invenzione dantesca!) dietro di lui, fino a quando sono arrivato al balzo (al ripiano). Qui ci siamo seduti, guardando verso levante (oriente), dalla parte da cui eravamo saliti, (oriente) verso il quale giova (è di buon auspicio) guardare. (Guardare verso levante era considerato di buon augurio, e un Dante comunque spaventato dall’impresa di salire la montagna del Purgatorio, di restare solo e senza la sicura guida di Virgilio, cioè della Ragione umana, ne aveva certo bisogno).

Io ho rivolto (diretto) prima gli occhi verso il basso (verso la spiaggia) poi li ho rivolti verso il sole (guarda giù e su),  e mi sono accorto, con stupore (meraviglia) che esso ci colpiva dal lato sinistro (mentre nel nostro emisfero avviene diversamente, cioè da destra). Virgilio si è subito reso conto (si è avveduto) del mio stupore, (del fatto) che io ero tutto concentrato sulla luce del sole (carro de la luce, immaginato come il cocchio di Apollo), nel punto in cui essa penetrava tra noi e il settentrione (Aquilone; si avvicinava il mezzodì).

Virgilio, adesso, deve spiegare a Dante (lezione di astronomia) perché il sole sorge e cresce sulla sinistra: Se la costellazione dei Gemelli (Castore e Polluce, i mitologici Dioscuri) fosse in compagnia del sole, che illumina i due emisferi (del Nord e del Sud), tu vedresti adesso il punto zodiacale rosseggiante per il sole che vi si trova e il sole ruotare ancor più a Nord (verso sinistra), più vicino al polo e all’Orsa Maggiore e all’Orsa Minore, a meno che non uscisse fuori dal suo abituale percorso (dalla sua solita antica via). Come questo avvenga, se tu vuoi saperlo, riflettendo dentro di te, pensa (immagina) che Gerusalemme (Sion) e questa montagna (del Purgatorio) siano disposti sulla Terra in modo tale che entrambi abbiano un unico orizzonte e diversi emisferi (stanno agli antipodi); se il tuo intelletto (sta ben attento), vede con chiarezza,  allora ti sarà chiaro (comprenderai) che il cammino percorso dal sole (il corso del sole) corso che Fetonte non seppe tenere nel guidare il carro (del Sole), appare qui dal lato sinistro, mentre a Gerusalemme sul lato opposto (cioè sulla destra). (Fetonte come prova di essere figlio di Apollo, gli aveva chiesto di guidare il carro del Sole ma, incapace di reggere la guida dei cavalli, lasciò le redini rischiando di far incendiare la Terra; Giove, però, riuscì a impedire questo fulminando il maldestro auriga).

Virgilio (la Ragione) è riuscito ad essere come sempre molto chiaro e Dante è soddisfatto della lezione: Certamente, maestro mio, mai ho visto così chiaramente una cosa come adesso che ben distinguo laddove il mio intelletto appariva insufficiente (non arrivava a capire) che cioè il cerchio intermedio del più alto dei cieli (il cielo cristallino), che in astronomia viene chiamato Equatore, e che rimane sempre tra il sole e l’inverno, per il motivo che hai spiegato, di qui si distacca verso settentrione proprio allo stesso modo, nella stessa misura in cui gli Ebrei, quando abitavano a Gerusalemme, lo vedevano lontano, estendersi verso Sud, verso la parte calda. (Insomma, Dante spiega, a sua volta, che l’equatore è tanto distante dall’isola del Purgatorio, circa 32° latitudine a sud del Tropico del Capricorno, quanto da Gerusalemme, uguale latitudine a nord del Tropico del Cancro).

Quindi Dante dice ancora a Virgilio: Ma se ti fa piacere, volentieri vorrei sapere quanto resta ancora da salire (quanta strada c’è ancora da fare?…), poiché il monte si estende verso l’alto più di quanto i miei occhi possano salire (per guardarla).

E Virgilio così replica: Questa montagna è di tale natura che risulta faticosa a chi inizia la salita da basso (oppure: quando si inizia dalla base, l’ascesa è sempre faticosa); ma l’uomo, quanto più va su (quanto più sale) tanto meno avverte (sente) la fatica (si fa meno sforzo). Perciò (per questo) quando essa ti sembrerà tanto dolce, leggera che per te sarà agevole (facile) così come andare su una nave seguendo la corrente (di un corso d’acqua), (ebbene) allora sarai arrivato alla fine di questo sentiero: aspetta di poterti risposare della stanchezza che hai (ma anche: dell’angoscia: affanno). Non so dirti altro a questo proposito, perché conosco come vero solo questo. (Dopo l’ascesa al Purgatorio ci sarà Beatrice a guidarti, a risponderti e a spiegarti cose alle quali la Ragione non riesce a dare risposte precise. In breve, il discorso di Virgilio, letto metaforicamente, significa che quanto più l’anima procede nella pratica della penitenza, tanto più si alleggerisce del peso delle colpe e va avanti rapida, spedita, sicura e serena).

