Trebisacce-10/07/2019:Incontro con l’autore: la poetica del rimpianto, della nostalgia del tempo perduto e delle cose lontane nell’opera di Massimiliano Ivagnes (di Salvatore La  Moglie)

Massimiliano-Ivagnes

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

 

Salvatore La Moglie

 

L’opera dell’avvocato-scrittore salentino Massimiliano Ivagnes* ci appare essere dominata, in genere, da una visione poetica in cui a prevalere è soprattutto il doloroso, struggente rimpianto di ciò che è stato e più non ritornerà insieme al forte sentimento di quello che i preromantici tedeschi chiamavano, già sul finire del 1700, Sehnsucht, ovvero il sentimento di struggente desiderio e nostalgia per ciò che più abbiamo amato (le cose lontane, come lo stesso autore le chiama) ma che non potremo mai più avere, neppure per un momento. Questo romantico stato d’animo poetico si avverte certamente di più in quello che, a nostro modo di vedere, è l’opera più importante, il capolavoro del nostro Autore pubblicato da Albatros nel 2017: Palla al centro, sottotitolo emblematico: Una storia di vita qualunque. Come dire: badate che questa è la mia ma potrebbe essere di chiunque altro. E questo perchè se un autore è quasi sempre autobiografico scrive, però, non per autoesaltarsi o autocommiserarsi ma per rendere universale i propri pensieri, il proprio dolore, le proprie emozioni, i propri sentimenti e stati d’animo. Si tratta di un romanzo di oltre 400 scorrevoli pagine in cui il narratore cerca di riassumere una vita intera, ovvero tutte le tappe di un’esistenza – l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza e la maturità – giunta oltre il mezzo del cammin di nostra vita dopo giorni e anni vissuti – direbbe l’indimenticabile Fabrizio De Andrè – a rincorrere il tempo, a rincorrere, proustianamente, il tempo perduto per cercare di fissarlo una volta per sempre sul foglio bianco per non farlo morire, per tenerlo in vita. E questo perché, Ivagnes come Proust, sa perfettamente che la letteratura è la sola, la vera vita più pienamente vissuta. E, così, il Nostro cerca di recuperare il tempo perduto non solo perché ne ha forte nostalgia ma soprattutto per immortalarlo in una forma, in un contenuto e in un contenitore che  chiamiamo libro.

Per questo la scrittura e la letteratura sono per Massimiliano Ivagnes come l’aria che respira e, leggendolo attentamente, non possiamo che concludere che, come Gesualdo Bufalino, anche lui, se non ci fosse la letteratura, morirebbe. E ancora, come per Italo Svevo, anche per il Nostro, fuori della penna non c’è salvezza. Perchè è la letteratura – passione della sua vita – che lo ha aiutato a vivere, a superare i momenti più dolorosi della sua esistenza e a fargli affrontare con coraggio la vita.

Fatta questa premessa, si può certamente affermare che il bel romanzo Palla al centro è indubbiamente e innanzitutto un Bildungsroman, cioè un romanzo di formazione, il cui protagonista racconta, spesso fin nei dettagli, le varie fasi della propria esistenza facendo notare come le diverse vicende – quelle positive come quelle negative e dolorose – siano state per lui una continua educazione, una continua formazione durante la quale ha appreso, dolorosamente, che aveva ragione il grande poeta tedesco Novalis, e cioè che la vita non deve essere un romanzo che ci viene imposto, ma un romanzo fatto da noi. Perchè il protagonista, Marco De Santis, fin da ragazzino vuole romanticamente vivere una vita che sia sua, che sia un romanzo inventato da lui e non una pirandelliana forma o maschera che gli altri ci vogliono ostinatamente imporre per costringerci poi a vederci vivere. E Marco non vuole assolutamente vedersi, pirandellianamente, vivere ma la famiglia, soprattutto il padre medico (che è, fra l’altro, un padre assente per il mestiere che fa) gli impongono di assumere una maschera che gli sta abbastanza stretta, quella del laureto in Medicina, appunto come il padre… La sua passione per la letteratura, per la scrittura e, in futuro, per l’insegnamento, viene così mortificata e Marco, non riuscendo a ribellarsi, finisce per subire l’imposizione familiare fino a provare sulla propria pelle come la famiglia sia – per dirla con Karl Kraus – un’interferenza nella vita privata. La famiglia che è per noi tutto, l’alfa e l’omega della nostra vita, può costituire e rivelarsi anche la negatività della nostra esistenza. Marco prova tutto questo dolorosamente ma, però, insieme, ai momenti di felicità vissuti insieme ai suoi grandi amici e alle sue sorelle, soprattutto Stefania, la sua  Fefi. Momenti di felicità e di autenticità ormai per sempre perduti, ormai appartenenti a un mondo e a un tempo che più non ritorneranno e che potremo solo rimpiangere e rivivere almeno letterariamente.

