Amendolara-18/06/2016: Profilo di Dacia Maraini (di Salvatore La Moglie)

Salvatore La Moglie
Salvatore La Moglie

Profilo di Dacia Maraini

 

Di   Salvatore La Moglie

 

«Il treno è una casa mobile che favorisce i pensieri più intimi. (…) Chissà perché il treno le è [ad Amara] così familiare e amico. In treno si sente a casa. Il treno la conduce, l’avvolge, la protegge. Il treno imprime un ritmo ai suoi pensieri. E non è mai un ritmo stonato (…). I più grandi incontri della sua vita sono avvenuti in treno. (…) In treno ogni riflessione si fa serpentina, umile, sagace. Il pensiero prende la cadenza delle ruote e macina, macina idee come fossero chilometri di riflessioni da percorrere. Sì, forse il treno porta con sé l’idea del trascinare, trainer, come dicono i francesi. E’ da lì che viene la parola treno? (…) La parola ha origine dal latino tardo “trenum”, carro da trasporto. Ma la cosa più stupefacente è che “trenum” deriva a sua volta dalla parola greca “threnos” che sta per “canto funebre”. Cosa viene prima: il carro che trascina le vettovaglie per l’esercito o la lamentazione per la morte di un eroe? (…) La parola greca viene prima di quella latina. Contraddizioni di una lingua che ha tanti antenati e tutti diversi. Le piace che il treno ricordi i rifornimenti per la guerra ma nello stesso tempo porti con sé la capacità di consolare e cantare i morti. Ogni treno in fondo viaggia verso il regno dei trapassati, trasportando idee e meditazioni che si nutrono di se stesse. (…) I ricordi delle tante domeniche seduti per terra, lei e il padre Amintore, a trafficare coi vagoni in miniatura le tornano alla memoria mentre il treno la trascina verso il futuro. Forse da lì, dai viaggi immaginari di suo padre, deriva il suo amore per i treni. (…) Le sembra di stare su uno dei trenini di suo padre. Un vagone perfettamente miniaturizzato, che si muove in tondo su rotaie perfettamente imitate. Ma dentro non c’è nessuno e la locomotiva trascina i vagoni lungo rotaie minimali che vanno e vengono dentro una stanza. Non c’è stazione di arrivo e non c’è stazione di partenza. Solo un perverso correre verso un ignoto giocoso e irreale. (…)».

Così scrive Dacia Maraini in uno dei  suoi ultimi grandi romanzi Il treno dell’ultima notte e a noi ci sembra una vera e propria dichiarazione di poetica, di poetica intesa come visione del mondo, per cui si potrebbe parlare di poetica del viaggio nella narrativa della Maraini così vasta e così ricca, come vedremo, di tematiche che esprimono tutte una weltanschauung ormai ben precisata e definita, con dei punti ben saldi che racchiudono una vita e un percorso intellettuale ed etico segnati da una passione e da una coerenza davvero rare: passione per la scrittura e coerenza nel portare avanti, imperterrita, i motivi e le ragioni di tutta un’ esistenza.

 

Dacia Maraini nasce a Fiesole (Firenze) il 13 novembre del 1936. Figlia del grande scrittore, antropologo e orientalista Fosco Maraini e della pittrice siciliana Topazia Alliata del casato degli Alliata di Salaparuta,  ha un’ infanzia  segnata dalla triste e terribile esperienza dell’internamento in un campo di concentramento giapponese, dove soffre anche la fame. In Giappone la famiglia Maraini si  stabilisce nel ’39 e l’internamento avviene nel ’43 per non aver voluto giurare fedeltà al  regime post-neo-fascista della Repubblica di Salò. Le tribolazioni e la fame durano fino al ’45. Racconta la scrittrice che il padre, per poter ottenere del cibo per le sue figlie, fece un gesto da samurai: mise una  mano su di un ceppo e si amputò il dito mignolo: «I giapponesi chiamano tutto questo yubi-kiri. Un gesto antico, un arcaismo che ha un senso profondo in quel Paese (…) Ero bambina, avevo solo sei anni. Non capivo bene che cosa stesse accadendo. Ma ricordo benissimo il braccio di mio padre che si alza con la scure, il mio pianto disperato. E lo sguardo di ammirazione del comandante del campo di internamento. Da quel giorno abbiamo avuto a disposizione una capretta e il suo latte. Tagliarsi un pezzo del mignolo è un modo di protestare. Tocca antiche corde in Oriente. E’ un atto che crea obbligazione nell’altro, un antico costume dei samurai (…) che i giapponesi intendono ancora perfettamente. (…)».(1)