A questo punto si presenta sulla scena un’ombra che, poi, si scoprirà essere quella di Belacqua: E come Virgilio ha finito di parlare, si è sentita lì vicino risuonare una voce (diretta verso Dante): Forse avrai bisogno si sederti anche prima (di arrivare alla meta, cioè sulla cima del monte)!

Al suono di questa voce, entrambi ci siamo voltati, e abbiamo visto, sulla sinistra, una grande pietra (o sasso, macigno che appare un vero e proprio stratagemma narrativo per introdurre quel grande pigro di Belacqua), della quale né io e né Virgilio ci eravamo accorti prima. Ci siamo diretti (recati, siamo andati) lì (verso la grande pietra): c’erano delle anime che stavano sedute all’ombra dietro il macigno, come fa l’uomo, con l’atteggiamento proprio di chi sta fermo per pigrizia (indolenza, inerzia).

Chi è Belacqua? Innanzitutto, un soprannome, un nomignolo affibbiato a Duccio di Bonavia dai suoi concittadini fiorentini probabilmente per il vizio di alzare il gomito, di bere abbastanza (certamente vino, come se fosse acqua…). Duccio era un liutaio e fabbricava liuti e chitarre. Viveva nel quartiere di San Prococlo, che era molto vicino all’abitazione (in San Martino) di Dante, il quale era suo grande amico e frequentava la sua bottega. Durante le lunghe complici chiacchierate, certamente scherzavano, facevano battute, ridevano, ironizzavano fino al sarcasmo, si facevano beffe di qualcuno o qualcosa (anche di se stessi), creavamo delle gag, delle scene comiche, umoristiche e, insomma, si divertivano ognuno dicendo la sua. Momenti di spensieratezza, di leggerezza per evadere un po’ dalla realtà e dalle banalità quotidiane, appunto per alleggerirsi un po’ la vita, renderla meno pesante.

Belacqua era famoso per la sua eccesiva, estrema indolenza e pigrizia. Secondo l’Anonimo Fiorentino,  pare che in bottega stava sempre seduto e si alzava solo per mangiare e dormire, e che, a chi lo rimproverava o prendeva in giro per questa sua grande pigrizia (lo stesso Dante, per es.), lui rispondeva con una frase, un aforisma di Aristotele: Sedendo et quiescendo anima efficitur sapiens, cioè stando seduti e riposando si diventa più saggi. Dante gli aveva risposto con ironia sottile e beffarda, ma amichevole, affettuosa, non diretta ad offendere (c’era molta complicità nel loro rapporto e grande capacità di fare anche autoironia, che è cosa abbastanza rara) che se per stare seduti si diventava saggi, allora nessuno più di lui (di Belacqua) lo era: nessuno fu mai più savio di te. Gli dà dello sciocco affettuosamente e con il sorriso sulle labbra.

La voce di Belacqua – fa notare acutamente il Sapegno – sembra sorgere dalla coscienza stessa del poeta, ed esprimere le esigenze e i bisogni realistici della sua carne fragile [quasi dall’inconscio, direbbe Freud, aggiungo io…], così come le parole solenni di Virgilio traducono lo slancio ideale dell’animo. Il conflitto, che si svolge nell’intimo di Dante, è oggettivato e sceneggiato in una pagina di sottile e non facilmente definibile intonazione, con trapassi improvvisi e imprevedibili dal comico al malinconico e al riflessivo, dal bozzetto alla parabola; in uno spirito di indulgenza, che in Dante non è cosa comune, e qui si appoggia a uno spunto autobiografico e alla rievocazione di una consuetudine affettuosa. Nell’ironia un po’ stanca e sottile delle battute di Belacqua, nel tono scherzoso delle repliche di Dante, circola un senso di amicizia viva e caritatevole, sebbene contenuta e mascherata dietro la tacita e accettata convenzione di un rapporto sorridente, tutto fatto di ammicchi e di accenni e restio alla rettorica delle effusioni sentimentali. Del resto Belacqua esprime un’esigenza che è valida in sé: le sue osservazioni sono anche un richiamo alla realtà e alla normalità del buon senso. Lo slancio dello spirito deve pur fare in ogni momento i conti con la fragilità della carne, e nella loro consuetudine quotidiana e obbligata si stabilisce un rapporto che è insieme di contrasto e di collaborazione, polemico ma cordiale, come tra due compagni di strada che si conoscono ormai troppo bene e provano gusto a pungersi di tanto in tanto, ma finiscono poi con l’aiutarsi e sorreggersi a vicenda. Il significato dell’episodio di Belacqua, con la sua sostanza aneddotica e “fiorentina” di un sapore così fresco e vero, si precisa nell’unità strutturale del canto, in quel clima di fervida e pur laboriosa ascesa; e deriva il suo sapore dal difficile equilibrio con cui il poeta riesce a contemperare gli elementi realistici della rappresentazione con le ragioni morali della struttura.