Giunto ormai alla mezza età, diciamo così, intorno ai cinquant’anni, il protagonista sente l’esigenza di «trarre un bilancio» della propria vita e vedere se è in perdita, a profitto o a pareggio. Per uno che fin dall’infanzia era certo che non si sarebbe mai sposato e non avrebbe avuto mai una famiglia e dei figli come un po’ tutti gli altri esseri umani su questa terra non si può certo dire che il bilancio sia a profitto: forse lo è stato fino a un certo momento della sua vita, poi è stata in perdita o al massimo a pareggio quando l’invadenza familiare gli ha tolto l’entusiasmo per una vita tutta sua e gli ha fatto commettere errori di cui si sarebbe sempre pentito.  E così, tra una Canzonissima e l’altra, il Carosello, il Festival di Sanremo, le canzoni di Loretta Goggi, Mike Bongiorno e Pippo Baudo, si arriva alle stragi di Stato e poi agli anni Settanta segnati dall’austerity, dalle dure lotte di classe dei lavoratori, dalla Contestazione studentesca e dalla lotta armata dei gruppi più estremi e dei cosiddetti compagni che sbagliano fino all’oscura strage di via Fani e al sequestro e poi alla barbara uccisione dell’on. Aldo Moro, che segnò un vero e proprio spartiacque nella storia del nostro paese. Non solo, ma ci sono anche gli anni del dopo Moro, quelli segnati dal potere di Craxi con la sua Milano da bere e il suo slogan: cresce il PSI, cresce l’Italia; e anche quelli segnati dallo scandalo della P2 di Licio Gelli e da delitti eccellenti (Calvi e Dalla Chiesa) fino ad arrivare a quelli di Falcone e Borsellino e, insomma, allo spettacolo di un’Italia ormai abbastanza opaca, grigia e rassegnata in cui i grandi partiti e i grandi leaders politici di una volta sono scomparsi insieme alla contrapposizione Est-Ovest e alle ideologie che avevano segnato il Novecento. Tutto un mondo perduto insieme a quello delle nostre personali vicende che solo la letteratura può far rivivere. Ecco, in Ivagnes la letteratura ha proprio questo compito: recuperare e far rivivere ciò che è irrimediabilmente passato e rischia l’oblio più assoluto; passato che rappresenta, appunto, la nostalgia delle cose lontane.