 

 

Nel ’46 i Maraini ritornano in Italia e si stabiliscono in Sicilia dai nonni materni, nella Villa di Valguarnera di Bagheria, ma, più in là, i genitori della scrittrice si separano e il padre va a vivere a Roma, dove la Nostra lo raggiunge all’età di diciotto anni. Frequenta il liceo e cerca di guadagnare qualcosa facendo ora l’archivista, ora la segretaria e ora la giornalista. Appena sui venti anni, fonda, insieme ad altri giovani, una rivista letteraria, Tempo di letteratura. Nella capitale, agli inizi degli anni Sessanta, la sua vita subisce un notevole cambio di rotta: dopo il matrimonio e la separazione dal pittore milanese Lucio Pozzi, conosce Alberto Moravia (che per lei lascia la moglie Elsa Morante) e pubblica, presso Lerici,  il suo primo romanzo, La vacanza. Siamo nel 1962, l’Italia del miracolo economico si avvia lentamente verso la crisi ma per la scrittrice non è che l’inizio di una lunga e splendida carriera che vedrà un successo dopo l’altro non perché, come dissero i critici più maligni, le giovava vivere all’ombra del grande scrittore ma grazie alla sua personale bravura, a un suo personale stile e a una sua personale scrittura. Si accosta, non a caso, allo sperimentalismo del Gruppo 63 e a quello francese del  nouveau roman di Alain Robbe-Grillet. Nel ’63, pubblica il secondo romanzo, L’età del malessere, col quale vince il Premio Formentor e col quale si scatenano tante polemiche negli ambienti letterari. In questi anni conosce e frequenta intellettuali come Pier Paolo Pasolini, Enzo Siciliano, Goffredo Parise, Bernardo Bertolucci, ecc. e, oltre a scrivere libri, scrive anche sceneggiature per film (nel ’70, per esempio, L’amore coniugale, tratto dal romanzo di Moravia). Tra gli anni Sessanta e Settanta viaggia molto insieme a Moravia e, qualche volta, anche in compagnia di Pasolini, il grande amico che difenderà sempre nelle polemiche postume, anche recenti, per le vicende che lo videro protagonista.