Una lettura che voglia tenersi aderente al testo deve guardarsi sia dall’accentuare troppo i motivi comici, che qui Dante tratta con mano così lieve e affettuosa, sia anche dal perderli di vista attribuendo al personaggio il valore catartico che è piuttosto dell’episodio nel suo complesso: richiamo a una considerazione meno improvvida e baldanzosa delle difficoltà che attendono ancora di esser superate; esortazione alla pazienza e al docile abbandono in Dio.

Commento che ci appare anche come una sorta di ideale risposta al monito del Petrocchi, che si è più sopra citato. Insomma, il canto-capitolo di cui è protagonista Belacqua, nella sua parte terminale, non è per nulla banale e oltre a implicare metaforici problemi di coscienza, sembra anche riguardare la sfera dell’inconscio, della nostra psiche, della nostra vita interiore che si dibatte, che appare sempre in conflitto tra esigenze morali, etiche e desiderio di evasione, svago, spensieratezza, voglia di godere anche delle piccole cose della vita, anche di poter essere magari pigro fino all’indolenza e alla noia.

Dunque, vediamo come si svolge la scena vicino al macigno dove si è adagiato un gruppo di  spiriti pigri e accidiosi: E un di lor, che mi sembiava lasso, sedeva e abbracciava le ginocchia, tenendo ‘l viso giù tra esse basso. “O dolce segnor mio”, diss’io, “adocchia colui che mostra sé più negligente che se pigrizia fosse sua serocchia”. Allor si volse a noi e puose mente, movendo ‘l viso pur su per la coscia, e disse: “Or va tu sù, che se’ valente!”.

Conobbi allor chi era, e quella angoscia che m’avacciava un poco ancor la lena, non m’impedì l’andare a lui; e poscia ch’a lui fu’ giunto, alzò la testa a pena, dicendo: “Hai ben veduto come ‘l sole da l’omero sinistro il carro mena?”.

Li atti suoi pigri e le corte parole mosser le labbra mie un poco a riso; poi cominciai: “Belacqua, a me non dole di te omai; ma dimmi: perché assiso quiritto se’? attendi tu iscorta, o pur lo modo usato t’ha’ ripriso?”.

Ed elli: “O frate, andar in sù che porta? ché non mi lascerebbe ire a’ martìri l’angel di Dio che siede in su la porta. Prima convien che tanto il ciel m’aggiri di fuor da essa, quanto fece in vita, per ch’io ‘ndugiai al fine i buon sospiri, se orazïone in prima non m’aita che surga sù di cuor che in grazia viva; l’altra che val, che ‘n ciel non è udita?”.

E già il poeta innanzi mi saliva, e dicea: “Vienne omai; vedi ch’è tocco meridïan dal sole, e a la riva cuopre la notte già col piè Morrocco”…

Dunque: E un di loro (di quegli spiriti pigri), che mi sembrava stanco (affaticato) stava seduto abbracciando le ginocchia, e teneva il viso abbassato tra di esse (tipico proprio del nullafacente…). E ho detto a Virgilio: O mio dolce signore, osserva (guarda attentamente) colui che mostra (si rivela) essere più negligente di quanto sarebbe se la pigrizia fosse sua sorella. (Questa è la battuta bonariamente ironica, sferzante di Dante, la frecciata che rivolge a suo vecchio amico, facendogli capire che l’ha riconosciuto).

Allora si è voltato verso di noi, e ci ha guardato attentamente (cercando con la mente di capire chi eravamo), muovendo il volto a livello delle cosce (cioè basso, quel tanto che bastava per poter guardare: anche questo un segno della sua grande pigrizia…), e ha detto (pure lui con ironia affettuosamente beffarda): E allora sali tu, che sei tanto capace (visto che sei così bravo)!

