
Trebisacce-25/06/2025: Rubrica storico-letteraria a cura di Salvatore La Moglie
Rubrica storico-letteraria a cura di Salvatore La Moglie
Qui di seguito viene pubblicato il “quarto capitolo” del saggio di Salvatore La Moglie “Che cos’è la Divina Commedia” edito dalla casa editrice Setteponti di Arezzo nel 2022.
Carlo Marx e Federico Engels (che lo amavano moltissimo) hanno definito Dante l’ultimo degli antichi e il primo dei moderni, più esattamente: al tempo stesso l’ultimo poeta del medioevo e il primo poeta moderno. Definizione azzeccata, perché, in verità, nella complessa e straordinaria personalità del Poeta, vecchio e nuovo, antico e moderno convivono e senza fare tanto a pugni tra di loro. Dante è uomo del Medioevo ma si tenga presente il fatto che il Medioevo è stato ormai rivalutato in quanto sono tanti gli elementi di modernità che in esso si possono rintracciare, proprio come in lui. Pertanto, Dante appare antico quando lo vediamo difendere, sia nella Monarchia che nella Commedia, la convivenza ragionevole e solidale tra Impero e Papato per il bene dell’umanità ma, in effetti, lui era profondamente convinto che solo entità forti e sovranazionali potessero essere capaci di mantenere l’ordine, la pace, la giustizia, la prosperità e il benessere dei popoli (ripeto: negli ultimi decenni non si è forse pensato che un’Europa unita, cioè un’entità sovranazionale potesse essere meglio di un’Europa fatta di egoismi nazionali?). Egli si avvedeva, anche per esperienza diretta, di quante lacerazioni, di quante ingiustizie, di quanta violenza e di quante guerre, anche fratricide, fossero capaci di scatenare le nuove realtà nazionali o gli stessi Comuni. Guelfi e Ghibellini, Bianchi e Neri si facevano guerra e anche la Chiesa (sempre più avara e sempre più bramosa di incrementare il già enorme Patrimonium Sancti Petri…) era coinvolta in questi sanguinosi conflitti per l’egemonia ora di questo e poi di quel Comune. E la partigianeria, la faziosità politica era talmente giunta a disonestà e corruzione che, ad un certo punto, egli decise di scegliere la solitudine e di lasciare la cattiva schiera dei suoi compagni, la compagnia malvagia e scempia… tutta ingrata, tutta matta ed empia e di separarsi orgogliosamente da loro, sì c’ha te fia bello averti fatta parte per te stesso, come si legge nel canto XVII del Paradiso per bocca del trisavolo Cacciaguida che gli predice l’esilio, a lui, appunto, autodefinitosi exul immeritus, florentinus natione non moribus (esule ingiustamente, fiorentino per nascita non per costumi di vita).
In verità, il poema sacro potrebbe essere definito, fra l’altro, come una continua contestazione della realtà fiorentina, oltre che di quella in cui si trovava a vivere l’uomo su questo mondo: un mondo già hobbesiano, in cui a dominare era l’uomo-rapace, l’uomo-lupo-dell’altro-uomo (homo homini lupus), l’uomo che fa la guerra agli altri uomini (bellum omnium contra omnes) e che nel suo essere tale, cioè così aggressivo e bellicoso, rischia, alla fin fine, di distruggere persino se stesso insieme alla sua malvagità. Indubbiamente, l’esperienza dell’esilio costituisce, per Dante, una svolta nella propria esistenza, uno spartiacque, un prima e un dopo che gli consentirà sempre di più negli anni un particolare, speciale punto di vista, di osservazione della realtà sia a livello di microcosmo (Toscana e Italia) e sia a livello di macrocosmo (il mondo così come si conosceva allora): alla fine era probabilmente giunto all’amara conclusione che se il mondo e gli uomini sono e saranno sempre questi, allora forse è meglio vivere allo stato di natura (com’era durante l’età dell’oro e nel Paradiso Terrestre, che lui rivede e rimpiange negli ultimi canti del Purgatorio) e non in quello della civiltà, della società moderna che (come ha insegnato Jean-Jacques Rousseau) quanto più si sviluppa, progredisce e diventa complessa tanto più corrompe, rende cattivi e disumani coloro che ci vivono dentro: l’uomo nasce buono ma è la società che lo corrompe, tanto da essere preferibile il buon selvaggio…
