Amendolara-16/09/2016:Ricordo di Alda Merini (1931-2009) -(di Salvatore La Moglie)

  

Salvatore La Moglie
Salvatore La Moglie

 

Ricordo di Alda  Merini (1931-2009)

                                 

    di Salvatore  La Moglie

                                              

Credo che ormai sia un dato più che acquisito il fatto che Alda Merini sia una delle maggiori poetesse italiane e non solo italiane. Nata a Milano nel 1931, il suo precoce talento viene subito scoperto dal critico Giacinto Spagnoletti che, insieme a Quasimodo, è tra i suoi primi ammiratori. Già nel 1954 Pasolini scrive della Merini, sulla rivista Paragone, cogliendo analogie e affinità con poeti italiani e stranieri: Rebora, ma certo il romagnolo Campana, per non  parlare dei tedeschi, Rilke o George o Trakl, si può nominare: per ragioni di parentela razziale, s’intende, di analogia di langue, di substrato psicologico e di fenomeni patologici. Ma c’è anche chi la vede vicina – per potenza immaginativa e non comune capacità di intonazione musicale – a un poeta grande ma poco conosciuto come Gerald Manley Hopkins.

Il suo carattere schivo e appartato l’ha portata a rifiutare correnti e mode letterarie, ma non le ha impedito di conoscere, a Milano, personalità di rilievo come Quasimodo, Manganelli, padre David Maria Turoldo e Maria Corti la quale, nella prefazione a Vuoto d’amore, ha saputo cogliere – a mio modo di vedere – la quintessenza della poesia e del fare poesia di Alda Merini: La Merini scrive in momenti di speciale lucidità benché i fantasmi che recitano da protagonisti nel teatro della mente provengano da luoghi frequentati durante la follia. In altre parole, vi è prima una realtà tragica vissuta in modo allucinato e in cui lei è vinta; poi la stessa realtà irrompe nell’universo della memoria e viene proiettata in una visione poetica in cui è lei, con la penna in mano, a vincere.

In una poesia in cui prevale ossessivamente l’endecasillabo e i cui temi sono quelli della vita quotidiana con il male e il dolore (anche della memoria) che li accompagnano inesorabilmente; in una poesia in cui c’è orfismo (un particolare orfismo), sensualità, trasgressione e misticismo il linguaggio si fa sempre più tormentato e dolente quanto più la poetessa raggiunge i vertici della forza visionaria e di quella lucida follia di cui parlava Pirandello.

E siamo al punctum dolens, al tema doloroso della follia, della malattia mentale che tanto ha reso tormentata e sofferente la vita della poetessa pazza che pazza non era, ma che ha rischiato di diventarlo sul serio durante i dieci anni di internamento tra Milano e Taranto. Esperienza dolorosissima, che l’ha certamente segnata con una profonda ferita nell’anima, più che nel corpo. Eppure, la nostra poetessa, proprio nell’inferno del manicomio, ha trovato la sua salvezza, la sua redenzione, il suo riscatto fino a toccare il paradiso: Laggiù nel manicomio/ facile era traslare/ toccare il paradiso, recita un suo meraviglioso verso. Ed è la riprova che, in prigione o in manicomio, i nostri simili possono anche distruggere il nostro corpo, ma non riusciranno mai ad annientare la nostra mente, il nostro pensiero, la nostra anima. Specialmente se si tratta di un’anima poetica, di rarissima sensibilità come quella della Merini. Allora la Poesia si erge vindice sulle brutture, sugli orrori  e sulle miserie umane e pianta la sua bandiera in segno di  vittoria sulla dantesca aiuola che ci fa tanto feroci. Proprio come per primo fece con il Sommo Poeta, che tanto aveva sofferto per l’assurda ferocia degli uomini su questa valle di lacrime, che è la terra su cui provvisoriamente viviamo.

Alda Merini ha raccontato, una volta, al Corriere della Sera del 15 febbraio del 2008, di essere stata torturata per ben 46 volte con la terapia dell’elettroshoc. Un racconto davvero allucinante e incredibile. La tenevano chiusa in una stanzetta dove c’era tanto buio. L’oscurità. Un lettuccio da operazioni. Ti bloccavano braccia e gambe. Ti sistemavano gli elettrodi alle tempie e ti davano questa sberla tremenda… Era una barbarie. Una sevizia. Una tortura…Pochi secondi… dio mio, era un martirio. Meglio, molto meglio la galera… Il curaro iniettato, il morso in bocca, le 220 volt, io che diventavo un fantasma per tre giorni… Dimenticavo il mio nome… Non camminavo, non mangiavo. E… quanti ricordi ho perso là e mai più ritrovato…E anche tutti i denti . Colpa del morso. La scarica te lo faceva stringere con tutte le forze del corpo… Stiamo parlando di 220 volt… Svuotavano le persone mentalmente e fisicamente. E, comunque, quando ti riprendevi, avevi addosso un’aggressività tremenda, ma no, io no. Io piangevo. E sorridevo, contenta…Sì, per quarantasei volte sono stata una sopravvissuta. Chissà quanti morti ha seppellito, quella stanzetta

Lei, dunque, non è morta durante la sua lunga stagione all’inferno, perché non poteva, armata com’era – direbbe Pasolini – delle armi della poesia. La poesia, la scrittura (e lei ha scritto tantissimo!) ha salvato Alda Merini, la ha anestetizzata e l’ha riscattata dall’oblio al quale uomini in carne e ossa come lei l’avevano condannata. Lei che per anni ha avuto come pena – direbbe Mario Luzi – quella di durare oltre quest’attimo.

Se la sua è stata o non è stata vera follia non possiamo dirlo con sicurezza, ma una cosa è certa: se da tanta follia può nascere tanta poesia, allora tanta follia non può che meritare il nostro più grande elogio.