Nel 1966 fonda, insieme a Moravia e ad Enzo Siciliano, la compagnia teatrale Il Porcospino: da questo momento sarà davvero notevole il suo impegno nella scrittura teatrale e per il teatro stesso vissuto sia come luogo di informazione sui più scottanti temi di attualità politica e sociale sia come altra modalità per esprimere la propria personalità di intellettuale impegnata e, dunque, il proprio dissenso e la propria contestazione nei confronti della realtà. Nel ’73 fonderà pure, insieme a Francesca Pansa, Lù Leone e Maricla Boggio, il Teatro della Maddalena, diretto e gestito solo da donne. Numerose sono le opere scritte per il teatro (più di sessanta) e notevole l’innovazione ad esso apportato dai suoi testi. Tra i principali ricordiamo Maria Stuarda, Il manifesto dal carcere, Dialogo di una prostituta con un suo cliente, Stravaganza, Veronica, meretrice e scrittora, Camille,  I digiuni di Santa Caterina, Passi affrettati. Notevole è anche l’attività saggistica e giornalistica: la Maraini ha collaborato a testate come Il Mondo, Paragone, Nuovi Argomenti e Paese Sera e tuttora collabora assiduamente al Corriere della Sera. Nella sperimentazione dei vari generi e sottogeneri non manca certo la poesia e, infatti, la prima raccolta  è Crudeltà all’aria aperta che appare nel ’66. L’anno successivo esce il romanzo A memoria, nel ’68 la raccolta di racconti Mio marito, nel ’72 Memorie di una ladra, nel ’74 la raccolta di poesie Donne mie e nel ’75 Donna in guerra. Del ’78 è la raccolta di poesie Mangiami pure mentre dell’81 è il romanzo Lettere a Marina; l’anno successivo esce la raccolta di poesie Dimenticato di dimenticare; nell’84 il romanzo Il treno per Helsinki; nell’85 Isolina, romanzo con cui vince il Premio Fregene, e nell’87 il saggio La bionda, la bruna e l’asino. Ma la Maraini è leggibile anche a livello di intervista. Infatti, la prima è del ’73: E tu chi eri? Sono seguite, poi, nell’ordine: Storia di Piera (1980, in collaborazione con Piera Degli Esposti), Il bambino Alberto (1986) e Piera e gli assassini (2003). Nel 1990 esce, per il genere racconto, L’uomo tatuato, e, per il genere romanzo, La lunga vita di Marianna Ucrìa, uno dei grandi capolavori della narrativa della nostra scrittrice, tradotto in quasi venti paesi, che le fa vincere il Premio Campiello e, soprattutto, la impone a un pubblico sempre più vasto; vince anche il premio Libro dell’anno e Roberto Faenza trae dall’opera il film omonimo. Nel ’91 pubblica la raccolta di poesie Viaggiando con passo di volpe (Premio Mediterraneo); nel ’93 il saggio sulla Bovary di Flaubert  Cercando Emma e il  romanzo Bagheria,  mentre l’anno  successivo,  il romanzo Voci      (Premio Vitaliano Brancati) e, per i racconti, La ragazza con la treccia, cui seguirà, nel ’95, Mulino, Orlov e il gatto che si crede pantera. Nel ’96 escono il saggio Un clandestino a bordo e i racconti per ragazzi Storie di cani per una bambina. E’ questo l’anno in cui rivela (sulla rivista Nuovi Argomenti ) che nel 1960 subì un traumatico aborto spontaneo al settimo mese di gravidanza. Suscitano scalpore le sue parole sull’aborto come «il luogo maledetto dell’impotenza storica femminile» (2), «l’autoconsacrazione di una sconfitta» (3) e, insomma, quasi una metafora della condizione femminile. Ma non si tratta di una sconfessione delle proprie idee e delle proprie tesi, e la Maraini, in merito, precisa puntualmente nelle interviste che rilascia alla stampa. Nel ’97 conduce, su Raidue, il programma Io scrivo, tu scrivi che si occupa della scrittura e di chi vuole fare il mestiere di scrittore. In questo anno esce il romanzo Dolce per sé, mentre nel ’98 vede la luce la raccolta di poesie Se amando troppo; nel ’99, esce la raccolta  di racconti, Buio, con cui vince il Premio Strega.

Gli anni del nuovo secolo sono anni non meno interessanti per la produzione letteraria complessiva della Maraini e per le sue stesse battaglie all’insegna del femminismo e della denuncia delle sopraffazioni che la donna subisce nonostante gli indiscutibili progressi, certo, ma anche all’insegna della giustizia e della verità da difendere e far valere in altri campi e aspetti del vivere sociale, per nulla separate dal suo congenito femminismo in quanto questo nasce da un’esigenza schietta, appunto, di giustizia e di verità che essa vede continuamente soffocate nella nostra come nelle altre società, nella nostra come nella altre civiltà. Si potrebbe dire che, a modo suo,  la Maraini continua la critica pasoliniana e sciasciana contro la mancanza di verità e giustizia, ma  anche di memoria storica che sembrano un dato naturale e immutabile nel nostro paese. Nel 2000, dunque,  esce il volume di opere teatrali Fare teatro.1966-2000; nel 2001 vengono pubblicati il romanzo La nave per Kobe, il saggio Amata scrittura. Laboratorio di analisi letture proposte conversazioni e, per i ragazzi, La pecora Dolly. Nel 2004 muore il padre, al quale era legatissima. In questo anno pubblica un nuovo romanzo, Colomba; nel 2006, invece, la raccolta di aforismi e pensieri Dentro le parole,  il saggio I giorni di Antigone. Quaderno di cinque anni e,  per i racconti, Un sonno senza sogni; del 2007 è il romanzo Il gioco dell’universo. Dialoghi immaginari tra un padre e una figlia con cui vince il Premio Cimatile; nell’anno successivo esce il capolavoro Il treno dell’ultima notte, mentre nel 2009, per la saggistica, pubblica il volume Sulla mafia. Piccole riflessioni personali e una raccolta di racconti  sotto il titolo La ragazza di via  Maqueda. Nel 2010 e nel 2012 ancora racconti: La seduzione dell’altrove e L’amore rubato mentre dal 2011 al 2015  escono i romanzi La grande festa,Chiara d’Assisi. Elogio della disobbedienza, La bambina e il sognatore. Del 2015 è pure il saggio La mia vita, le mie battaglie e il testo teatrale, già citato, Passi affrettati sul tema scottante della violenza contro le donne e il femminicidio.

