Trebisacce-24/09/2025: Rubrica storico-letteraria a cura di Salvatore La Moglie

La-Moglie

 

 

 

 

 

 

 

 

Rubrica storico-letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Qui di seguito viene pubblicato il “settimo capitolo” del saggio di Salvatore La Moglie “Che cos’è la Divina Commedia” edito dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo nel 2022.

 

La lingua che Dante sceglie per la Commedia (scelta felicissima e che costituisce un altro grande aspetto della sua modernità) è il volgare e non il latino, cioè il dialetto del latino che era emerso dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, che si stava sempre più perfezionando, con le sue diversità e particolarità regionali, e che Dante chiama la lingua del sì (dal modo di tradurre l’affermazione positiva latina hoc  est illud) e cioè quella che poi si chiamerà l’italiano, la lingua italiana. Si pensi al canto del conte Ugolino (Inferno, XXXIII) dove si legge la celebre invettiva: Ahi Pisa, vituperio delle genti del bel paese dove il sì sona, cioè dove si parla la lingua del sì, ovvero l’italiano. E l’italiano è la lingua della Divina Commedia e per questo Dante è il padre della lingua  italiana, lingua che, nel capolavoro dantesco, è già quasi perfetta tanto che anche oggi è perfettamente comprensibile. Un italianofiorentino e toscano quello del Poema Sacro (non ancora prevalente sugli altri volgari e al quale Dante non dà alcun primato) che si avvale di diversi apporti linguistici delle altre realtà regionali dell’Italia (si pensi alla Scuola Siciliana) e anche di latinismi medievali e della classicità nonché di forestierismi, gallicismi, francesismi, provenzalismi, ecc..

Dante è, dunque, immenso anche nella lingua e, infatti, nel Convivio, con spirito moderno, esalta il volgare come luce nuova, sole nuovo che surgerà là dove l’usato [il latino] tramonterà; egli capisce che il volgare è la lingua del futuro, la lingua del popolo con dignità letteraria a pieno titolo e, fedele alle sue teorie espresse nel De vulgari eloquentia (primo tentativo di storia letteraria italiana e trattato di linguistica che pone, già allora, quella che dal Bembo in poi si chiamerà questione della lingua), si avvale di tutta la ricchezza linguistica che il nostro paese offriva ai suoi tempi e crea anche dei neologismi (perché Dante è uno sperimentatore e con le parole ci gioca) come, per es., indiarsi (assimilarsi, sentirsi tanto vicini e simili a Dio e partecipare della sua gloria e beatitudine), inurbarsi (entrare in città), infuturarsi (prolungarsi nel futuro), imparadisare (innalzare alle gioie del Paradiso), insemprarsi (durare per  sempre), immegliarsi (diventare migliore) e potremmo continuare ancora per molto. Si tenga presente, infine, che tante espressioni, tanti modi di dire (alcuni divenuti proverbiali), ancora oggi usati nel parlato quotidiano, provengono dalla Divina Commedia, soprattutto dall’Inferno: fa tremar le vene e i polsi; lasciate ogni speranza voi ch’entrate; non ragioniam di lor, ma guarda e passa; senza infamia e senza lode; il gran rifiuto; il ben dell’intelletto; Galeotto fu il libro e chi lo scrisse; il bel Paese; non mi tange; fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza; cosa fatta capo ha; star freschi, ecc.

Da quel genio che era, Dante si avvedeva che le lingue e i linguaggi evolvono, sono soggetti a mutamenti e trasformazioni, sono mutevoli e anche relativi, non assoluti, fissi e monolitici, una volta per sempre; si arricchiscano, trovano il loro sviluppo con lo svilupparsi della società e del mondo. Pertanto, e non a caso, nel XXVI del Paradiso scriverà che: Opera naturale è ch’uom favella; ma cosí o cosí, natura lascia poi fare a voi secondo che v’abbella; come dire che tutti parliamo secondo come natura vuole ma, poi, gli uomini di ogni società, nazione o civiltà possono esprimersi come credono, con le parole e il linguaggio che vogliono.