Allora (nel sentire quelle parole) ho capito chi era (di chi si trattava) e quell’angoscia (ansia unita a stanchezza per la salita) che mi accresceva (accelerava) un po’ il respiro, non mi ha impedito di andare da lui; e dopo che sono arrivato dov’era lui (vicino a lui) ha sollevato (alzato) appena la testa, dicendo (con sottile ironia sull’inutile, secondo lui, interesse di Dante per la posizione del sole: cosa può interessare ad un pigrone come lui il problema che si era posto Dante?… E, poi: che inutile fatica voler capire, voler per forza approfondire, andare al fondo delle cose!…): Ti sei reso ben conto di come il sole procede (percorre) la sua strada da sinistra (sul lato, sulla parte sinistra)? (Fanno notare opportunamente i già citati Fallani e Zennaro che la cultura, che richiede sforzo e sacrificio, è per i pigri e gli ignavi, come dirà con pungente sarcasmo il Leopardi, “argomento di riso e di trastullo”). I suoi gesti, atti da pigro (e indolente) e le poche parole che ha detto, hanno mosso le mie labbra a sorridere (mi hanno spinto un po’ al riso; un riso lieve, sottile, che aleggia su tutta questa parte del canto-capitolo); poi ho iniziato a parlare: Belacqua, vedendo che sei salvo, ormai non mi preoccupo (più di tanto di cosa era stato di te); ma dimmi: perché te ne stai seduto proprio qui? Stai aspettando una guida, o l’antica abitudine (l’antico vizio) della pigrizia ti ha preso (afferrato) anche qui, ti sei fatto vincere dalla tua (proverbiale…) indolenza (dopo averla scacciata per esserti pentito in fin di vita)?

E lui: O fratello, a cosa giova (serve) salire (cercare di salire il monte)? (Non servirebbe a nulla) poiché l’angelo di Dio (che sta a guardiano della porta del Purgatorio) non mi consentirebbe di andare a purificarmi (non mi farebbe passare per  entrare e affrontare le pene della purificazione). Occorre (è necessario) che il sole mi giri intorno, mentre sto fuori di quella porta (oppure: prima di varcare quella porta), per lo stesso tempo in cui mi ha girato intorno sulla Terra (quand’ero vivo), poiché io ho indugiato a pentirmi se non alla fine dei miei (ultimi buoni) respiri (cioè in extremis, all’ultimo momento), a meno che non mi aiuti la preghiera fatta da (che nasca da) persona viva che sia nella Grazia di Dio (per poter avere uno sconto di pena); la preghiera di altri (che non siano in grazia) a che serve (a cosa vale), se non è ascoltata dal cielo (da Dio)?

Il pigro e arguto Belacqua è preso dalla tristezza e dalla malinconia perché trema al pensiero che sulla Terra non ci sia nessuno che possa consentirgli un respiro di sollievo, ovvero uno sconto di pena e che, dunque, debba penare tantissimo (tanti anni quanti ne ha passato in vita prima di pentirsi) per poter accedere al Purgatorio. E, così, al tempo delle gag, al momento dell’affettuosa ironia e della reciproca amichevole beffa è subentrato il pensiero contingente del tempo che dovrà trascorrere ancora per poter acquistare la salvezza dell’anima, si è tornati alla realtà dopo aver tentato la fuga da essa scherzando come si faceva una volta nel dolce mondo. Dal sogno si è passati alla realtà, dalla poesia alla prosa. E a svegliare entrambi, e soprattutto Dante, in maniera alquanto brusca (ma per il loro bene), è Virgilio (la Ragione), che ha seguito l’amabile conversazione tra il discepolo e il suo antico amico dei bei tempi andati e si è già messo alla testa del cammino, è già alcuni passi più avanti di Dante sulla via della salita che porta alla salvezza (lui deve dare l’esempio, deve spronare) e con tono da imperativo categorico gli comanda di seguirlo: Vieni via da qui ormai; come puoi vedere il meridiano è toccato dal sole (cioè è mezzogiorno nell’emisfero australe), mentre la notte si distende nell’altro emisfero (boreale) fino alla riva dell’oceano e al Marocco (cioè all’estremo confine occidentale dell’ecumene, della terra abita)…

Insomma, Virgilio (la Ragione ma anche la Coscienza), con tono di rimprovero, invita Dante (e lo stesso Belacqua) alle proprie responsabilità e a non perdere tempo (il tempo vola ed è prezioso: chè perder tempo a chi più sa più spiace…), se si vuole proseguire nella liberazione dal Male, raggiungere la meta della purificazione e della beatitudine, che non sono cose facili da raggiungere ma costano grandissima fatica, tanta forza di volontà, tanta costanza della ragione unite a quelle della fede e della speranza.