Quanto alle onorificenze, non va dimenticato che la nostra autrice è stata insignita, nel gennaio del 1996, di quella di Cavaliere di Gran  Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

 

Le donne e le violenze che quotidianamente sono costrette a subire nonostante i progressi della nostra società; l’amore e il sesso (anche nei suoi aspetti più conturbanti e oscuri); il rapporto fra corpo e linguaggio; la guerra, lo spirito antigonesco, di rivolta e di ribellione che le donne, tutte le donne, dovrebbero sempre avere dentro di sé; i soprusi, le sopraffazioni e le discriminazioni che gli uomini infliggono alle donne, ma non solo contro di esse; la sostanziale misoginia dell’uomo che non riesce a sopportare una donna che sia realmente emancipata e, quindi, consapevole dei propri diritti e gelosa custode della propria dignità; il conformismo, il moralismo, l’ipocrisia e i falsi valori della società borghese; le illusioni che, come al solito, sono sempre perdute; il tempo che passa e il suo nostalgico struggente ricordo, che induce  proustianamente a ricercarlo anche attraverso la memoria involontaria e dolorosi itinerari, viaggi mentali al termine della notte; la sofferenza, il dolore e il male che non solo le donne ma gli uomini tutti vivono e subiscono il più delle volte senza sapere perché; le ferite che la Storia infligge agli esseri umani, con il suo carico incomprensibile e inspiegabile di violenze e di orrori; la memoria dolorosa dell’infanzia; la crisi della famiglia e dei veri valori nella nostra società; il sentimento forte e autentico della liberta, della verità, della giustizia e della dignità umana continuamente calpestata in un mondo che – direbbe Montale – propende più per l’immondo che per il sublime; la stupidità dell’uomo e il suo stesso permanere allo stadio primitivo, bestiale come se millenni di civiltà fossero passati invano; la sparizione, la scomparsa delle persone nel nulla, quasi come se si fossero volute perdere, quasi come se fossero fuggite dalla vita e nulla si sa della loro reale esistenza; il viaggio e il viaggiare, non solo fisicamente  ma soprattutto mentalmente: il viaggio e il viaggiare che diventano percorso, itinerario dello spirito, dell’anima e della mente; il viaggiare che diventa viaggiare nei ricordi, nella memoria, nel passato, nella Storia per cercare di comprenderla, per cercare delle risposte ai perché di tanta stupidità, di tanta sofferenza, di tanto male e di tanto orrore; il viaggio, insomma, come metafora: questi ci sembrano i temi e i motivi fondamentali della vasta opera di Dacia Maraini che crediamo di non sbagliare nel definirla la più grande scrittrice italiana vivente. Che è anche la più tradotta e la più conosciuta nel mondo.

 

