Trebisacce-25/04/2024: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del quinto canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo nel 2022. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salvatore La Moglie

 

 

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del quinto canto del Purgatorio di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo nel 2022.  Protagonista è Pia de’ Tolomei, vittima di un femminicidio. In poche terzine, dante racconta tutta una vita, riesce a far parlare anche i silenzi.

Il canto-capitolo V ovvero il canto di Pia de’ Tolomei. Antipurgatorio. Secondo balzo. I negligenti morti di morte violenta. Si tratta di una terza categoria, schiera di negligenti, pentiti in extremis quando la loro fine improvvisa e violenta li ha spinti verso l’Aldilà. Jacopo del Cassero, Buonconte da Montefeltro e Pia de’ Tolomei, vittima di un femminicidio, immortalata da Dante con soli sette versi, al termine del canto-capitolo proprio affinchè al lettore resti impressa la triste e commovente storia di Pia. Storie di delitti e di cadaveri eccellenti su cui la Letteratura si incarica di far luce e di ristabilire la verità. Il contrappasso per questa schiera è uguale a quello della schiera precedente. Cantano il Miserere per invocare la misericordia divina. (Tutto si svolge da mezzogiorno fino alle 3 del pomeriggio del 10 aprile del 1300).

Dopo il colloquio così terreno e così affettuoso tra i due vecchi amici, Virgilio ha bruscamente richiamato Dante al principio di realtà (dopo essersi un po’ abbandonato al piacere della conversazione con quell’amabile pigrone di Belacqua); richiamo che prosegue strada facendo: lascia stare quei pigri e negligenti e affrettati a seguirmi, lasciando dire alla gente quello che vogliono; tu, però, devi stare ben fermo come una torre che non crolla neppure al soffiare di forti venti; perché quando nell’uomo si accavallano più pensieri, si rischia  di debilitare un pensiero a causa di altri…E cosa poteva replicare se non di sì il povero Dante, diventato rosso per la vergogna di aver provocato il rimbrotto di Virgilio (della Ragione) per la leggerezza di conversare amabilmente, in fiorentino popolare con quel super-pigro di Belacqua?

Intanto, le anime di quella schiera da cui si è appena allontanato per seguire la sua guida, si sono accorte che Dante fa ombra con il corpo e che, insomma, è uomo vivo e vegeto. Virgilio spiega e scioglie il momento di stupore e di incredulità di quegli spiriti negligenti. Quindi, i due scalatori-turisti-improvvisati incontrano, lungo il fianco del monte, una nuova schiera di anime che procedono cantando il Miserere, che pure si avvedono del fatto che Dante è in carne ed ossa. Anche questa volta è Virgilio a spiegare e, siccome si tratta di un vivo, chiedono di essere ascoltate e che, una volta tornato sulla Terra, porti, di loro, notizie ai vivi. Dante finge di non riconoscerle ma che intende ascoltare i loro racconti. Così, dopo aver confessato di essere anime negligenti dell’ultima ora, quelle pentite in extremis, tre di loro si faranno avanti e inizieranno a raccontare la propria storia finita con la morte violenta (morti per forza): Io era già da quell’ombre partito, e seguitava l’orme del mio duca, quando di retro a me, drizzando ‘l dito, una gridò: “Ve’ che non par che luca lo raggio da sinistra a quel di sotto, e come vivo par che si conduca!”.

Li occhi rivolsi al suon di questo motto, e vidile guardar per meraviglia pur me, pur me, e ‘l lume ch’era rotto. “Perché l’animo tuo tanto s’impiglia”, disse ‘l maestro, “che l’andare allenti? che ti fa ciò che quivi si pispiglia? Vien dietro a me, e lascia dir le genti: sta come torre ferma, che non crolla già mai la cima per soffiar di venti; ché sempre l’omo in cui pensier rampolla sovra pensier, da sé dilunga il segno, perché la foga l’un de l’altro insolla”.

Che potea io ridir, se non “Io vegno”? Dissilo, alquanto del color consperso che fa l’uom di perdon talvolta degno.

E ‘ntanto per la costa di traverso venivan genti innanzi a noi un poco, cantando ‘Miserere’ a verso a verso. Quando s’accorser ch’i’ non dava loco per lo mio corpo al trapassar d’i raggi, mutar lor canto in un “oh!” lungo e roco; e due di loro, in forma di messaggi, corsero incontr’a noi e dimandarne: “Di vostra condizion fatene saggi”.

E ‘l mio maestro: “Voi potete andarne e ritrarre a color che vi mandaro che ‘l corpo di costui è vera carne. Se per veder la sua ombra restaro, com’io avviso, assai è lor risposto: fàccianli onore, ed esser può lor caro”.

