Trebisacce-09/02/2016:Profilo di Dino Buzzati (di Salvatore La Moglie)

    

Salvatore La Moglie
Salvatore La Moglie

Profilo di Dino Buzzati

 

di Salvatore La Moglie

 

Sono ormai quarantaquattro anni che Buzzati è morto e oltre un secolo è trascorso dalla sua nascita, eppure l’autore del Deserto dei Tartari è come se fosse sempre tra di noi. Questo perché ha lasciato una traccia che il tempo – quel tempo che era stato uno dei grandi leitmotif  nelle sue opere –  non sarà capace di cancellare, perché il Nostro appartiene a quella categoria di artisti che sono destinati a rimanere.

Dino Buzzati Traverso (questo il suo nome all’anagrafe) nasce a San Pellegrino, in provincia di Belluno, il 16 ottobre del 1906 da genitori di origine veneziana. Il padre, Giulio Cesare, insegna Diritto Internazionale all’Università di Pavia e la madre, Alba Mantovani, è la sorella dello scrittore Dino Mantovani. L’agiata famiglia Buzzati si trasferisce presto a Milano e qui il piccolo Dino comincia a prendere lezioni di violino ad appena otto anni. Dopo aver frequentato il liceo Ginnasio “Parini” si iscrive alla facoltà di Legge più per dare soddisfazione ai genitori che per passione. Infatti, le sue passioni sono ben altre: la letteratura, la musica, la pittura e anche la montagna che sul Nostro eserciterà sempre un grande e misterioso fascino. Intanto legge Dostoevskij, Manzoni, Tolstoj, Balzac, Hoffmann , gli  scrittori “gotici”, Kafka, Poe, Conrad, ecc.

Tra il ’26 e il ’27 fa l’esperienza del militare come ufficiale e l’anno successivo, il 10 luglio, entra come praticante al Corriere della Sera, al quale già il padre aveva collaborato. Quella presso il Corsera si rivelerà una esperienza lunghissima e proficua, che gli servirà molto anche nell’hobby (come lo definisce lui) della letteratura. Il ’28 è anche l’anno in cui si laurea in Legge con una tesi su La natura giuridica del Concordato. Il ’33 è l’anno del suo esordio come romanziere con Barnabo delle montagne, che ebbe un discreto successo. Nel ’35 esce Il segreto del Bosco Vecchio ma non ottiene lo stesso favore del primo. Mentre lavora intensamente al Corriere come cronista, poi come vice-critico musicale, nel ’39 come inviato speciale ad Addis Abeba e l’anno successivo come corrispondente di guerra, Buzzati lavora anche intensamente alla stesura di quello che è considerato il suo capolavoro e che è certamente tra i più grandi romanzi del ’900: Il deserto dei Tartari. Con questo romanzo, che Buzzati considera il libro della sua vita, ottiene il successo di pubblico e di critica. Da questo momento, però, più di un critico lo paragonerà, forse un po’ sbrigativamente e suo malgrado, a Kafka, attribuendogli «colpevoli analogie». Il libro doveva intitolarsi La fortezza ma l’editore gli chiese di cambiare titolo. A farlo pubblicare, nel ’40, è Leo Longanesi presso Rizzoli, nella collana “Il sofà delle muse”. Sulla genesi del libro ecco cosa ha lasciato detto l’autore in una lunghissima intervista, per un “autoritratto”, a Yves Panafieu: «Probabilmente tutto è nato nella redazione del “Corriere”. Dal 1933 al 1939 ci ho lavorato tutte le notti, ed era un lavoro piuttosto pesante e monotono. I mesi passavano, passavano gli anni, e io mi chiedevo se sarebbe andato avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani, si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no, intorno a me vedevo uomini, alcuni della mia età, altri molto più anziani, i quali andavano trasportati dallo stesso lento fiume e mi domandavo se anch’io un giorno non mi sarei trovato nelle stesse condizioni dei colleghi dai capelli bianchi già alla vigilia della pensione, colleghi oscuri che non avrebbero lasciato dietro di sé che un pallido ricordo destinato presto a svanire…».