Dacia Maraini ha sempre amato, fin dalla prima giovinezza,  la lettura e la scrittura che sono, per lei, come una seconda natura. Ha sempre amato e dato supremo valore alla parola. Questo perché essa sa che nella parola e soprattutto nella parola scritta consiste la suprema libertà dell’uomo, la possibilità stessa di ribellarsi alle offese e alle violenze del mondo. Marianna Ucrìa ne è un esempio lampante, che non è possibile dimenticare: essa si ribella e poi si riscatta e si salva attraverso la parola, cioè attraverso la lettura e, dunque, attraverso la cultura. La quale è libertà, verità e giustizia. Fuori dalla penna, diceva Svevo, non vi è salvezza e la Maraini, forte di questo insegnamento-monito del grande autore della Coscienza di Zeno, sembra volerci dire questa semplice verità in ogni suo libro e in tutta la sua opera, persino nei numerosi articoli di giornale che sono dei preziosi “saggi-interventi” sui più diversi temi della società e del mondo in cui viviamo. E uno scrittore si valuta anche per quello che dice e scrive sui problemi del paese, della società  e del mondo in cui si trova a vivere e, insomma, per il suo impegno politico, sociale, civile e morale. Impegno controvoglia, diceva il grande Moravia, perché secondo lui l’impegno artistico era già impegno politico, anzi il più politico, politico nel senso di rivolto alla polis, alla cittadinanza, al pubblico e alla cosa pubblica. La Maraini, però, più sartrianamente, ha sempre pensato che lo scrittore, l’intellettuale deve avere les mains sales, deve cioè sporcarsi le mani, impegnarsi direttamente nelle cose della vita pubblica e dire la sua, facendo in tal modo battaglia politica, sociale, civile, culturale ed etica. E oggi, in Italia, gli intellettuali engagés si possono contare sulla punta delle dita, fermandosi, però, alle prime due o tre. Infatti, se escludiamo la nostra scrittrice, il giovane e coraggioso Roberto Saviano (al quale va tutta la nostra solidarietà) e i due grandi vecchi della letteratura italiana, cioè Dario Fo e Andrea Camilleri che, spesso, fanno sentire la loro autorevole voce, non sapremmo aggiungere altri nomi alla breve lista. Sia la Maraini che Saviano non fanno che usare la parola, quella scritta come quella parlata, nel loro quotidiano impegno e nella loro quotidiana testimonianza, e questo perché sanno che la parola, oltre che libertà, è resistenza: resistenza contro la stupidità, contro la malvagità, contro il male, contro il sopruso, contro la violenza, contro l’orrore, contro le ingiustizie e, last  but not least, contro i mali e le degenerazioni dei politici e della politica. La quale – come ben sa la nostra autrice – fa danni gravissimi quando non opera unicamente per il bene della polis. La parola, la parola scritta, infine, è anche riflessione, è anche memoria e la memoria è consapevolezza, è presa di coscienza che serve a corroborare e mantenere sempre verde la resistenza.