Vapori accesi non vid’io sì tosto di prima notte mai fender sereno, né, sol calando, nuvole d’agosto, che color non tornasser suso in meno; e, giunti là, con li altri a noi dier volta, come schiera che scorre sanza freno. “Questa gente che preme a noi è molta, e vegnonti a pregar”, disse ‘l poeta: “però pur va, e in andando ascolta”.

“O anima che vai per esser lieta con quelle membra con le quai nascesti”, venian gridando, “un poco il passo queta. Guarda s’alcun di noi unqua vedesti, sì che di lui di là novella porti: deh, perché vai? deh, perché non t’arresti? Noi fummo tutti già per forza morti, e peccatori infino a l’ultima ora; quivi lume del ciel ne fece accorti, sì che, pentendo e perdonando, fora di vita uscimmo a Dio pacificati, che del disio di sé veder n’accora”.

E io: “Perché ne’ vostri visi guati, non riconosco alcun; ma s’a voi piace cosa ch’io possa, spiriti ben nati, voi dite, e io farò per quella pace che, dietro a’ piedi di sì fatta guida, di mondo in mondo cercar mi si face”.

Dunque: Io mi ero già allontanato da quelle anime, e seguivo le orme della mia guida, quando dietro a me, indicandomi col dito (additandomi) una (di esse) ha gridato: Guarda come il raggio del sole non sembra che illumini (dia luce) dalla parte sinistra (da sinistra) a quello (Dante) che cammina dietro e pare che si comporti (si atteggi) come un vivo!

Nel sentire il suono di queste parole, ho voltato gli occhi (lo sguardo) e ho visto che (quegli spiriti) guardavano per meraviglia (stupore) solo me, solo me e la mia ombra che era proiettata sulla terra.

Virgilio ha detto (con tono di rimprovero): Perché il tuo animo si lascia distrarre (irretire) tanto da farti rallentare (ritardare) il cammino? Cosa ti importa di quello che le anime qui bisbigliano (mormorano)? Vieni dietro di me (seguimi) e lascia pure che le anime  parlino (che la gente parli pure!…): Tu devi stare fermo come una torre (comportati con fermezza, fermo e saldo come una torre, ben salda nelle sue fondamenta), che non si muove (non si scrolla) neppure nella sua cima (nella sua parte alta) nonostante il soffiare (violento) dei venti; perché l’uomo, nel quale continuamente un pensiero nasce dopo un altro pensiero, allontana da sé il fine (la meta verso cui è diretto), poiché (in quanto) l’ardore del pensiero che sopraggiunge (che si accavalla) indebolisce il precedente (perché il nuovo pensiero indebolisce, attutisce l’ardore, la forza, il vigore dell’altro). (Insomma, Virgilio richiama ed esorta Dante alla necessità di muoversi con sollecitudine sulla via della salvezza, proprio perché la negligenza di quelle anime può essere motivo di distrazione e di rallentamento verso l’obiettivo, la meta da conseguire con grande forza, volontà e caparbietà e, pertanto, non bisogna farsi distrarre da nuovi pensieri e concentrarsi unicamente su uno solo: salvezza!).

Che cosa avrei potuto rispondere (replicare a quelle parole così ferme) se non: Io vengo (ti seguo)? E (infatti) ho detto così, con il volto alquanto cosparso di rossore, che talvolta rende l’uomo degno di perdono (per il fatto di mostrare vergogna e pentimento). E, intanto, lungo il costone (il fianco, la parete) del monte (ma in senso trasversale rispetto alla direzione dei due Poeti), venivano (avanzavano) anime un po’ più in alto di noi, cantando il Miserere (Salmo L; perché invocano la misericordia divina) versetto dopo versetto (un versetto dopo l’altro). Quando si sono avvedute (accorte) che con il mio corpo impedivo (non lasciavo passare) i raggi del sole (e cioè si sono accorte della mia ombra), hanno cambiato il loro canto in un lungo (prolungato) e rauco oh! (cioè una lunga esclamazione di stupore); e due di loro, al modo dei messaggeri (come fanno i messaggeri) sono corsi verso di noi e ci hanno chiesto: Fateci sapere (fateci consapevoli, informateci) della vostra condizione.

E Virgilio: Voi potete tornare indietro e riferire a chi vi ha mandato (per sapere) che il corpo di costui (Dante) è (di uomo) vivo (un corpo reale, in carne ed ossa). (E come a se stesso:) Se, come penso (ritengo) si sono fermati (stupiti) per il fatto di aver visto la sua ombra, (allora) questa mia risposta è più che sufficiente (è abbastanza esauriente a soddisfare la loro curiosità); (quindi) lo accolgano (Dante) con onore (con cortesia) perché può tornare loro utile (può giovare loro, possono trarne vantaggio in quanto Dante, una volta tornato nel mondo dei vivi, potrà chiedere preghiere per loro che, pertanto, potranno usufruire di sconti di pena).