Intanto Buzzati continua a lavorare intensamente sia come giornalista (lo farà fino alla fine dei suoi giorni) che come pittore e scrittore sperimentando il romanzo come il racconto, la favola, il teatro e il poema illustrato da lui stesso. Appare ormai sempre più evidente la sua propensione per il “fantastico”, per il surreale ma non il surreale, come dire, alla francese ma una particolare forma di surreale che trae la sua fonte dalla realtà che – secondo Buzzati – è già essa stessa tanto surreale e irreale da non aver bisogno affatto di inventarsene una a posta. Il fantastico e il surreale, come pure il grottesco e il paradossale sono già nella realtà di tutti i giorni e del resto Buzzati conosce bene la lezione di Oscar Wilde, secondo il quale la realtà supera sempre la fantasia. E dunque Buzzati si mette a scrivere un’infinità di racconti che la (sur-)realtà generosamente gli suggerisce. Nel ’42 esce la raccolta de I sette messaggeri; nel ’45 il libro illustrato per ragazzi La famosa invasione degli orsi in Sicilia; quindi Il libro delle pipe e nel ’49 i racconti Paura alla Scala. E’ questo l’anno in cui segue il Giro d’Italia per il Corriere della Sera. Nel ’50 esce la raccolta di note, appunti e racconti In quel preciso momento; nel ’57 i racconti Il crollo della Baliverna e nel ’58 Sessanta racconti, Le Storie dipinte e l’altra raccolta di racconti Esperimenti di magia. Buzzati si ripropone come romanziere nel ’60 con Il grande ritratto e nel ’63 con Un amore che alcuni critici leggono come un superamento del Buzzati “fantastico” e “surreale” ma che, a una lettura più approfondita, appare come una conferma sostanziale del Buzzati di sempre, quello che ha come temi fondamentali della sua weltanschauung la morte, la solitudine e il tempo che scorre inesorabilmente e irreparabilmente.

Nel ’65 è la volta de Il capitano Pic e altre poesie, di Tre colpi alla porta (poema satirico), mentre nel ’66 escono i racconti Il colombre. Nel ’67 appaiono i Due poemetti, raccolta di poesie, e l’anno successivo i racconti La boutique del mistero. Del ’69 è Poema a fumetti (oggi molto rivalutato per la sua modernità, per il suo essere stato anticipatore); del ’71, invece, sono Le notti difficili e I miracoli di Val Morel. Per il teatro Buzzati scrive nel ’53 i drammi Un caso clinico, nel ’62 La colonna infame e nel ’68 La fine del borghese. Sono usciti postumi, nel ’72, Cronache terrestri, nel ’73 Un autoritratto. Dialoghi con Yves Panafieu e nel ’78 I misteri d’Italia. Naturalmente le opere di Buzzati sono state ripubblicate in gran parte dalla Mondadori e tanti sono gli scritti usciti in questi anni che ricordano anche la sua attività di giornalista e di critico d’arte presso il Corriere della Sera. Buzzati giunge tardi al matrimonio, lui che una volta confessò che con le donne non ci sapeva fare: l’8 dicembre del ’66 sposa Almerina Antoniazzi, più giovane di lui di trentacinque anni. Pare che la giovanissima sposa sia stata l’ispiratrice del romanzo Un amore. La loro unione dura sei anni. Infatti, Buzzati, ormai minato nella salute da un tumore al pancreas, si spegne a Milano il 28 gennaio del 1972. Si dice che, prima di chiudere gli occhi, abbia accennato a un lieve sorriso, proprio come il suo antieroe Giovanni Drogo che, non potendo combattere eroicamente contro i fantomatici Tartari, aveva deciso di affrontare con dignità quasi stoica l’eterna nemica, tanto attesa, tanto temuta e tanto detestata: la morte.

Infine, non si deve dimenticare che da alcune sue opere sono stati tratti gli omonimi film: Un amore (Gianni Vernuccio, 1965); Il fischio al naso (Ugo Tognazzi, 1967); Il deserto dei Tartari (Valerio Zurlino, 1976); Il segreto del Bosco Vecchio (Ermanno Olmi, 1993); Barnabo delle montagne (Mario Brenta, 1994).