Di tutto questo è intrisa la vasta opera della Maraini. A voler fare una breve antologia del suo impegno e della sua resistenza anche solo attraverso i suoi interventi giornalistici, cioè esaminando i suoi articoli scritti soprattutto per il Corriere della Sera negli ultimi anni e apparsi, in genere,  nella rubrica Il sale sulla coda, ne verrebbe fuori un corposo volumetto: dalla presa di posizione contro le tesi di Oriana Fallaci dopo l’attacco alle Torri Gemelle, ovvero contro gli “scontri di civiltà” (5 ottobre 2001) a quella contro la tratta delle schiave e la sopraffazione legalizzata (13 settembre 2005); da quella contro la mancanza di memoria storica collettiva e per una profonda riflessione pubblica sul negativo del nostro ‘900 (3 luglio 2007 :  mentre in Germania si rivede e si ridiscute il passato nazista, gli italiani restano sempre «restii ad analizzare il passato»), a quella contro la cattiva immagine della donna-oggetto, mero  desiderio sessuale (17 luglio 2007); da quella contro il terrorismo di chi incendia i boschi a cui va opposto come antidoto la cultura e il teatro «come conoscenza di sé (…), come discesa nel mondo dei sogni » (31 luglio e 1 agosto 2007),  a quella contro i difetti dei politici e degli italiani (4 agosto 2007); da quella in difesa degli onesti e contro il “paese degli evasori” (28 agosto 2007) a quella contro la corruzione della casta politica (18 settembre 2007); da quella contro la cattiva TV in favore degli alti pensieri politici perduti (23 ottobre 2007) a quella contro la criminalizzazione e la caccia allo straniero, perché anche gli italiani non sono proprio un bell’esempio (6 novembre 2007); da quella per la richiesta al nostro governo di un atto di coraggio in favore del Tibet (4 dicembre 2007) a quella contro la privatizzazione  e le guerre prossime venture per l’acqua (18 dicembre 2007); da quella contro il paese delle illegalità che non vuole le intercettazioni contro delinquenza dei “colletti bianchi” e corruzione politica (17 giugno 2008) a quella contro il paese della barbarie e dei politici senza pudore (15 luglio 2008); da quella contro la caccia ai cardellini in un paese che detesta le regole ( 9 settembre 2008) a quella contro il razzismo e il mito degli “italiani brava gente” (23 settembre 2008); da quella contro la modernità che distrugge (21 ottobre 2008) a quella in favore degli studenti dell’Onda che lottano «in un paese imbolsito» (4 novembre 2008); da quella contro le guerre americane e israelo-palestinesi (13 gennaio 2009) a quella contro “il grande inganno dell’energia nucleare” (10 marzo 2009); da quella in favore della ex signora Berlusconi e contro il potere ( 27 maggio 2009)  a quella in difesa dell’esperienza comunista in Italia (7 settembre 2009); da quella in favore della manifestazione per la libertà di stampa contro il superpotere mediatico di Berlusconi (6 ottobre 2009) fino ad arrivare alla coraggiosa presa di posizione, con una intervista apparsa sull’Unità del 31 dicembre del 2009, nella quale ha chiesto al nostro governo, ma anche a tutto l’Occidente, di non abbandonare  al loro destino (come avvenne nel ’56 per l’Ungheria)   gli iraniani, soprattutto gli studenti e i giovani, che hanno dato vita al movimento dell’Onda verde che si oppone al regime autoritario di Ahmadinejad e della maggiorparte degli ayatollah: « (…) Ciò che sta avvenendo a Teheran mi ricorda molto un’altra insurrezione di cui ho parlato nel mio ultimo libro. Mi riferisco alla rivolta di Budapest del 1956. Anche in quel caso,un popolo intero era insorto contro la tirannia stalinista, rivendicando giustizia, libertà, diritti. Chiedevano aiuto, gli eroici insorti di Budapest, ma non l’ottennero. Oggi a Teheran il potere usa la calunnia come arma, accusando i manifestanti dell’Onda verde di essere al servizio dell’America e dei sionisti. Accuse assurde, ridicole, ma che pesano. Le stesse identiche frasi, servi del capitalismo, strumento degli americani, furono utilizzate dagli stalinisti quando invasero Budapest nel 1956. Ieri come oggi, la menzogna accompagna la repressione. (…) Senza Internet la resistenza del popolo iraniano sarebbe stata oscurata, coperta dal silenzio e dall’assenza di informazioni imposti dal potere. A dominare la scena sarebbero state solo le“verità” del regime. Così come avvenne a Budapest. (…)». Si parla «poco e male di ciò che sta avvenendo in Iran perché a qualcuno fa comodo presentare il mondo islamico come un monolite minaccioso, popolato solo da oscurantisti teocratici, seguaci di Bin Laden, portatori di odio verso la nostra civiltà, verso l’Occidente cristiano… Un Islam in lotta contro la nostra civiltà .Ma non è così. (…) Dobbiamo fare per gli insorti di Teheran ciò che non si fece per quelli di Budapest. Sentirli parte di noi, vivere la loro lotta come la nostra, le loro speranze e il loro dramma come nostri. Sentirci parte di quella straordinaria, eroica Onda verde».

 

Come non essere d’accordo con tutte queste prese di posizione espresse, fra l’altro, con il solito stile e la solita scrittura elegante ma sobria, essenziale e colloquiale che è possibile rintracciare in tutta la produzione della nostra scrittrice? Come non essere d’accordo con le sue recenti prese di posizione (aprile 2016) in merito ai migranti e alla solidarietà che ad essi va data innanzitutto come esseri umani e contro chi, in nome di un disumano razzismo, pensa di elevare Muri e li giustifica in nome di presunti alti valori da difendere? Come non essere d’accordo, pure, con la sua posizione favorevole alla legge sulle unioni civili, per diritti, cioè, che una classe politica, sempre più mediocre e screditata presso l’opinione pubblica, ha per decenni negato, mostrando di essere «fuori dalla realtà»? (4) E potremmo continuare ancora, citando magari la recentissima presa di posizione in merito alla pubblicazione, da parte de Il Giornale, del Mein Kampf di Hitler: il 13 giugno del 2016 la Maraini ha coraggiosamente fatto notare, in un convegno, che non far leggere quel libro è praticamente più pericoloso che farlo leggere, perché proibirlo può sollecitare alla curiosità negativa.