Io non ho mai visto stelle cadenti (vapori accesi) attraversare (fendere) all’inizio della notte, il cielo né, al tramontare del sole, lampi fendere le nuvole nel mese di agosto, con una velocità (rapidità) uguale a quella con cui le anime (inviate come messaggeri) hanno impiegato per risalire (tornare su) dalle altre per portare l’informazione; e, giunte là, insieme alle altre, sono ritornate (in discesa) verso di noi come una schiera che si muove (corre) disordinatamente (sfrenatamente e, quindi, pericolosamente…). (Le anime dell’Antipurgatorio sono quasi tutte accomunate, oltre che dal desiderio di essere ricordati nel mondo dei vivi, soprattutto dall’ansia di poter ottenere degli sconti di pena, di poter abbreviare il periodo della loro penitenza nell’anticamera del Purgatorio; inoltre, lo stato d’animo di molti di loro è quello tristissimo di sapere che nel mondo non hanno nessuno che pensi più a loro e che possa pregare per loro; insomma, sanno di non aver lasciato – direbbe Foscolo – eredità di affetti, ed è proprio vero che tra le cose più terribili della nostra vita c’è quella di essere dimenticati).

Virgilio ha detto: Questa gente che si accalca (preme) verso di noi è numerosa, e vengono per pregarti (per rivolgerti preghiere) perciò (in ogni modo) tu continua a camminare e, camminando, (mentre cammini) ascolta (le loro parole, non negarti alle loro richieste).

Le anime procedevano (camminavano, venivano) gridando come in coro (all’unisono; qui c’è captatio benevolentia): O anima, che per raggiungere la beatitudine, compi questo viaggio con le membra con cui sei nata (cioè con il corpo), ferma (rallenta) il tuo passo (la tua andatura). Osserva, guarda bene se hai mai visto (conosciuto) qualcuno di noi, in modo che di lui potrai portare sue notizie (sulla Terra): Deh (deh è un’esclamazione toscana che precede una preghiera, una richiesta, un’esortazione o un desiderio), ma perché continui a camminare? (perché non ti fermi? Dante, che segue il consiglio del maestro, appare insensibile di fronte all’ansia e alle preghiere di quelle anime, ma non è così). Noi tutti (tutti quelli che vedi) siamo morti di morte violenta (siamo stati uccisi con la forza, e siamo stati) peccatori fino all’ultima ora (all’ultimo momento della nostra vita, cioè si sono pentiti in extremis); ma in quel momento la luce di Dio ci ha tanto illuminati e resi consapevoli che, pentendoci dei nostri peccati e perdonando ai nostri nemici (e ai nostri assassini), siamo usciti dalla vita terrena pacificati (riconciliati) con Dio, che (adesso) ci fa struggere (consumare) nel desiderio di vederlo (che lui stesso alimenta).

E Dante replica così: Per quanto io guardi attentamente nei vostri volti, non riesco a riconoscere nessuno; ma se voi, o spiriti ben nati (cioè destinati al bene, alla salvezza, alla beatitudine; nell’Inferno c’erano i mal nati), se voi desiderate che io faccia qualcosa che sia possibile, ditelo e io lo farò in nome di quella pace (di quella felicità) spirituale che Dio mi spinge a cercare, attraverso i mondi dell’Aldilà (i Regni ultraterreni) seguendo i passi (le orme) di una guida così fidata come questa.

A questo punto, entrano in scena i tre protagonisti del canto-capitolo che raccontano la loro vita nella parte terminale, quella in cui hanno trovato la morte violenta e, ravvedendosi in extremis, il perdono di Dio e con esso la salvezza dell’anima. Il primo è Jacopo del Cassero, nato nel 1260, figlio di Uguccione, appartenente a una antica nobile famiglia di Fano. Uomo di grandi qualità politiche e militari, nel 1288 aveva partecipato, con i Guelfi marchigiani, alla guerra di Firenze contro la ghibellina Arezzo. Nel 1296-97 era stato podestà di Bologna e aveva difeso con fermezza l’indipendenza del comune contro i disegni politici dell’ambizioso e crudele marchese e Signore di Ferrara, Azzo VIII d’Este (figlio di Obizzo II, che fece uccidere). Nel 1298 era diventato podestà di Milano e poi si era trasferito a Venezia. Riparato a Padova per sfuggire alla caccia messa in atto da Azzo contro di lui,  la sua vita  fu fermata dai sicari del potente Estense che, avendolo rintracciato, lo uccisero con ferocia vicino al castello d’Oriago sul Brenta.