Quel pigrone di Belacqua mi ha fatto andare con la mente a quel maestro di umorismo che è stato Jerome K. Jerome, l’autore di Tre uomini in barca: Non posso starmene in ozio e vedere un altro uomo che fatica come uno schiavo. Voglio alzarmi e dirigere il lavoro, voglio passare qua e là con le mani in tasca e dirgli che cosa deve fare. È la mia indole traboccante di energie. Non posso farne a meno…E ancora: Io ho sempre l’impressione di fare molto più lavoro del dovuto. Non che sia contrario al lavoro, intendiamoci, il lavoro mi piace, mi affascina. Posso starmene seduto a guardarlo per ore…      

Il caso Belacqua fa venire, però, anche una domanda: la pigrizia è poi una cosa, un male così grave? Credo che dipenda da come venga intesa e usata: se fine a se stessa, se come mero far niente (il dolce-far-niente), allora è un male senza se e senza ma, in quanto si rivela  assolutamente inutile e dannosa. Anche il grande Gioachino Rossini si dice che fosse molto pigro, ma uno strano pigro, perché, in verità, era molto operoso: un giorno, un testo musicale, appena composto, gli era caduto per terra e lui, pur di non staccarsi dalla sedia per prenderlo, ha preferito riscriverlo….

Vita di un perdigiorno è il titolo di un romanzo di Joseph von Eichendorff ma il vagare, l’andare in giro del protagonista, alla fine, gli servirà come esperienza di vita, come formazione; Oblomov è il titolo del celebre romanzo di Ivan Gončiarov e oblomovismo è il neologismo creato per indicare il carattere del personaggio: un uomo indolente, eternamente pigro, inattivo, inetto alla vita (direbbe Svevo) che vive buttato su un divano o sul letto; La lentezza è il titolo di un romanzo di Milan Kundera che fa l’elogio, appunto, della lentezza, del procedere senza stress nella vita stressante e logorante della postmodernità che impone certi ritmi frenetici e ci riduce ad automi; lentezza da opporre a velocità: la lentezza favorisce meglio il ricordo, la velocità induce a dimenticare presto e, dunque, la lentezza come valore positivo.

Il diritto alla pigrizia è il titolo del pamphlet pubblicato nel 1883 dal genero di Carlo Marx, Paul Lafargue, comunista come il suocero: contro la nefasta ideologia del lavoro della società borghese, egli sosteneva il diritto all’ozio inteso come l’otium dei Latini, cioè come tempo libero per gli uomini da dedicare alla cultura, al sapere, all’informazione contro l’alienazione del tempo e dei ritmi estenuanti del lavoro schiavistico imposto dalla società capitalistica e industriale che vuole che l’uomo si dedichi esclusivamente al lavoro e che non abbia altro nella sua testa che il pensiero di lavorare e di produrre. Per lavorare, afferma, bastano anche poche ore al giorno, mentre tutte le altre ore andrebbero dedicate alla nostra vita intellettuale e (ri)creativa.

Lungo questa linea appare anche un libro del 2006 pure molto interessante e provocatorio: L’ozio come stile di vita di Tom Hodgkinson. Per capire il suo pensiero in merito, bisogna citare almeno un brano che si legge nella prefazione: Oziare significa essere liberi, e non soltanto di scegliere fra McDonald’s e Burger King o fra Volvo e Saab. Significa essere liberi di vivere la vita che vogliamo fare, liberi da capi, salari, pendolarismo, consumo, debiti. Oziare significa divertimento, piacere e gioia…Insomma, l’ozio non è poi quel padre di tutti i vizi che si dice, e il tempo libero e l’ozio servono per poterci riappropriare della nostra vita e poterci dedicare alle più elevate attività dello spirito. L’autore sostiene che la religione dell’industria ha trasformato gli esseri umani in robot del lavoro, che il lavoro ci ruba il tempo e che la nostra civiltà industriale e delle  macchine crea ansia e disagio.