Quella della Maraini potrebbe essere definita letteratura di testimonianza e non solo per quanto concerne la condizione della donna ieri come oggi, ma per quanto riguarda la condizione umana nel suo complesso e nella sua complessa vicenda storica. «Preferisco pensare alla scrittura come ad una testimonianza delicata, un gesto di affetto nei riguardi di una memoria che se ne va e muore anzitempo. Una esperienza che ti fa cambiare l’angolo dello sguardo, un arricchimento di prospettive», ha scritto in Dentro le parole e, insomma, si potrebbe dire che quella della nostra scrittrice è una letteratura che non se ne sta a casa ma esce fuori per esprimere la propria indignazione, la propria rivolta morale contro il mondo così com’è,  per contestarlo e per proporre la possibilità di soluzioni alternative che possano renderlo, se non il leibniziano migliore dei mondi possibili, almeno un po’ migliore, un po’ più umano, meno razionale e un po’ più idiota come il principe Myskin di Dostoevskij. Leggere e scrivere possono essere un grande aiuto e un libro potrebbe cambiare la vita e anche il mondo. Certamente aiuta a capirlo meglio. E i libri della nostra autrice hanno sempre avuto questa funzione. Si dice che la società in cui si vive o i fatti storici riescono spesso a spiegarli meglio i romanzi che non ponderosi volumi di storia. «I romanzi sono i migliori raccontatori di un paese», ha scritto la Maraini in un articolo per il Corriere della Sera (5) e, leggendo i suoi testi, quante cose non si comprendono meglio che non attraverso quelli di sociologia o di storia? Se ci soffermiamo un po’ sul grande romanzo, Il treno dell’ultima notte, dal quale siamo partiti nella premessa, non possiamo non concludere che chi lo legge capisce certamente più a fondo certi  eventi storici e prende più dolorosamente coscienza degli orrori della storia e di come gli eventi storici possano travolgere e stravolgere le vite umane fino a renderle irriconoscibili e indelebilmente segnate nell’animo più che nella carne. E’ il caso doloroso e tragico di Emanuele, il ragazzo tanto amato dalla protagonista Amara: un uomo che l’esperienza del lager nazista ha reso la personificazione stessa, il simbolo, la metafora dell’orrore e del male, del cuore di tenebra e della linea d’ombra che attraversa la storia degli uomini e che, con il nazi-fascismo, ha attraversato il secolo scorso lasciando, purtroppo, scorie (così le chiamava Benedetto Croce) che sembra difficile gettare definitivamente nella trotskiana spazzatura della storia. Un secolo, il ‘900, che è stato anche attraversato dalla terribile esperienza dello stalinismo, con i suoi morti e con le sue atrocità. Il treno che porta Amara è un treno della memoria e il suo è un viaggio, il viaggio della ragione, attraverso la zona oscura della storia, la zona oscura del cuore e della mente dell’uomo, la cui ragione,  appunto, quando si addormenta, genera mostri. Ce lo ha insegnato il Goya e, prima di lui, il sommo Dante nel suo viaggio infernale. E non è, quello della Maraini, una sorta di moderno viaggio infernale, un metaforico viaggio attraverso gli orrori, «gli obbrobri inaccettabili» (Dolce per sé) di cui solo i mortali sono capaci? Attraverso il «difficile lavoro di alchimia delle parole» (come definisce in Bagheria il particolare mestiere dello scrittore), attraverso la visione lucida della realtà ma anche attraverso l’immaginazione Dacia Maraini ci ha finora fatto dono, e ci auguriamo che possa farcene ancora, di opere che sono certamente destinate a rimanere. Ed è nella distanza che si misura un autore. E la Maraini è destinata a rimanere, lei che ha fatto della lettura, della scrittura, della curiosità e dell’immaginazione delle ragioni di vita perché le hanno sempre consentito di meglio comprendere e leggere il mondo in cui le è stato dato di vivere. «L’occhio del cittadino moderno ha un raggio molto corto. Non vede al di là del suo