Dopo aver ceduto alle aspettative paterne, incomincia, col tempo, a farsi strada, in Marco, quella che l’io narrante definisce «una malinconia delle cose perdute» che «gli attanagliava l’anima, e pareva che a tratti gli mozzasse il respiro». In lui cresce la convinzione che il suo destino sarà di vivere una «non-vita», una vita da inetto, direbbe Italo Svevo, in cui a farla da padrone sarebbe stato il brutto rapporto con la realtà e gli esseri umani. Una vita non sua che gli fa orrore e che subisce per una sorta di quieto vivere familiare. E, in seguito, questa sua «non-vita», segnata dalle incertezze e dalla mancanza di volontà e di decisione, sarà resa ancor più triste e amara dalla tragica morte della sorella, dell’amatissima Fefi che, ora, non potrà più essere vicino a lui come una volta. Questa vita voluta da altri lo vedrà laureato in Medicina e specializzato in Geriatria con soddisfazioni ma sempre con l’amarezza di non aver deciso lui della propria esistenza. Però, morto il vecchio padre che non si sente di non perdonare, Marco vive un lungo periodo di insoddisfazione e di grigiore, sempre, però, in uno stato d’animo inquieto e ansioso, sempre con il forte sentimento di dover fare qualcosa, di dover mettere ordine nella propria vita per darle finalmente quel senso che aveva sempre cercato invano di darle. Cerca il vero amore e una donna da amare sinceramente e, invece, frequenta per mesi una prostituta che non può che confermargli quanto sia grande il deserto del sesso (come direbbe Leonida Repaci) quando dopo l’atto sessuale non ci sia amore, quello vero. Del resto, Marco è consapevole del fatto che la vita stessa è «puttana»: «ti porta in cielo e dopo mezzo secondo ti trascina negli abissi più profondi». Marco si sente «solo ed infelice», spaventosamente inetto alla vita, sa che la sua più che vita è una sorta di sopravvivenza agli eventi che sono subiti o decisi dagli altri e, così, arriva persino a drogarsi. E, nell’era dei social network e face book che danno l’illusione di non sentirsi soli, lui si avverte orribilmente solo e segnato da una vita sbagliata, tanto sbagliata che, alla fine, giunge a una conclusione: o si pone fine a questa specie di vita oppure si ricomincia tutto daccapo: si rimette la palla al centro, si riprende il gioco e si ricomincia a vivere. Tertium non datur! Così, alla fine, Marco giunge alla virile presa di coscienza sulla propria esistenza e sul senso da darle, dopo quella che Flaubert ha definito una continua educazione, cioè la vita. «Aveva fallito in tutto», ma ora tornava a rimettersi in gioco, c’era la voglia e la volontà di voltare pagina, di riappropriasi della propria esistenza. La sua terra, il luogo delle sue origini era il campo dove poter ricominciare il «viaggio impervio e seducente che è la vita». Iniziava, così, quasi dantescamente, la «vita nuova» che consiste, tutto sommato, nella consapevolezza che la nostra esistenza consiste in poche semplici cose che possono renderci soddisfatti e sereni: avere un lavoro che ci piace, una compagna che amiamo e che ci ama, degli amici sinceri su cui poter contare… La vita, insomma, forse non è altro che l’arte di accontentarsi, di saper godere di poche ma sostanziali ed essenziali cose.