Questo il suo racconto, con premessa di richiesta di preghiere a Dante (c’è una sottile e implicita captatio benevolentiae): E uno incominciò: “Ciascun si fida del beneficio tuo sanza giurarlo, pur che ‘l voler nonpossa non ricida. Ond’io, che solo innanzi a li altri parlo, ti priego, se mai vedi quel paese che siede tra Romagna e quel di Carlo, che tu mi sie di tuoi prieghi cortese in Fano, sì che ben per me s’adori pur ch’i’ possa purgar le gravi offese. Quindi fu’io; ma li profondi fóri ond’uscì ‘l sangue in sul quale io sedea, fatti mi fuoro in grembo a li Antenori, là dov’io più sicuro esser credea: quel da Esti il fé far, che m’avea in ira assai più là che dritto non volea. Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira, quando fu’ sovragiunto ad Orïaco, ancor sarei di là dove si spira. Corsi al palude, e le cannucce e ‘l braco m’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’ io de le mie vene farsi in terra laco”: E uno di loro ha incominciato (a parlare): Ciascuno di noi confida (ha fiducia) nel tuo beneficio (del bene che ci farai) anche senza che tu giuri, a meno che l’impossibilità non sia d’ostacolo (non impedisca) la tua (buona) volontà. Per cui io, che parlo solo davanti agli altri (e in nome degli altri), ti prego, se mai dovessi trovarti (nella Marca Anconetana, che è  situata) tra la Romagna e il Regno di Napoli di Carlo (d’Angiò), di essermi cortese delle tue preghiere in Fano (oppure: che tu, cortesemente, porti notizie di me in Fano, ai miei parenti e amici e chiedere preghiere per la mia anima), affinchè si possa pregare bene per me fino a poter purgare (espiare, scontare con tempi accorciati, sottinteso…) le mie gravi colpe (i miei gravi peccati)Sono nato lì (di Fano sono nativo); ma le profonde ferite dalle quali è uscito il sangue con cui io vivevo (oppure: nel quale io avevo la mia sede, dimoravo: era convinzione solida il fatto che il sangue fosse sede dell’anima e della vita), mi sono state date (inferte) nel territorio di Padova, (proprio) dove io mi sentivo (credevo) di essere più sicuro: è stato Azzo VIII d’Este a farmi uccidere, (a farmi colpire dai suoi sicari; è stato lui il mandante, lui a ordinare il mio delitto), lui che mi odiava assai più di quanto non fosse giusto (oltre ogni giusto limite). Ma, una volta giunto ad Oriago (villaggio tra Venezia e Padova), se io fossi fuggito verso Mira (piccolo borgo tra Oriago e Padova), sarei ancora vivo (nel mondo dei vivi). Invece, sono corso verso la palude, e (qui) le cannucce e il fango mi hanno impigliato tanto da farmi cadere; e lì (ferito dai sicari) ho visto uscire il sangue dalle miei vene e farsi lago per terra (oppure: ho visto formarsi per terra un lago del mio sangue).

(Una breve nota sui padovani chiamati da Dante Antenori: secondo la leggenda, Padova era stata fondata da Antenore, principe troiano, in cui Dante vedeva il prototipo, l’esempio perfetto del traditore politico e la vicenda della consegna ai Greci del Palladio, che garantiva l’incolumità di Troia, ne è alla base, perché poi ci sarebbe stato il Cavallo di Troia con tutto quel che ne sarebbe seguito. Non è un caso che Dante scriva li Antenori anziché i padovani: l’Antenora è la zona infernale della ghiaccia del Cocito, dove sono destinati al gelo eterno i traditori della Patria o del partito politico).

Il secondo narratore è Buonconte da Montefeltro, figlio del più famoso Guido, conte e grande condottiero ghibellino, già incontrato nell’Inferno nel canto-capitolo XXVII dei consiglieri fraudolenti. Nato forse nel 1250 o nel 1255, nel 1287 aveva partecipato alla cacciata dei guelfi da Arezzo e nel 1288 comandava i ghibellini di Arezzo contro i Senesi nella battaglia del Toppo vinta dagli Aretini. Nel 1289 capeggiava gli Aretini contro Firenze nella famosa battaglia di Campaldino, in cui c’era anche Dante come feditore a cavallo. Qui Buonconte fu ucciso (11 giugno 1289) e il suo corpo mai trovato.

Dunque, un altro ha poi preso a narrare la propria storia (e qui la  captatio benevolentiae è ancora più evidente): Poi disse un altro: “Deh, se quel disio si compia che ti tragge a l’alto monte, con buona pïetate aiuta il mio! Io fui di Montefeltro, io son Bonconte; Giovanna o altri non ha di me cura; per ch’io vo tra costor con bassa fronte”.

E io a lui: “Qual forza o qual ventura ti travïò sì fuor di Campaldino, che non si seppe mai tua sepultura?”.