ufficio, della sua camera da letto, del suo cortile, della sua strada intasata di automobili. Più in là, si affida ai “sogni” meccanici dello schermo. Ma lo sguardo può vedere molto di più ciò che sta dietro le cose, le facciate, le vetrine. Per vedere di più però occorre un buon rapporto con l’immaginazione. Ed è quello che spesso manca. (…)». (6) E non  diceva il grande Federico Fellini che «immaginare è il modo più alto di pensare»? Per la Maraini l’immaginazione è  certamente fondamentale e, infatti, in un recente commento nella sua rubrica Il sale sulla coda (3-5-2016) l’ha definito «quel motore essenziale del nostro spirito», del nostro pensiero e dei nostri sensi in quanto crea empatia, ci fa, cioè, sentire il dolore e la sofferenza degli altri che, pertanto, facciamo nostri. Dell’immaginazione si è infatti avvalsa la scrittrice nella stesura del citato capolavoro Il treno dell’ultima notte, romanzo storico post-novecentesco, nato – ha spiegato – dalla «passione per la memoria storica» perché «oggi c’è una specie di paralisi, nei giovani manca la volontà di conoscere il passato, come se tutto il piacere fosse nel presente. E noi scrittori, a volte, con l’immaginazione, riusciamo a rivitalizzare la memoria collettiva» (7). Nella sua esplorazione dei due totalitarismi del ‘900 – il nazismo e il comunismo sovietico – «il mio metodo è stato questo: massimo della verità e massimo dell’invenzione. Per riuscirci ho lavorato sui dettagli, che dovevano essere plastici, corposi. Per quattro anni sono andata a caccia di dettagli, che non si trovano nei libri di storia, ma nei diari, nelle memorie, nelle testimonianze orali di chi c’era. Sono andata sui luoghi. Poi ho lavorato di immaginazione, che è lo strumento che permette di coniugare la memoria storica e la sensibilità personale» (8). In questo suo viaggio negli orrori, negli abissi infernali del ‘900 totalitario la scrittrice non ha però perduto la capacità di distinguere tra totalitarismo e totalitarismo, tra male e male, in un’epoca in cui, caduti il Muro di Berlino e l’impero sovietico, si è cercato di fare, attraverso una martellante campagna ideologico-culturale mediatica ed editoriale, di tutta l’erba un fascio, mettendo sullo stesso piano la vicenda del nazi-fascismo con quella del comunismo: «Io non penso che i due totalitarismi abbiano lo stesso peso. Entrambi hanno portato dolore. Ma quello nazista nasce da un’idea violenta e mortuaria: c’è una razza superiore, c’è una piramide, una gerarchia, tra esseri umani e culture, è un’ideologia lugubre, legata alla morte. L’ideologia comunista invece nasce, e ci tengo a dire “nasce”, da un’aspirazione alla giustizia, alla solidarietà verso i più poveri e i più deboli, è un’ideologia dell’uguaglianza. Entrambe le ideologie si sono rivelate catastrofiche. Ma quanto ha fatto il nazismo è rimasto unico nella Storia, la banalità del male, male estremo e perfezione da burocrati, di cui parlava Hannah Arendt. Tant’è che, appunto, questo racconta il mio romanzo, le vittime non riuscivano nemmeno a “immaginare” il destino cui erano avviate» (9). Anche di questa fondamentale distinzione, che fa la differenza, la Maraini è da ringraziare, perché mostra, ancora una volta, quanto sia grande la sua lucidità e quanto sia importante per tutti la consapevolezza luxemburghiana che la libertà è sempre la libertà di dissentire, di pensare diversamente e, quindi, di non appiattirsi al pensiero dominante del momento, di ogni momento. E’ certamente stato per lei un privilegio essere stata in tutti questi anni, come dice Brecht, seduta «dalla parte del torto» quando «tutti gli altri posti» erano «occupati».

 

NOTE

  • il Corriere della Sera del 24 agosto 2007.
  • La Stampa dell’11 gennaio 1996.
  • La Stampa del 4 marzo 1996.
  • Il Mattino, 15 ottobre 2015.
  • il Corriere della Sera del 2 gennaio 2009.
  • l’Unità dell’11 novembre 1989.
  • l’Unità del 29 aprile 2008.