Trebisacce-25/07/2017: Lettera a quelli che guardano solo dalla finestra – (Il piromane è proprio spietato)-di Giuseppe Rizzo

Incendi

 

Lettera a quelli che guardano solo dalla finestra

(Il piromane è proprio spietato)

 Pericolosissimi incendi, pianto e bestemmie. Il fuoco, che non è affatto spontaneo e casuale, circonda anche i piccoli paesi, che vivono già una lenta agonia. Il sindaco chiama per urgenza ma l’aereo giunge quando è quasi tutto distrutto. La burocrazia è lentissima e confusa. Dopo la Foresta della caccia, nella zona di Mostarico c’è un altro inferno. Nei pressi della Pagliara il piromane non ha sentito pietà per quel grandissimo carrubo accerchiato e rovinato dalle fiamme.

I ragazzi affidano i messaggi al comodissimo face book, con foto accanto al testo e parole di…fuoco: Leonardo dice che l’appicciafuoco dei nostri boschi deve essere impiccato in piazza, come si faceva con i briganti. Ma i briganti, la cui “ferocia” era provocata dalla “ferocia”  padronale, li avevano creati i “galantuomini” usurpatori di terre, scriveva giustamente Vincenzo Padula. Invece, Francesco, il piromane lo vorrebbe sparare a sale; Maria e Salvatore lo chiamano stupido e assassino. Pochi dicono che diverse masserie, vigneti, uliveti e anche certi villini dei nuovi borghesucci di paese sono invasi dalle sterpaglie. Gli “struzzi” continuano a tenere il becco sotto la sabbia. A me, che scrivo sui ritardi degli aerei antifuoco e su Matteo Renzi che ha accorpato le guardie forestali ai carabinieri, chiedono ancora le “prove” e le “certezze”, perché ho visto delle  “ruotate” di un fuoristrada e di una moto: si sa che il piromane, appena mette fuoco, deve scappare subito in auto.

E’ facile guardare dalla finestra e restare con la bocca tappata: anche l’appicciafuoco esce dalla scuola dell’odio, di cui non può essere accusata solo la piccola Albidona. Ci sono ancora i seminatori di discordie; qualcuno lo fa anche in chiesa. Invece di pensare al fuoco, fanno pettegolezzi e calunnie. Altri, bevono la birra davanti al bar. Non dicono come avvengono gli incendi dei nostri boschi. Anch’io mi sono amaramente commosso quando ho visto l’inferno delle contrade Destra e Pozzicello di Albidona e la zona di Mostarico, a Trebisacce. Ma il fumo del fuoco di Corigliano e di Sibari è arrivato fino al Pollino.

Sono ancora amareggiato, perché io sono nato proprio in quella campagna di Forestacaccia, in una fredda notte di novembre del 1943. Poi, da giovane, detestavo quella terra amara, isolata e lontana: si stava proprio male. Nonostante tutto, mio padre voleva che tutti i giorni, anche quando nevicava e tirava vento e freddo, dovevamo recarci a scuola, in paese. Nel pomeriggio, tornati in campagna, c’era da pascolare il bestiame, togliere le pietre dal terreno o da recintare l’orto. Che compiti di scuola potevamo fare, se la nostra casa di campagna era illuminata solo dalla resinosa “teda” di pino d’Aleppo !?  Nostro padre lo chiamavamo “il boss”, tipico personaggio della famiglia patriarcale calabrese; come  “Padre padrone” di Gavino Ledda. Però il boss” ci diceva che “la scuola apre gli occhi”. Ci ricordava che  “gli impiegati del municipio, tutti raccomandati dal podestà fascista, quando i contadini andavano a chiedere un certificato di nascita, li prendevano in giro, perché non sapevano parlare in italiano”.

Non aveva torto, quel ruvido ma tenero contadino della “Forestacaccia”. Io protestavo, bestemmiavo e gridavo appresso alle capre. Poi, giovinetto, feci la fuga verso la scuola, lasciando i miei quattro fratelli. Mia madre si dispiaceva della mia assenza, e ripeteva: “Almeno uno dei cinque, lo togliamo dall’inferno”.

Oggi sono tornato sui luoghi dell’incendio che ha devastato un vasto territorio di Albidona; mi sono fermato davanti a quella piccola masseria, dove in un triste giorno di settembre degli anni Cinquanta vidi una giovane mamma che piangeva disperata e teneva fra le braccia il suo bambino, morto appena nato, in quel deserto di Albidona. Ricordo che nel suo pianto, la donna ripeteva: “Forse è stato più fortunato quel bambino, che è nato nella grotta di Betlemme !”

Però non posso dimenticare la fiumara del Saraceno, dove facevamo il nostro bagno, completamente nudi; e chi poteva andare al mare !? Rivedo l’Alicheto, la bella Forestacaccia, il Timpone Nardòne e la fontana di Pozzicello ?  Vi abitavano altri dannati della terra: oltre ai miei, c’erano gli zii e i cugini, la vecchia “Gianniella” che bestemmiava come me; zio Vincenzo Sc/cacchetto, che di notte scavava le fosse per piantare gli ulivi, ora distrutti dal fuoco; zi’ Scepp Leonetti, che costruiva la “surdulìna”, zio Lisàndro, con le sue inseparabili capre nere. Giù, nella vallata c’erano i “Pallòne”, poi scappati in America, come tanti altri disperati del Sud.

Credo che in queste notti di fuoco, tutte quelle anime della mia terra siano uscite dalle tombe, per venire a piangere con noi, sull’altura del “Timpone Pozzicello”, da dove passavano i pellegrini che si recavano a piedi alla Madonna di Pollino, per chiedere grazie impossibili e anche miracoli: anche quella era gente disperata. Di lì vidi portare sul basto dell’asino anche zi’ Michele, che era morto a Samocastello, ancora più lontano di noi. Le storie della mia terra non sono tutte felici. Quanta gente moriva in campagna, senza medico e senza prete !

Sulla porta del vecchio casolare della “Migàna”, la nostra guaritrice del malocchio e del fidanzamento in crisi,  c’è ancora conficcato il ferro d’asino che doveva allontanare il male e l’invidia, ma oggi, quel ferro arrugginito non ha potuto spegnere il fuoco. E’ andato in fiamme anche il grande gelso nero che aveva piantato mio padre, quando gli nacque il primo figlio. Scusate, se sono stato troppo lungo nello scrivere questa lettera. Tutto sommato, cari amici che volete uccidere Caino, cerchiamo di seguire San Francesco; preghiamo per ” sora nostra matre Terra”. Chi sa pregare, dica al Signore che solo Lui, forse può toccare il cuore e il cervello di questa gente che non sente pietà per la sua terra bruciata, dove siamo tutti destinati a morire.

GiuseppeRizzo