“Oh!”, rispuos’elli, “a piè del Casentino traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano, che sovra l’Ermo nasce in Apennino. Là ‘ve ‘l vocabol suo diventa vano, arriva’ io forato ne la gola, fuggendo a piede e sanguinando il piano. Quivi perdei la vista e la parola; nel nome di Maria fini’, e quivi caddi, e rimase la mia carne sola. Io dirò vero, e tu ‘l ridì tra’ vivi: l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno gridava: ‘O tu del ciel, perché mi privi? Tu te ne porti di costui l’etterno per una lagrimetta che ‘l mi toglie; ma io farò de l’altro altro governo!’. Ben sai come ne l’aere si raccoglie quell’umido vapor che in acqua riede,  tosto che sale dove ‘l freddo il coglie. Giunse quel mal voler che pur mal chiede con lo ‘ntelletto, e mosse il fummo e ‘l vento per la virtù che sua natura diede. Indi la valle, come ‘l dì fu spento, da Pratomagno al gran giogo coperse di nebbia; e ‘l ciel di sopra fece intento, sì che ‘l pregno aere in acqua si converse; la pioggia cadde, e a’ fossati venne di lei ciò che la terra non sofferse; e come ai rivi grandi si convenne, ver’ lo fiume real tanto veloce si ruinò, che nulla la ritenne. Lo corpo mio gelato in su la foce trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce ch’i’ fe’ di me quando ‘l dolor mi vinse; voltòmmi per le ripe e per lo fondo, poi di sua preda mi coperse e cinse”

Traduciamo: Deh, possa compiersi, avverarsi il tuo desiderio che ti spinge (ti attira) verso la sommità del monte (cioè il Paradiso Terrestre), ma tu, con buona pietà, aiuta il mio (desiderio di preghiere al fine di poter ottenere uno sconto di pena). Io sono stato di Montefeltro, e sono Buonconte: (la mia vedova) Giovanna e tutti gli altri (la figlia Mantenessa, il fratello Federico e quelli fuori della cerchia familiare) non hanno memoria di me (non si ricordano di me, non si preoccupano di me in alcun modo: quindi, non pregano per la sua anima); per questo motivo io vado tra costoro (tra queste anime) a fronte bassa (per l’amarezza, la vergogna, il senso di umiliazione).

E io gli ho detto (Dante è fortemente interessato al fatto di storia contemporanea che lo ha visto tra i protagonisti, come dire: Dante dentro la Storia): Quale forza o quale fortuita circostanza ti ha allontanato da Campaldino, tanto che non si è mai saputo nulla sul luogo della tua sepoltura?

E Buonconte: Oh (sapessi…), ai piedi (nella parte inferiore) del Casentino scorre un fiume il cui nome è (che è chiamato) Archiano (affluente di sinistra dell’Arno), che nasce sui monti dell’Appennino, aldisopra dell’eremo di Camaldoli. Là dove l’Archiano perde il suo nome (perché sfocia e confluisce, si fonde con l’Arno), sono arrivato (giunto) ferito (mortalmente) nella gola, fuggendo a piedi e lasciando tracce di sangue sul terreno (per terra). Qui ho perduto i sensi (sono venuto meno);  mi sono spento invocando il nome di Maria (la Madonna), e nello stesso luogo sono morto e là è rimasto il mio cadavere (il mio corpo privo dell’anima).

Io ti racconterò la vera storia (ti dirò la verità sulla mia fine), e tu (però) ripetila (ridilla) nel mondo dei vivi: (dopo la mia morte) l’angelo di Dio ha preso (ha accolto) la mia anima, mentre un diavolo gridava (con tono minaccioso e vendicativo): ‘O angelo del cielo, perché mi privi (mi sottrai, mi togli quest’anima, che dev’essere mia per destinarla all’Inferno)? Tu porti con te l’anima (la parte eterna di costui) per una lacrimuccia di pentimento (per così poco!?…) che me l’ha fatto perdere; ma io riserberò al corpo ben altro trattamento’.