Dunque, per Dante, il nuovo che avanzava non era affatto un progresso e un bene per l’umanità e, anzi, un regresso (e sembra già dire, molto prima di Alessandro Manzoni, che: Non sempre ciò che vien dopo è progresso): era l’inizio della fine di tutto un mondo, una vera e propria catastrofe alla quale si accompagnava la distruzione e la fine dei veri valori attraverso l’affermazione della classe borghese, la gente nova con i suoi facili guadagni e i suoi pseudo-valori che, secolo dopo secolo, si sarebbero affermati e avrebbero avuto la meglio per sempre: successo, denaro, profitto, ideologia della roba, cupidigia e accumulo di beni materiali, potere, privilegi, sfruttamento dei propri simili, ridotti a merce, e quant’altro, mentre i veri valori morali e spirituali andavano e andranno sempre più svalorizzandosi nelle società e civiltà borghesi che si affermavano nell’Occidente. Sarà, nell’Ottocento, cinque secoli dopo, il Marx dei Manoscritti parigini ovvero dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 a confermare la visione negativa di Dante e ad affermare, di fronte a una società capitalistica sempre più un immenso e mostruoso ammasso di merci, capace soltanto di generare alienazione e povertà umana e morale, che: (…) L’economia (…) ha come suo dogma la rinuncia a se stessi, la rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato. Tutto ciò che l’economia ti porta via di vita e di umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza; e tutto ciò che tu non puoi, può il tuo denaro. Così tutte le passioni e tutte le attività devono ridursi all’avidità di denaro. Chi lavora può aver soltanto quanto basta per voler vivere; e può voler vivere soltanto per avere (…). Tutti i sensi fisici e spirituali sono stati sostituiti dalla semplice alienazione di essi tutti: dal senso dell’avere. (…), e pertanto: la svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. Dante vedeva ogni giorno di più avanzare e prevalere, in ogni ambito sociale e nella stessa Chiesa, la valorizzazione del mondo delle cose, del denaro e dei beni materiali e, insomma, dell’economicismo a scapito dei veri valori più profondamente umani, morali e spirituali che dovrebbero essere alla base della nostra esistenza, con la funzione di renderci più giusti, più umani, più moralmente sani e, quindi, volti e tesi al bene universale. Dante, nella sua immensa riflessione, anticipa già alcuni pensieri che saranno espressi, sei secoli dopo, da Erich Fromm nelle sue opere. In Avere o essere? il grande psicanalista e filosofo scrive che: La differenza tra essere e avere non è essenzialmente quella tra Oriente e Occidente, ma piuttosto tra una società imperniata sulle persone e una società imperniata sulle cose. L’atteggiamento dell’avere è caratteristico della società industriale occidentale, in cui la sete di denaro, fama e potere, è divenuta la tematica dominante della vita. Invece ne L’arte di vivere si legge che: Gli idoli dell’uomo moderno avido, alienato sono la produzione, il consumo, la tecnologia, lo sfruttamento della natura. (…) Quanto più ricchi sono i suoi idoli, tanto più l’uomo si impoverisce. Invece della gioia egli va in cerca di piacere e di eccitamento; invece di crescere cerca possesso e potere; invece di essere, egli persegue avere e sfruttamento; invece di ciò che è vivo sceglie ciò che è morto. Infine, ne L’arte di amare c’è la sintesi di una società e di una civiltà capitalistiche che sono la negazione stessa dell’amore: Parliamo dell’amore nella civiltà occidentale moderna, ci domandiamo se la struttura sociale della civiltà occidentale e lo spirito che ne deriva siano propizi allo sviluppo dell’amore. La risposta è negativa. (…) La gente capace d’amare, nel sistema attuale, è l’eccezione; l’amore è per necessità un fenomeno marginale nella società occidentale moderna (…) perché lo spirito della società basata sulla produzione è tale, che solo l’anticonformista può difendersi con efficacia contro di essa. E Dante, a modo