Trebisacce-21/08/2015:Profilo di Carlo Levi (di Salvatore La Moglie)

Profilo di Carlo Levi

di  Salvatore La Moglie

 

 

Carlo Levi, di origine ebraica, nasce a Torino nel 1902 e durante la sua giovinezza, cioè durante il fascismo al potere, partecipa alla rivista dell’amico Piero Godetti la Rivoluzione liberale e, in seguito, è molto vicino ai gruppi di Giustizia e libertà dei fratelli Rosselli. Questa formazione politica e culturale giovanile lo tempra facendone un uomo di grande coerenza e di grande umanità, nonché un sincero e fervido amante della libertà.

Lo stesso anno in cui si laurea in medicina fa anche la prima esposizione di quadri alla Biennale di Venezia. Il suo antifascismo lo porta a rifiutare la retorica servile dell’arte ufficiale e il conformismo di fatto del futurismo marinettiano, affidando alla pittura il valore di espressione della libertà, come lo porta anche a dare vita alle prime organizzazioni clandestine, ad essere tanto attivo nel gruppo di Giustizia e libertà da meritare più volte la galera e la condanna al confino in terra di Lucania tra il 1935 e il 1936.

L’esperienza del soggiorno coatto presso la primitiva e quasi mitica gente della Basilicata è fondamentale e certamente determinante nella vita dello scrittore. La sua grandezza e la sua fama sono infatti legate al celebre romanzo che da quell’esperienza poi nasce nel 1945: Cristo si è fermato a Eboli. Romanzo che, riproponendo la questione meridionale con tutto quello che implica,  sarà destinato ad oscurare, e fino ai nostri giorni, la grandezza di Carlo Levi sia come poeta che come pittore. Del Carlo Levi poeta si possono leggere alcune poesie del periodo del confino nelle quali già si intravede il grande capolavoro e nelle quali si può notare il forte legame dell’artista con la terra lucana popolata da rassegnati “cafoni”, tanto arretrata e tanto dimenticata dallo Stato da far pensare che Cristo, cioè la luce della civiltà moderna, del progresso non sia mai penetrata in quella regione. Si tratta di poesie molto belle, ricche di sentimento e di realtà viva e palpitante allo stesso tempo. Vale la pena ricordarne e porre all’attenzione del lettore alcune di esse. Ecco la prima che è del luglio del 1935:

 

Così, ritrovato cielo,

            fumo bianco di stelle,

            via d’umane formiche

            che un’ora sola fa belle,

            monotono sole su biche,

            paglia arida, capre,

            rassegnata povertà,

            voi siete il luogo nuovo

            che in modo antico i giorni consuma,

            tutta la vita è lontana

            dietro i monti giallastri e la bruma,

            nel vegetar quotidiano

            a lingua straniera il ciel s’apre

            straniero, e la triste bontà.

 

La seconda,invece, è dell’agosto del’35:

Pazienza tu donna ben sai

            che porti in capo il sacco di grano;

            rassegnazione ti è accanto

            se ti affatichi al sole

            o se discesa al piano

riposi ai bordi di malaria.

            Speranza non c’è perché mai

            questa tua vita non varia:

            sai che la sorte contraria

            è una con te, per arcano

            destino, realtà necessaria

            che ti segue ovunque tu vai

            col suo peso quotidiano

            come una pena ereditaria:

            inutile l’umido pianto

            e vane le aeree parole:

            lagnarti di quel ch’altri vuole

            ti sembra impensabile e strano

            perciò non m’offri compianto

e credi ch’io sia tuo fratello.

 

La terza poesia è dedicata alla vita “senza tempo” di Aliano, un paesino lucano. Levi la scrisse nell’ottobre del’35:

 

Ozio alianese

 

Ozio, pesantissimo ozio alianese

            che duri da mille anni

            all’ombra dei tuoi santi e delle chiese

            ancorato ai malanni,

            non conosci altri tempi che le attese

            del niente, ed agli affanni

            quotidiani rifiuti le sorprese

            dello sperare, e mai non muti panni.

            Bruciati i dolci inganni

            dal monotono vento calabrese,

            son compagno ai tuoi danni

            immobile borbonico paese.

 

La quarta poesia che  voglio porre all’ attenzione del lettore è del febbraio del 1936:

 

Mistica della prosa

 

Mistica della prosa

            senza sensi, arida

            assimili ogni cosa

            al pantano sterile.

 

            Cieli ignoti, terre amare

            uguali d’ognintorno

            fanno del tempo che appare 

            un solo immutevole giorno.

 

            Non fronda d’ulivo né pianta

            svaria l’oscura attesa

antica: l’uccello che canta

            cade come una sorpresa

           

            nell’immensità ferma:

            vanga e sudore danno

            a questa argilla inferma

            come il passato, un altro anno.

 

            Eternità vuota

            senz’erba né voce di sposa

            è la straziante ruota

            mistica della prosa.

 

Infine, l’ultima poesia, che è del luglio del’36 ed è davvero palpitante di una grande umanità e di un grande amore per una terra dove Cristo non si è fermato, dove Cristo non è arrivato:

 

M’avete fatto umano

            baci dolenti, terre nascoste

dove un dolore antico

era prima del mio arrivo.

 

Come un classico dio mendico

sono stato in mezzo al grano

povero e alle scomposte

 

colline del grigio ulivo;

secoli di pene imposte

e di desiderio vano

sul biondo tuo viso amico

come in quei monti scoprivo

 

che un egoismo lontano

arse paterno e passivo

spogliando d’erbe l’aprico

terreno e le tenere coste.