Tu sai bene come nell’aria si raccolga quel vapore acqueo che si riconverte in acqua sotto forma di pioggia (che precipita sulla terra), quando si solleva e raggiunge gli strati freddi dell’aria. (Ebbene) il demonio (il diavolo che è) dotato di una malvagia volontà, che con il suo intelletto desidera solo il male, che congiunge (coniuga) la volontà di fare il male con l’intelligenza che desidera attuarlo (una intelligenza volta al male…un male loico, come si è visto nell’Inferno), è arrivato e ha suscitato (mosso, provocato) il vapore acqueo e il vento grazie alla sua potenza (oppure: servendosi dei poteri di cui la natura lo ha dotato). Quindi, poi, una volta giunta la notte, ha fatto coprire di nebbia tutta la valle (che si stende) tra il monte Pratomagno e il grande giogo (la grande catena degli Appenini); e ha reso il cielo, nella parte più alta, pieno di nubi, di modo che l’aria, satura di vapori, si è trasformata in acqua: la pioggia cadeva (in gran quantità) e, molta di essa, non assorbita dalla terra, era finita nei fossati; e quando dai fossati si è riversata nei torrenti, è poi precipitata velocemente (impetuosamente) verso il fiume maggiore (cioè l’Arno), tanto che nulla avrebbe potuto fermarla (contenerla). L’Archiano impetuoso (violento perché in piena) ha trovato il mio corpo gelato (freddo, ormai privo di vita) alla sua foce; e lo ha sospinto nell’Arno, e ha sciolto la croce che io avevo fatto con le mie braccia sul petto, quando sono stato preso dal dolore (dal rimorso) per i miei peccati e (quindi) da (sincero) pentimento: (l’Arno) mi ha fatto rotolare (mi ha trascinato) lungo le sue rive (sponde) e nel suo letto (nel suo fondo); poi mi ha ricoperto e avvolto di tutti i suoi detriti.

Anche sull’oscura fine di Buonconte il Poeta ha fatto luce, dando la parola al protagonista. Non resta che far luce e ristabilire la verità sul caso Tolomei: femminicidio, uxoricidio o delitto passionale, che dir si voglia, per gelosia dovuta alla infedeltà della giovane sposa o delitto premeditato per eliminare una sposa di cui ci si è pentiti perché ci siamo innamorati di un’altra donna e la prima è diventata ormai ingombrante e, quindi, è meglio sbarazzarcene, eliminarla dalla scena, magari con una morte che potrebbe somigliare a un suicidio o a una disgrazia? Forse non lo sapremo mai veramente. Eppure, le lapidarie, delicate, cortesi parole (appunto da epigrafe funeraria) di Pia de’ Tolomei, così prive di odio, appaiono sottilmente sottintendere più di una cosa,  come una verità che non si vuol dire apertamente ma la si vuole lasciare come sospesa e affidata all’intelligenza del lettore. Ma tutto questo è la grandezza di Dante che, in poche righe, riesce a raccontare, in maniera sublime, tutta una vita, tutto un dolore e tutto un rimpianto e una struggente nostalgia per qualcosa che poteva essere e non è stato. E nel dramma umano di Pia ogni donna può riconoscersi e identificarsi, ed è cosa che dovrebbe fare anche ogni uomo capace di un minimo di empatia. Dante l’ha avuta questa empatia, così come l’aveva avuta per Francesca da Rimini, anch’essa morta di femminicidio, di amore che non sa amare, di eccessiva gelosia, ma i due casi sono ben diversi pur se con qualche analogia, come quella di prendere atto che si tratta di femminicidi avvenuti nell’ambito delle classi dirigenti, dei potenti della politica, del Potere. La più importante analogia, però, ci appare il fatto che un uomo non deve uccidere una donna perché non è più amato da essa: deve farsene una ragione e trovarsene un’altra, evitando di arrivare alla violenza e all’assassinio. Perché il delitto è la confessione di una sconfitta, della propria debolezza, della propria incapacità di amore, di saper amare senza ricorrere alla violenza come arma di risoluzione dei problemi di coppia. Una copia che… scoppia, che non va, si mette a ragionare, si siede a tavolino e decide la cosa migliore da fare, che è quella di separare le proprie strade, i propri destini, le proprie vite. Non deve ricorrere al sangue, al delitto. E, invece, ieri come oggi, è sempre stato più facile risolvere i problemi con la violenza e il sangue.

Dunque, il bel canto-capitolo quinto si chiude con un misterioso femminicidio di alto bordo, un delitto effettuato da un uomo del Potere: sette stupendi versi (o se si vuole poche righe…) immortalano il racconto drammatico e commovente di Pia de’ Tolomei. Poche righe che raccontano tutta una vita, che dicono anche le cose che la buona e delicata Pia (che forse ha perso la vita per delicatezza, direbbe Rimbaud) ha taciuto e omesso, forse per estremo pudore, forse perché non ha voluto infierire, mostrarsi molto dura con il suo assassino (che ha perdonato) anche perché, probabilmente, l’aveva troppo amato non ricambiata. Pia sospira e sembra rimpiangere un amore perduto, in cui aveva creduto, e la possibilità della felicità ormai anch’essa perduta per sempre. La sua cortesia le fa subito premettere un pensiero per Dante (c’è discreta e delicata captatio benevolentiae): riposarsi dopo il lungo e faticoso viaggio nell’Oltremondo, per poi subito chiedergli di tenerla nella sua mente per le preghiere e dirgli, brevemente, la verità della sua fine violenta:“Deh, quando tu sarai tornato al mondo e riposato de la lunga via”, seguitò ‘l terzo spirito al secondo, “ricorditi [imperativo impersonale] di me, che son la Pia; Siena mi fé, disfecemi Maremma: salsi colui che ‘nnanellata pria disposando m’avea con la sua gemma”:

(Pia inizia con la tipica esclamazione toscana deh, che, come si è visto, implica una preghiera o un desiderio ma che, in verità, è come una sorta di intercalare): Deh, quando tu sarai ritornato sul mondo, e ti sarai riposato del lungo viaggio, ha continuato a parlare una terza anima dopo la seconda (i racconti sono rapidi, frettolosi, avvengono senza soluzione di continuità, quasi con il timore che Dante, treno da non perdere, vada via e a loro non sia più possibile raccontare le proprie esistenze che solo un vivo potrà far conoscere nei loro particolari, nelle loro più profonde e ignote verità), ricordati di me (ti sovvenga, ti venga in mente, nelle tue preghiere) che sono Pia (de’ Tolomei): sono nata a Siena; sono morta in Maremma (oppure: Siena mi ha dato la vita; la Maremma me l’ha tolta; come sono morta) lo sa (bene) colui (mio marito) che prima (di uccidermi, di farmi morire), come promessa di matrimonio (disposando), mi aveva messo al dito l’anello nuziale (di sposa; ‘nnanellata, con tanto di gemma, cioè di pietra preziosa; oppure, in sintesi: che, prima, sposandomi, mi aveva dato il suo anello nuziale e, sottinteso, quell’atto significa promessa di amore e fedeltà). (La cerimonia della desponsatio si compiva con due atti simultanei e cioè la promessa di matrimonio e nel dare l’anello di fidanzamento; quindi seguivano le nozze, il matrimonio vero e proprio in casa dello sposo)…

Ormai sappiamo che la Pia di cui narra Dante è sicuramente la gentildonna Pia de’ Tolomei, sulla cui misteriosa e tragica fine non si hanno notizie certe e sulla quale il Poeta ha, senza alcun dubbio, voluto far luce per avvalorare la tesi di un femminicidio (delitto di cui, negli ultimi anni, purtroppo, son piene le cronache giornalistiche) compiuto per eliminare dalla scena una donna non più amata (se mai lo fu…) divenuta ingombrante per poterne sposare un’altra di cui si era invaghito, forse già prima del matrimonio.

Pia dei Tolomei, di Siena, si era sposata con Nello d’Inghiramo dei Pannocchieschi, signore del castello della Pietra, presso Massa Marittima, nella Maremma. Costui era stato podestà di Volterra (1277), quindi capitano della Taglia guelfa in Toscana (1284) e poi ancora podestà di Lucca (1313). Morto nel 1322, un anno dopo Dante, pare che (per quel che si è potuto ricostruire) abbia fatto assassinare la moglie Pia da un famiglio, cioè da un servo, tale Magliata da Piombino, che avrebbe fatto precipitare la povera donna da una finestra del castello della Pietra, dove l’aveva fatta rinchiudere. Ancora oggi i resti del castello sono visibili con il suo dirupo detto, appunto, Salto della Contessa. Sul delitto eccellente (eccellente in quanto il cadavere è un cadavere eccellente appartenente ai ceti alti, a quelli delle classi dirigenti, delle élites al Potere, e il marito era uno di questi) ci sono due versioni sulle quali i commentatori di sette secoli si sono alquanto divisi. La prima vuole che il marito l’abbia fatta uccidere per gelosia, in quanto lei avrebbe commesso adulterio, l’avrebbe tradito. La seconda tesi (che è quella più credibile e quella in cui ha certamente creduto Dante) è che Nello l’abbia voluta eliminare, si sia voluto sbarazzare della donna in quanto si era invaghito di un’altra e cioè della spregiudicata e avvenente contessa Margherita Aldobrandeschi, vedova prima di Guido di Monfort e poi di Orsello Orsini, quindi legalmente separata da Loffredo Caetani, un nipote del papa Bonifacio VIII. Questa amara verità si riesce a leggere nelle delicate parole, prive di rancore e di odio, che Dante mette in bocca alla dolce, gentile e delicata Pia, che ha perdonato l’uomo che l’ha fatta uccidere, dicendo che la verità sulla sua fine la conosce bene colui che amava e, soprattutto, la sua coscienza: lui ne dovrà rendere conto a Dio. Perché, per Dante, l’uomo è responsabile delle sue azioni, in quanto dotato del libero arbitrio, ma poi dovrebbe anche avere il coraggio di guardarsi allo specchio e dire a se stesso se quello che ha commesso rientra nel Bene o nel Male e, dunque, porsi i problemi di coscienza, che sono sempre problemi di morale, di etica e cioè di comportamento, di azioni, atti, gesti che commettiamo. Questo vale sia per il credente, che deve rispondere e dare conto a Dio per l’eternità, e sia per chi non crede, che dovrebbe almeno rispondere alla propria coscienza.