Il nostro Autore ha scritto anche numerosi racconti, la maggior parte dei quali racchiusi nella raccolta Questioni di coscienza. Alcuni di essi sono dei veri e propri capolavori che ti restano impressi nella mente anche per la loro visionarietà ed emblematicità come, per es., In nome del padre, nel quale un padre scrive al figlio un diario-testamento-politico-morale per raccontare la triste e miserevole condizione umana in cui lo ha costretto l’universo concentrazionario, orribilmente repressivo e punitivo degli NL, cioè dei NeoLiberal e del loro Neoliberismo sfrenato che, in nome del superprofitto e del dio denaro, ha ridotto il mondo in un carcere e gli uomini in un numero, proprio come il nazismo fece con gli ebrei e tutti gli oppositori nei suoi famigerati lager. Ecco come il padre spiega dal carcere-lager questo universo-trappola-mortale ammantato di pseudodemocrazia: «Il debito pubblico è diventato la ragione giustificatrice della nostra schiavitù. Della schiavitù delle masse, che rappresenta il 97% della popolazione europea e solo il 13% del reddito complessivo d’Europa. Gli NL campano del nostro sudore e grazie al lavoro di noi masse per “diritto di nascita”, come ripetono sempre: “nessuna barriera legale all’ingresso è stata mai posta”, dicono; “è solo una questione di ceto d’origine”. Già, mica discriminano loro! Loro non contravvengono al principio di uguaglianza formale, l’unico principio supremo di ogni paese civile! […] Hanno concentrato la ricchezza del pianeta nelle mani di pochi attraverso la propaganda di esaltazione ossessiva dell’iniziativa economica privata, della loro iniziativa economica, smantellando lo Stato sociale e il diritto di uguaglianza sostanziale. Hanno creato un gruppo di comando di tipo verticistico, con i Commissari nominati della Banca Universale per l’amministrazione generale, gli Esecutori aventi compiti di pubblica sicurezza, e poi con i subordinati di terza fascia, come te, figlio mio, che sei al servizio costante di qualcuno di loro. E poi ci siamo noi. A cui, piano piano, hanno tolto tutto, compresa la dignità di vivere. “E’ ontologicamente errato” ripetevano, “concedere alle masse la scelta dei propri governanti. Per tale scelta occorre competenza e professionalità, che le masse non possiedono e che i mercati, però, esigono!”. E così iniziarono a scegliere i governanti per cooptazione all’interno della loro stessa cerchia, in modo da potersi assicurare leggi e provvedimenti di ispirazione liberale, in grado di garantire loro il mantenimento, anzi, il rafforzamento del potere. Hanno mescolato le etnie in nome di alti principi etici, al solo fine di renderci ancora più soli e vulnerabili, incapaci di rivendicazioni e di lotte di classe. E le masse muoiono, marciscono, spariscono nell’indifferenza più totale.[…]». E, alla fine, davvero commovente, oltre che pregnante, è il messaggio del padre al figlio, unica eredità che può permettersi di lasciargli in un mondo, direbbe Padre Dante, così guasto: «Lo Stato liberale per definizione non interviene nell’economia; lo Stato sociale interviene per rimediare ai fallimenti di mercato. Ma il fallimento non è rappresentato dalle masse, no! Noi siamo solo il risultato del liberismo sfrenato. I veri fallimenti di mercato sono l’iniquità, la disuguaglianza, la disoccupazione involontaria ed il mercato lasciato da solo a regolarsi, non è in grado di provi rimedio.

Liberismo è barbarie, figlio mio, barbarie e turpitudine. L’idea liberale ha ridotto le masse in queste condizioni e ha garantito ai NeoLiberal la loro situazione di privilegio economico e di detenzione del potere politico.

Tu sei ancora un uomo giovane, figlio mio. Giovane e in grado di pensare autonomamente, anche in difformità dalla propaganda politica dei NeoLiberal Europei.

Nel tuo cuore coltiva sempre l’idea di uguaglianza sociale, di condivisione, di equa redistribuzione della ricchezza, di altruismo, di solidarietà. E rischia, rischia pure di perdere contro i NeoLiberal, perché loro sono potenti, infinite volte più potenti di te: controllano tutto, azione e pensiero di ognuno di noi. Ma tu rischia lo stesso, perché la tua sconfitta non sarà nulla in rapporto alla giusta causa che persegui. E farà di te un barbaro in meno su questa terra ed un uomo migliore rispetto a loro. Sii forte. Ti voglio bene, figlio mio. Il tuo papà».

Altri racconti sui casi di coscienza, anche se non di impegno civile o politico-sociale che dir si voglia, non sono da meno. Interessante è, pure, Il sole, la pioggia in cui il giudice Raffaele Rizzo si trova alle prese con il caso del suo miglior amico d’infanzia il cui figlio ha problemi con la giustizia. Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non capisce, ha lasciato scritto il grande Blaise Pascal e, nel caso citato, da una parte ci sono le ragioni del cuore e dall’altra quelle della ragione, anzi della legge, per cui il narratore non può che affermare: «Fu così che iniziò il mio tormento. Non avevo mai creduto, fino a quel momento, che il sentimento, di qualsiasi natura esso fosse, potesse offuscare la ragione di un uomo. Trascorsi i giorni a seguire nella più totale confusione. […]È strano come la vita, inaspettatamente, possa mutare di colpo una mattina radiosa e piena di luce in una giornata piovosa e grigia. Il sole e la pioggia si alternano nella vita di tutti noi come un’altalena bizzarra ed imprevedibile». E più avanti  – prevalse le ragioni della ragione e delle leggi –  il nostro giudice-narratore conclude amaramente che, dopo aver severamente condannato l’amico del figlio per il delitto commesso, a restare era l’amarezza, appunto, e un angoscioso disincanto di fronte alla vita e alla realtà, che sono sempre un muro di gomma e diverse da come le sogniamo; alla fine, a restare come punto fermo della nostra «strana esistenza» è la nostra coscienza, la nostra dirittura morale: «Condannai Luigi a nove anni di carcere […].Ma con quella sentenza di condanna, che pur sentivo conforme a giustizia, cancellai una parte  della mia vita. […]In tal modo compresi come la vita con una mano ti regala una gioia, ma con l’altra spesso ti infligge una punizione, un sacrificio, una rinuncia, tanto per ricordarti che avere sempre tutto ciò che si desidera non è cosa di questo mondo e non dipende dalla nostra forza di volontà.