A nostro modo di vedere, queste analisi non hanno torto e siamo convinti che il tempo della cultura sottratto all’uomo è uno dei più grandi crimini contro l’umanità, ma la società del denaro e del profitto, che già Dante detestava tanto, impone il suo comando e la logica del fare denaro, dell’accumulare ricchezze che, poi, sono soltanto di poche migliaia di paperoni in tutto il pianeta mentre alcuni miliardi di esseri umani non fanno che sopravvivere e altri milioni ancora sono alla fame per l’egoismo degli altri. Quell’egoismo che il Sommo Poeta non tollerava e che vedeva come fonte di tanto negativo che c’è sulla nostra Terra, che potrebbe essere un vero Paradiso se basato sull’onestà, sull’amore, la fratellanza, la solidarietà, la giustizia, ecc. Se l’uomo rivedesse un po’ tutto il sistema su cui ha finora basato la modalità di esistenza sul nostro pianeta, con tutte le cose che non vanno per la cupidigia di ricchezze dei ceti dominanti e di tante nazioni da essi guidate, ebbene potremmo tutti star meglio e certamente più felici e più sereni. Ma per tutto questo occorrerebbe una rivoluzione culturale e mentale a 360°, per cui al centro dovrebbe esserci l’uomo e il bene comune e non il proprio particulare, il proprio meschino interesse privato e, dunque, non il detestabile Io (direbbe Pascal) ma il Noi. Dante lo sapeva benissimo e per questo ha scritto la Divina Commedia, per lui utopia realizzabile.

Ritornando sul tema prigrizia, e quello che può essere ad essa collegabile, i libri sono davvero tanti. Per es., ce n’è uno molto interessante, pubblicato nel 2014, L’elogio della lentezza, scritto da Lamberto Maffei, eminente neuroscienziato e già presidente dell’Accademia dei Lincei (fino al 2015), nel quale c’è un invito a ripensare il nostro modo di vivere e ad uscire dalla logica fagocitante del macchinismo, della velocità, della tecnologia e dei suoi ritmi alienanti (specialmente in tempi di globalizzazione), in nome della salvezza dei ritmi e dei tempi della nostra mente, del pensiero, che non deve procedere a tutti i costi velocemente e, pertanto, la lentezza come valore da ripensare e da contrapporre al declino della razionalità, alla crisi dei valori, al consumismo compulsivo e omologante indotto dalla società dei consumi. Per Maffei è importante valorizzare il tempo e la nostra stessa vita per poter preservare il nostro cervello, che è una splendida macchina che ha, però, bisogno dei suoi tempi, ha bisogno della lentezza e non della velocità fagocitante dei tempi postmoderni.

Infine, anche il grande filososo Bertrand Russell, in nome dell’importanza della riflessione in un mondo che corre veloce, nel 1932, aveva fatto il suo Elogio dell’ozio, inteso nella sua valenza positiva, come ozio creativo, attivo e non passivo, mentre di recente, in piena pandemia da Coronavirus (o Covid-19), è stato Gianfranco Marrone a scrivere un libro dal titolo provocatorio: La fatica di essere pigri, in cui, proprio in seguito agli effetti della pandemia, fa sapere che gli italiani, in fondo, non sono quei fannulloni che si dice siano e fa intendere che occorre ripensare la nostra scala dei valori e un po’ tutta la nostra vita sottoposta a tempi e ritmi stressanti, spesso insostenibili, che rendono la nostra esistenza di scarsa qualità…

Insomma, come scrive Ernst Jünger in Al muro del tempo, all’uomo occidentale, che apparentemente sembra avere tutto, manca la scienza della felicità perché gli manca il tempo e l’uomo che non ha il tempo…è difficile che abbia la felicità. Potremmo ancora fare altre citazioni ma il nocciolo è che Dante non condanna, non rimprovera (magari con benevolo, amichevole sorriso) l’ozio inteso come otium, come tempo della cultura, dell’arricchimento intellettuale della persona, della vita morale e spirituale, il tempo vissuto come sinonimo di saggezza e di vera felicità, ma l’ozio inattivo, fine a se stesso, la pigrizia accidiosa, l’inerzia, il tempo e la vita sprecate nel nulla, senza combinare alcunché per sé e per gli altri. Intanto, noi immaginiamo quel simpatico pigrone di Belacqua che, come il Rocco Spatu dei Malavoglia di Verga, il giorno dopo, da buon ozioso del paesino-antipurgatorio, sarebbe stato il primo di tutti a cominciar la sua giornata. Magari per poter stare più degli altri espianti a ridosso di un grande macigno e poter ammazzare più degli altri la noia. Tanto (citando il titolo di un vecchio e famoso film) il paradiso può attendere….