suo, anticonformista e uomo controcorrente, eretico e corsaro (direbbe Pasolini) lo è certamente stato e, di fronte a tanto sconvolgimento generale dei valori determinato dal mondo moderno, dalla Modernità (che è anche caos, disordine, entropia) che avanzava e che si sarebbe imposta nei secoli a venire, pensa di dare la sua urgente e dolente risposta alla pericolosa deriva, al Male che devastava Firenze come tutto il mondo con la parola poetica, con la scrittura e pensando, quindi, alla creazione di un’opera, la (Divina) Commedia, cioè a un progetto di salvezza per l’intera umanità. E questo perché Dante crede nella forza, nella potenza della parola scritta e nella possibilità che un libro possa salvare il mondo, l’umanità, proprio come si propone di essere la Bibbia, che contiene il piano di salvezza di Dio attraverso Cristo. Diversamente dal pure profetico ma molto più pessimista Pasolini, il Divino Poeta non ha cancellato la parola speranza dal proprio vocabolario e, infatti, anche se sotto forma di Sogno, di Utopia, spera tuttavia e nonostante tutto, e scrive un libro-visione, un libro-profezia per l’oggi e per il domani in cui dice che, se l’uomo vuole salvarsi, deve seguire i suoi consigli o altrimenti non resta che la grande provocazione letteraria di Italo Svevo (La coscienza di Zeno) secondo cui la salvezza del marcio pianeta Terra può realizzarsi soltanto quando l’uomo occhialuto, ovvero lo scienziato, costruirà nel suo laboratorio la più micidiale delle bombe e, salito sul punto centrale della Terra, la farà deflagrare: il mondo ritornerà alle sue origini, sotto forma di nebulosa, e poi sarà tutto da rifare e ricostruire. Come Svevo, anche Dante (sei secoli prima) comprende pienamente che il mondo e le società umane si fanno sempre più complesse e complicate e che la vita attuale è inquinata alle radici. Come Svevo, Dante vede e antevede, già prima dei poeti decadenti è poeta veggente che, grazie al terzo occhio della sensibilità artistica e poetica, vede una realtà (ed è quella vera!) che gli altri non vedono. La coscienza di Dante (che è quella di un uomo così vero e autentico in un mondo così inautentico, ipocrita, falso e bugiardo) analizza in profondità la società in cui vive e ne coglie le contraddizioni, le incongruenze, le cose che non vanno, le ingiustizie, il prevalere del Male, ecc. e vorrebbe raddrizzare il tutto, vorrebbe che l’umanità uscisse dallo smarrimento nella selva oscura e si salvasse raggiungendo la Verità e la felicità terrena e spirituale, vorrebbe, insomma, porre un rimedio salvifico per l’oggi e per il domani. Come Svevo-Zeno, anche Dante direbbe che dalla nevrosi (il brutto rapporto che si può avere con la realtà esterna) non ci salva tanto la psicoanalisi quanto la penna, ovvero la scrittura, che è sempre terapeutica e liberatoria: fuori della penna non c’è salvezza, ha lasciato detto Svevo. Analizzare il mondo, la realtà e scriverli, raccontarli, narrarli anche in maniera corrosiva e impietosa, mostrandoli così come sono, senza infingimenti, con un’operazione verità, salva noi stessi e può salvare tutti gli altri, proprio in quanto si tratta di un invito a prendere coscienza: a fare una presa di coscienza generale sul mondo in cui viviamo e su cosa fare per cambiarlo o almeno cercare di migliorarlo. E Dante si era ben avveduto che ormai da molto tempo, su questa Terra, l’uomo si era troppo assuefatto al Male, che era diventato normalità, e che l’assuefazione al Male era (ed è…) il vero medioevo, la vera barbarie. Se Dante può erroneamente apparire antimoderno in merito al corso della Storia e dei cambiamenti che la Storia impone, va detto con forza che la sua non era altro che un’analisi profonda, lungimirante, con lo sguardo diretto al futuro su quanto accadeva sotto i suoi occhi, proprio similmente all’analisi di altri antimoderni come, per es., Verga, Pasolini o Svevo che fecero analisi corrosive e spietate della società in cui vissero, senza sbagliare e, anzi, vedendo quello che gli altri non vedevano. (4-Continua).