E così, dopo la luce, a volte cala l’inesorabile buio sugli affetti, sui rapporti, sugli amici, sui ricordi e su tutto ciò che fino a ieri sembrava inossidabile.

Noi ci affanniamo, ci prodighiamo affinché tutto rimanga sempre così com’è, ma poi arriva il vento, un vento lontano e indomabile che, nostro malgrado, spazza via una parte di noi. Rimane la nostra coscienza a farci da salvagente nei tumultuosi meandri di questa strana esistenza ed una sottile, infida, quasi palpabile amarezza per ciò che abbiamo perduto per sempre e per tutto quello che non tornerà più come una volta».

Altri racconti sono Fantasmi del passato, Il mio migliore amico, Alla ricerca del geranio bianco, Marco delle bambole, Come il vento tra le fronde del sassofrasso, Padre davvero e, fuori dalla raccolta, Se non qui, dove?

Infine, c’è l’Ivagnes fine poeta della vita, dell’amore e del dolore degli uomini e del mondo. Le sue migliori poesie sono raccolte nella silloge Uomini, noi… Il tono dei testi sembra procedere in un misto di modernità e di tradizione classica con un linguaggio che, a volte, appare solenne e austero. Forte è la tensione verso l’infinito, verso il cielo e, infatti, nella lirica Di cosa non è capace Andrea si legge: Trascorro le ore/ affacciato sul cielo e in Gli occhi di Luca l’io poetico narrante dice: anelo impavido un respiro d’infinito e ancora: Rivendico fiero ognora/le spine del mio cielo /che, come lame taglienti,/ hanno graffiato l’anima /e ancora stracciano il mio cuore e, infine, in Cosimo al tramonto: M’inchino ammirato,/di gaudio ricolmo,/al cospetto divino/del pittorico affresco,/col senso immanente/nel cuore stampato/di salda inerenza/all’intero universo.

Nei componimenti di Ivagnes, però, c’è, sempre, insieme al nostro male di vivere e alla tensione verso un oltre, un aldilà a cui aspiriamo, la realtà, anche quella più cogente, che ci incalza e ci fa dire (in Davide e le distanze): E cammino stralunato,/vado in cerca di persone,/di qualcuno che comprenda/il disagio dei miei giorni,/ma le mie parole urtano/contro un muro e di rimbalzo/dentro l’anima s’avvitano/ claudicanti e senza echi. E in Danilo si arrende leggiamo questi accorati versi: Percosso ed affranto,/vago in cerca di ragioni,/perch’è arduo intendimento di questo lembo d’esistenza,/che amara scorre/su giorni arruffati,/su lacrime stanche /di volti innocenti,/su spiagge assolate/di antiche disfatte.

Infine, notevole è la lirica Amici miei in cui si leggono questi splendidi versi: In un mondo che gira sbagliato,/tra gli squali di oceani in tempesta,/navighiamo paurosi ed affranti e celiamo i diamanti del cuore./Noi lecchiamo silenti ferite/e lo abbiamo col tempo capito:/affonderemmo ad un altro sopruso,/alla beffa molesta del fato infedele ma, questa, cari amici lettori: E’ la fiaba di piccola gente,/che non trovi sui libri di storia:/amici avvezzi a speranze tradite,/per voi il mio canto è atto d’amore.