In conclusione, in questo canto-capitolo, Dante ci ha fatto conoscere pagine di cronaca nera, tre fatti di sangue, tre cadaveri eccellenti e, due di essi, dei veri e propri delitti eccellenti con trama da giallo, da noir e brivido dell’imprevisto. Ieri come oggi, c’è sempre chi trama e ordisce e compie efferati delitti e anche stragi. Nel nostro paese (nel Secondo Dopoguerra) ce ne sono stati tanti da Portella della Ginestra alla strage di Bologna fino alla eliminazione dei giudici Falcone e Borsellino e di tanti altri usando anche l’arma oscura del terrorismo nero e cosiddetto rosso. Purtroppo, quasi mai, i mandanti – che, in genere, appartengono alle classi dirigenti, ai potenti della politica e dell’economia – sono stati scoperti e puniti. Dante ha dato la possibilità a Jacopo di poter smascherare il suo vero assassino, il mandante, colui che era stato dietro al suo spietato assassinio, come pure ha dato a Pia la possibilità di smascherare il suo. Ancora una volta, Dante conferma la sua poetica e la sua visione della Letteratura, che è poetica della Verità con il compito affidato alla Letteratura di stabilire o ristabilire la Verità (che di solito è messa a tacere, è negata e nascosta) e farla trionfare e, dunque, la Letteratura come Tribunale Morale.

A noi rattristati lettori, rimane per sempre la bellezza e la dolce malinconia e amarezza di quelle parole pure, delicate con cui si chiude il canto-capitolo (non a caso con la storia della nobildonna senese) e vorremmo entrare nella mente e nel cuore di Pia, scoprire, immaginare i suoi pensieri, il suo dolore, la sua solitudine, le sue pene d’amore, la sua angoscia e il suo stato d’animo di donna offesa, tradita, maltrattata, relegata dentro ad un castello dall’uomo che amava ma che non amava più lei (se mai l’avesse amata…) e che si era fatto fatalmente (per lei…) attrarre da un’altra più spregiudicata, magari anche più bella e più ricca… Cosa ne sappiamo noi del dolore degli altri, della vita degli altri nelle profondità e negli abissi dell’anima, della psiche? Ebbene, Dante, che è sempre così bravo nel saper tracciare, delineare le psicologie, i profili psicologici dei suoi personaggi, Dante, con la sua potente poesia, con la sua grande capacità di narrare e raccontare ha cercato di farcela conoscere e di farci entrare in quelle profondità e in quegli abissi, avvertendoci che non bisogna mai guardare le cose alla superficie e giudicare in maniera banale. La gente ha un banale piccolo metro per misurare e spiegare le cose terribili della vita che non capisce, ha lasciato scritto lo scrittore livornese Silvano Ceccherini nel suo libro Lo specchio nell’ascensore. Ebbene, Dante ci avverte in ogni sua parola e in ogni caso umano che ci fa conoscere di non usare questo metro e, infatti, non fa altro che lasciare la dolcissima Pia raccontare, con brevi, velate ma precise parole, la sua infelice e tragica vicenda. Non c’è bisogno di alcuna replica, non c’è bisogno di chiedere, fare domande per appurare questo o quest’altro: sono sufficienti le sue serene ma veritiere e dolenti parole, quasi un epitaffio sulla sua tomba per immortalare una verità che a qualcuno faceva comodo negare e nascondere. E immaginiamo un Dante sofferente, che pensa, a testa china, quanto male e quanto dolore siano capaci gli uomini di infliggere ai propri simili e alle persone più a loro vicine, anche a quelle del proprio sangue, pur di raggiungere i propri poco nobili obiettivi. E pensa anche quanto poteva essere felice quella donna e, invece, la sua vita è stata fermata e brutalmente stroncata nella giovinezza. Di una cosa, almeno, Dante è compiaciuto: ha consentito alla buona Pia di poter esprimere, almeno sommessamente, con parole più sottintese che dette ma certamente con un sentimento di pietà e di commiserazione verso il suo assassino, la sua, pur sempre dolente, verità. Ecco: le parole sottintese, il non detto: consiste proprio in questo la grandezza e il fascino di queste poche ultime parole del canto-capitolo: Dante ha preferito – con tecnica da romanzo – lasciar immaginare al lettore tutto quello che il nobile e delicato silenzio di Pia non ha detto, che ha taciuto, che non ha voluto dire: per tenerlo per sempre dentro il suo cuore, come un segreto da custodire gelosamente.