 

Alle offerte senza risposte

so solo rispondere, e dico

parole che apran l’arcano

grembo del fonte vivo.

 

E potremmo continuare ancora perché ci sono, naturalmente, anche tante altre belle e struggenti poesie non legate al periodo del confino. La poesia di Levi è stata definita dal critico Plinio Perilli lirica pittorica, poesia dipinta. E certo non si sbagliava. E Pier Paolo Pasolini, in due suoi  componimenti, esalta il Nostro come il maggiore dei  poeti, come dire?, dotati dell’arte del pennello: Noi tuoi fratelli minori,/piccoli soli o lucignoli/ cerchiamo di salvare le tue tele dal rogo… E ancora Pasolini, nel 1967, in omaggio a Levi, scrive : Ogni tua pennellata è/ una piccola bandiera di libertà

Come pittore, Carlo Levi, è allievo di Felice Castrati e partecipa alla costituzione, a Torino, del “Gruppo dei sei”. I suoi maestri sono gli impressionisti francesi ma anche i grandi del ’900 come, per esempio, Chagall e Soutine. La sua pittura, come la sua scrittura, è una “critica sociale”, che nasce da motivazioni, appunto, sociologiche, esistenziali e anche etniche e etnologiche che dirsi voglia.

Carlo Levi è stato anche uomo politico. Infatti, nel 1963, viene eletto al Senato come indipendente nelle liste del PCI.

Se Cristo si è fermato a Eboli rappresenta il suo successo editoriale e artistico, occorre, però, ricordare che ha scritto anche altre opere di valore come: L’orologio (del 1950); Le parole sono pietre (del ’55); Il futuro ha un cuore antico (col quale vinse, nel’56, il Premio Viareggio); La doppia notte dei tigli (del ’53); Tutto il miele è finito (del’64) e, infine, la raccolta di “poesie inedite” (1931-1972) pubblicata, circa dieci anni fa, con il titolo Bosco di Eva.

Carlo Levi è morto il 4 gennaio del 1975, cioè quarant’anni fa, e ha voluto essere seppellito ad Aliano, nella sua Lucania.

È stato scritto che fino a tutti gli anni ’80 la critica ha avuto difficoltà a definire Carlo Levi: romanziere, pittore, sociologo, saggista, ma quasi mai come poeta. Solo Giacinto Spagnoletti, negli anni ’90, lo celebra anche come grande poeta. Se dovessimo inquadrarlo in una corrente letteraria, certamente il suo posto è tra quelli che già negli anni ’20 e ’30 del ‘900 venivano “chiamati” neorealisti per distinguerli dai realisti del’800. Parliamo di Moravia, Pavese, Vittorini, Bernari, Pratolini, Silone, ecc. Ma Carlo Levi è certamente da collocare in quel Neorealismo che matura come nuova corrente letteraria, nonché cinematografica, dopo il crollo del fascismo e che rimane in vita fino al 1955 quando la pubblicazione del Metello di Pratolini ne decreta la fine. Crediamo di non sbagliare   facendo questa affermazione, perché se il canone principale del Neorealismo è quello della ripresa quasi fotografica della realtà, del romanzo o del film come documento, allora il capolavoro di Carlo Levi Cristo si è fermato a Eboli, ma anche le sue poesie e le sue opere pittoriche, devono considerarsi tali e non prive – allo stesso tempo – di quel lirismo e di quel sano sentimentalismo (inteso proprio come ricchezza di sentimenti veri) che non mancarono nelle opere di neorealisti come Pavese, Vittorini, Pratolini, ecc.

Sulla personalità complessa e sul versatile ingegno del nostro Autore ci sarebbe tanto da dire. Per esempio, di recente, sull’Avvenire del 20 agosto del 2015, Rocco Talucci, arcivescovo emerito di Brindisi-Ostuni, si è posto il problema della religiosità o meno di Carlo Levi (1). Ebbene, va detto che con molta onestà intellettuale, l’alto prelato scrive, nel suo articolo, che nel grande scrittore non c’era né Dio né la religione cristiana e, anzi, nessuna religione. Levi – che egli ha conosciuto di persona – era un puro, un uomo buono e probo che amava l’uomo e la libertà, come pure la verità e la giustizia. Che sono tutti valori e ideali del cristianesimo che, ammette implicitamente Talucci, sono vissuti da Levi in maniera certamente laica e, dunque, la sua potrebbe, al massimo, definirsi una religiosità laica. Del resto chi l’ha detto che un non credente, un ateo non possa avere una sua perfetta religiosità laica e vivere magari più cristianamente di un credente e ultraprofessante? L’ateo Foscolo, per il quale, dopo, c’era solo il nulla eterno, non si era creato la laicissima religione delle illusioni?…

Insomma, il discorso potrebbe continuare ma, per il momento, vorrei concludere questo mio, certamente incompleto, profilo di Levi con una sua bellissima definizione dell’arte, della concezione che egli ne aveva, che risale al 1939: «L’arte è totalità, perché in lei nascono insieme il momento dell’indifferenziato è quello del particolare, l’abisso vi prende forma senza diminuirsi, la passione vi si esprime senza urlo, l’uomo vi è intero, senza legami, sufficiente a se stesso».

 

 

NOTE

  • Scrive mons. Talucci: «Carlo Levi insomma non è un uomo religioso, non si riconosce in nessuna religione. Vaga, per non dire inesistente, è l’idea di Dio. L’unica religione per lui è la libertà dell’uomo. (…) L’uomo e la libertà» che sono, poi, i «capisaldi del Cristianesimo».