Fuori dalla silloge, merita di essere ricordata la poesia Come quando fuori piove nella quale domina la tematica esistenzialistica col negativo della vita e della realtà: E mi perdo un’altra volta/nel labirinto dell’esistenza:/corridoi infiniti/insonnia costante quando, invece, ci sarebbe un’infinita voglia di quiete e di serenità e, alla fine: Come quando fuori piove/ed eviti lo sguardo/allo specchio dei perché,/affondi in un bicchiere /le tue serate da baro/solo per dimenticare/il disordine che regna/fuori e dentro di te. E mi ritrovo un’altra volta/solo tra le strade di città…

Un altro testo, infine, in cui ci sembra racchiusa tutta la poetica, ovvero la visione della vita e della realtà del nostro Autore, è Il mare della vita: Come naufrago perso/ho cercato un approdo,/ma il risucchio mi ha spinto/verso porti funesti. /Ed ora che sento/il timone più saldo,/sopra il mare bizzarro/dei miei anni passati/io sollevo il mio canto,/conciso riassunto /di poesia e anche pianto.

Per concludere il discorso su questo interessante scrittore contemporaneo figlio della Puglia, ci sembra di poter affermare che si tratta di un autore che ha sempre cose importanti da dirci e che da buon poeta fingitore sa mettere in pratica il detto del grande Fernando Pessoa: Il poeta è un fingitore./Finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore/ il dolore che davvero sente. E questo perché egli non è un avventuriero della parola ma è poeta vero che, come Alfonso Gatto, vorrebbe dire ai suoi lettori: Tutta dolcezza e pianto/ vorresti le parole/ che chiudono da sole/ la verità del canto.

 

 

* Massimiliano Ivagnes è nato nel 1970 a Roma e vive in provincia di Lecce. Dopo la maturità scientifica si è laureato in Giurisprudenza e poi ha conseguito il dottorato di ricerca in diritto penale. Ha pubblicato diversi studi di diritto intertemporale su riviste specializzate, svolgendo parallelamente l’attività di avvocato. Da sempre appassionato di scrittura, nel dicembre 2017 debutta nel mondo letterario pubblicando il suo primo romanzo: “Palla al centro” (ed. Gruppo Albatros Il Filo), con il quale, oltre ad aver ottenuto riconoscimenti in concorsi letterari quali il Premio Internazionale Salvatore Quasimodo 2018, il Premio Internazionale Poesia, Prosa, Arti Figurative e Teatrali A. Musco – Il Convivio 2018, il Premio Internazionale di Letteratura Michelangelo Buonarroti ed altri, ha ottenuto il Primo posto al Premio Internazionale Altamura Demos 2018 (con il racconto “Il sole, la pioggia”).

Nel mese di marzo 2018 è co-autore del volume “Ispirazioni”-36, raccolta di poesie edita da Pagine srl.  Ha collaborato alla stesura del Volume “CET Scuola Autori di Mogol – 2018 Alfa” con il testo di una sua canzone: “Abbassando, abbassando” (Aletti ed.). E’ stato uno degli autori selezionati per l’antologia “Alessandro Quasimodo legge i poeti contemporanei 2018” con la poesia “Il canto della memoria” (Aletti ed.), da cui è stato tratto il video (visionabile sul canale yuotube). Ha poi pubblicato nella collana “Colori”-70 (giugno 2018) edita da Pagine srl un’ulteriore silloge poetica. E’ in procinto di uscire (giugno 2019) una sua raccolta di poesie interamente dedicata all’universo maschile dal titolo “Uomini, noi…” (Aletti ed.) e una raccolta di racconti dal titolo “Questioni di coscienza” (Gruppo Albatros Il Filo ed.).

Con la poesia, ha ottenuto numerosi riconoscimenti, vincendo il Premio Letterario Leonardo ed. 2018 (“Il mio mare”), il Premio Internazionale di Poesia “Antonio De Francesco” Vita Via Est 2018 (“Il canto della memoria”) e il Premio internazionale De Finibus Terrae 2018 (“Gli occhi di Luca”).