Insomma, Dante è un genio e rivela la sua genialità anche nella lingua, nel linguaggio che, nella Commedia, si adegua sempre al significato, al contenuto, alla materia trattata. Significato e significante viaggiano sempre di conserva e in perfetta sintonia. Diversamente da Petrarca che era monolinguista e monostilista, Dante è modernamente plurilinguista e pluristilista, cioè si avvale dell’utilizzo di più livelli o registri stilistici, linguistici ed espressivi. Proprio per poter adeguare il linguaggio alla materia trattata, Dante respinge lo stile elevato, aulico che implica l’uso di un altrettanto elevato linguaggio e, siccome per lui sarebbe stato un grande limite, finisce per optare e avvalersi dello stile comico in quanto riesce come a racchiudere, a inglobare tutti e tre gli stili: tragico, elevato o illustre proprio della tragedia, elegiaco, umile, basso, dimesso proprio dell’elegia e comico o medio o mediano proprio della commedia (e che è prevalente nell’Inferno). Una scelta felicissima  in quanto gli consente quella pluralità, quella ricchezza e varietà di linguaggio e di sintassi da adeguare alla materia trattata che non gli può consentire il monolinguismo tanto caro al Petrarca (ma non a Boccaccio che, non a caso, è il primo grande estimatore ed esaltatore di Dante). Petrarca (e lo aveva certamente fatto notare all’amico Boccaccio sia nelle lettere che nelle chiacchierate sulla grandezza di Dante) non avrebbe mai scritto in qualsiasi sua opera la parola merda e, invece, Dante la scrive più di una volta perché   la materia trattata lo richiede. Si pensi ai versi in cui scrive: E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, vidi un col capo sì di merda lordo, che non parea s’era laico o cherco (Inferno, XVIII), oppure a quelli in cui si legge: Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva  e ‘l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia (Inferno, XXVIII). In quest’ultimo   canto citato si legge anche un’altra espressione scurrile adatta al contenuto trattato che, un aristocratico intellettuale con la puzza al naso come Petrarca, non avrebbe mai neppure proferito: (…) rotto dal mento  infin dove si trulla, cioè fino alla parte del corpo da dove si scorreggia. Trullare nell’italiano dei tempi di Dante (che, ripetiamo, era il dialetto del latino che andava sempre più raffinandosi e imponendo come lingua d’uso e anche letteraria) significava, appunto, emettere rumori sconci da una certa parte del nostro corpo… Ma Dante è così audace e capace di osare nell’uso del linguaggio e della lingua, fino alla mimesi del parlato popolare e anche il più plebeo, che non ci pensa due volte a dire che uno della sporca decina dei diavoli scorreggia sonoramente nella bolgia  infernale (XXI):…ed elli avea del cul fatto trombetta. E questo perché secondo Dante la letteratura deve saper cogliere e rappresentare ogni aspetto della vita e della realtà, non solo le cose belle e sublimi ma anche quelle più turpi e ripugnanti e, con grande realismo, con quel sublime visibile parlare (di cui si legge nel X del Purgatorio) farle vivere e vedere al lettore come se le avesse sotto gli occhi. Ricchezza di linguaggio e ricchezza di vocaboli, anche stranieri: è stato calcolato che nella Commedia ci sono 12.831 parole effettive e, quindi, praticamente, il vocabolario della lingua italiana c’è già con Dante per  circa il 50 per cento! Non a caso la Treccani, nel 2005, ha pubblicato l’Enciclopedia Dantesca in 16 volumi e posso dire che è qualcosa di immenso e di straordinario: si tratta di una vera e propria enciclopedia culturale in cui è racchiuso tutto il sapere accumulato da Dante e ben custodito nella sua eccezionale memoria, lui che, nel Paradiso (V), fa dire a Beatrice chè non fa scienza,  sanza lo ritenere, avere inteso.

Dunque, la preziosa immensa e inesauribile miniera della Commedia come un trattato, una summa, un’enciclopedia, una sintesi dello scibile umano ma non è solo questo. La Divina Commedia è come la Bibbia ma è ancora più bella della Bibbia, primo grande progetto di salvezza per l’umanità. Come la Bibbia, anche dell’opera immortale di Dante si possono fare diverse letture attraverso i famosi quattro livelli interpretativi o di senso o di significato: il senso letterale (si coglie il significato dalla semplice e immediata lettura del testo); il senso allegorico o simbolico (si cercano altri significati dell’opera sotto la lettera, rintracciando ogni metafora,  allegoria, mito e quant’altro); il senso morale (riguarda la funzione di insegnamento che sottende qualcosa o qualcuno e, quindi, importante per il nostro comportamento, per il nostro operare); il senso anagogico (ovvero il significato spirituale di qualcosa o qualcuno, il ricondurre le  cose terrene a quelle divine, verso cui tendere; il voler trovare e scoprire nella lettera il significato spirituale, mistico istituendo una sorta di paragone). A questi quattro livelli di significato, bisogna aggiungere quello figurale, secondo l’analisi, l’interpretazione, appunto, figurale, effettuata dal grande critico tedesco Erich Auerbach sul polisemico e spaventosamente realistico capolavoro (Studi su Dante). Secondo tale livello di interpretazione, anch’esso applicabile alle Sacre Scritture, la   figura è un fatto storico, un personaggio, qualcosa che anticipa e prefigura ciò che poi si realizzerà e avrà il suo compimento: L’interpretazione figurale stabilisce fra due fatti o persone un nesso in cui uno di essi non significa soltanto se stesso, ma significa anche l’altro, mentre l’altro comprende  o adempie il primo. Per es., l’esodo degli Ebrei dall’Egitto (Vecchio Testamento) è un fatto storico che è figura, cioè prefigura la liberazione dei     cristiani dal peccato per opera di Gesù (Nuovo Testamento), che ne è l’adempimento, il compimento. Auerbach (che ha giustamente definito Dante poeta del mondo terreno) ha anche fatto notare che la Divina Commedia si può leggere come la Bibbia  e che, come la Bibbia, può essere letta anche da un bambino, come se leggesse una immensa fiaba. Non dimentichiamo che la Commedia va vista, inquadrata nella prospettiva, nella visione provvidenzialistica della Storia, per cui (come sarà per Manzoni) Dio ha un suo piano, un     disegno imperscrutabile per l’umanità finalizzato alla realizzazione del Bene.

La Divina Commedia è tutto questo ma anche altro ancora. La potremmo definire, innanzitutto, un’enorme, gigantesca contestazione della  realtà e del mondo, in cui l’autore si è trovato a vivere, attraverso una narrazione assolutamente fantasiosa. Ma Dante finge il viaggio fantasioso nell’Aldilà per parlare dell’Aldiquà e contestarlo impietosamente. Apparentemente, la Commedia ci può sembrare come una grande evasione dalla realtà, una grande fuga dal mondo ma non è così. Secondo la moderna teoria del romanzo (di cui György Lukács è stato uno dei grandi maestri) quanto più un’opera appare di evasione, fantasiosa, basata sull’irrealtà, su un mondo irreale, tanto più finisce per costituire e rivelarsi una contestazione della realtà e una polemica dell’autore con il mondo in cui vive e, nel poema sacro (nonostante la grande finzione del viaggio ultraterreno) il mondo terreno, la realtà degli uomini sulla Terra è sempre presente, anche nel Paradiso. Già nella sua apparenza di opera fantasiosa e irreale la Divina Commedia è una gigantesca contestazione! In verità, più che il poeta dell’Oltremondo, Dante è, davvero il poeta del mondo terreno, dell’Aldiquà, di questo mondo del quale vedeva e prevedeva la rovina totale, l’apocalisse, la catastrofe soprattutto morale e spirituale, visto che i veri valori, i nobili ideali e  gli alti principi erano ormai in crisi e forse distrutti per sempre. Del resto, in quegli anni, forse anche grazie alle tesi del profetico abate calabrese Gioacchino da Fiore (il cui pensiero e la cui dottrina delle Tre Età dell’uomo o della Storia Dante teneva in grande considerazione, tanto da dargli un posto importante in Paradiso) si erano fatte avanti, insieme alla forte esigenza di un rinnovamento generale, idee e teorie secondo cui la fine del mondo era imminente e con essa il Giudizio Universale che avrebbe riguardato tutti gli uomini e la loro anima. E Dante, durante tutta la sua esistenza, si sarà certamente posto il problema, escatologico, cruciale per un credente: Cosa sarà di me, che fine farà la mia anima dopo la morte? E, subito dopo, dall’io individuale al noi universale: Cosa sarà degli uomini dopo la morte? Gli uomini non dovrebbero avere a cuore il destino ultimo della loro anima? Dovrebbero, ma…ma la maggiorparte di essi preferisce non pensarci, preferisce il pascaliano divertissement, la distrazione pur di non pensare ai tanti e grandi problemi della nostra esistenza, della nostra vita interiore da cui escono i fatti, ha lasciato scritto il De Sanctis nella sua Letteratura e Dante tutto fece fuorchè distrarsi: per lui dare un senso alla propria vita era la cosa più importante e sensata che potesse fare. E c’è riuscito nella maniera più assoluta e più sublime. Preferendo, magari, essere un apocalittico, cioè con una visione pessimistica e un atteggiamento critico piuttosto che un integrato, cioè un conformista ingenuamente ottimista, come direbbe Umberto Eco…