Dicevamo prima della propensione di Buzzati per il fantastico e il surreale al quale sono ben legati anche quella per il paradossale, il meraviglioso, l’imprevedibile, il misterioso, l’incredibile e il favoloso che si risolve, come ha acutamente scritto Geno Pampaloni, «quasi sempre in un lucido realismo dell’irreale».(1) Ed è propensione che in Buzzati resta fino alla fine, anche nel romanzo Un amore che più di un critico ha letto come diverso, quasi in contrapposizione a Il deserto dei Tartari. Un amore è stato interpretato essenzialmente come autobiografico e realistico, più calato cioè nella realtà di tutti i giorni e anche improntato a realismo psicologico. Però, a leggerlo più attentamente, si vede che alcuni temi e motivi cari a Buzzati sono presenti come nelle altre opere: il mistero e ciò che è misterioso; l’irrealtà e la paradossalità della realtà quotidiana; il tempo che scorre; la ricerca di un oltre, di un altrove che vagheggiano ma che non riusciamo mai a trovare; le assurdità di certe situazioni che siamo costretti a vivere; l’ambiguità degli esseri umani e di certe loro vicende; la coscienza della vecchiaia e l’ossessione della morte, con il suo terribile mistero; il sentimento della decadenza e della fine inesorabile delle cose del mondo; la rinuncia alla vita e l’attesa che viene sempre delusa; l’incombere del destino (che è sempre amaro destino…); la vendetta eterna dei giovani sugli anziani; il sentimento della sconfitta e della solitudine più estrema; l’incomunicabilità, o meglio l’impossibilità di avere un rapporto autentico con gli altri esseri umani; la solitudine, anche nella sofferenza; l’angoscia e l’alienazione; la disillusione, il disincanto di fronte alla (ir-)realtà quotidiana; il venir meno delle certezze e il nostro conseguente smarrimento di fronte a un mondo e a una realtà che ci appaiono sempre più estranei, incomprensibili, misteriosi e, appunto, surreali… Come si può notare, si tratta di tematiche in gran parte decadenti, che si possono rintracciare qua e là nelle sue opere, ma se, poi, si va a riflettere ancora, possiamo notare che il personaggio di Un amore è simile a quello de Il deserto dei Tartari, perfino nel cognome: Dorigo l’uno, Drogo l’altro. Entrambi due antieroi, due inetti alla vita, due uomini senza qualità inadeguati e inadatti all’esistenza di tutti i giorni, entrambi alla ricerca di qualcosa e in attesa di qualcosa. Entrambi pessimisti e catastrofici. Entrambi personaggi decisamente buzzatiani ma anche e soprattutto decisamente decadenti e appartenenti, a giusto titolo, al romanzo del ’900 che, soprattutto nella prima metà, è ricco di personaggi simili a Giovanni Drogo. Il quale, come tanti altri della letteratura europea e non solo italiana, è un antieroe, psicologicamente disadattato, incapace di prendere di petto la realtà e autocondannato a una vita grigia, inerte, immobile, prevedibile e priva di grandi ed esaltanti esperienze. I personaggi come Drogo – va precisato – sono inetti alla vita proprio nell’accezione più piena del termine, nell’accezione sveviana, per intenderci, eppure vorrebbero vivere una vita intensa ed eroica, vorrebbero – proprio come Zeno Cosini – essere come Napoleone, fosse pure per un giorno solo. Sanno che la loro vita è grigia e triste, dominata dall’immobilismo, dalla noia, dalla solitudine e dal sentimento cocente della sconfitta e del fallimento e proprio per questo sono alla disperata ricerca di un qualcosa, di un evento eccezionale, di una situazione eroica che possa riscattarli da una vita che – direbbe il Moravia de La noianon persuade della propria effettiva esistenza. E così stanno per tutta la vita in attesa beckettiana ad aspettare un Godot che non arriverà mai, e se, alla fine, giunge come il fantomatico esercito dei Tartari, ecco che i Drogo si ritrovano vecchi, ammalati e moribondi e, quindi, impossibilitati a vivere (loro che si sono sempre visti pirandellianamente vivere) il grande momento e la grande occasione della loro vita, quella che almeno per un giorno consente loro di vivere da eroi, di dare un senso alla loro vita, di riscattare tutta un’esistenza non vissuta e destinata solo all’attesa della grande nemica, la morte. A questa – sempre temuta, esorcizzata ma anche attesa come se, però, non dovesse mai arrivare – a questa, dicevo, non resta che virilmente consegnarci e abbandonarci con un sorriso quasi di sfida e di superiorità, e senza mostrare di averne paura. Così succederà al vecchio, amareggiato ma anche disincantato Drogo costretto a morire da antieroe e da sconfitto della vita nella stanza di una locanda, abbandonato da tutti. La sua «esistenza sbagliata», come la definisce Buzzati, vuole che «almeno finisca bene». Che almeno sia eroico e anche stoico di fronte alla morte. Così,  avrà dato almeno un senso finale alla sua esistenza e al suo tragicamente immobile destino di uomo che avrebbe voluto vivere un’altra vita e non quella che il destino gli aveva assegnato. Certo, non è bello arrivare alla fine della propria esistenza e dover dire a se stesso (come implicitamente fa Drogo) “Dio mio, non ho vissuto!”.

Nel Deserto ci sono tutti quei temi e quei motivi ricorrenti nelle opere di Buzzati cui si è accennato e potremmo affermare che, certamente, nel capolavoro essi sono condensati, racchiusi proprio come a voler definire la propria totale visione del mondo e della realtà. Anzi, della surrealtà, della irrealtà. Perché, similmente a Landolfi e diversamente da Kafka («la mia croce…») Buzzati coglie dalla (sur-ir-)realtà quotidiana gli aspetti paradossali, assurdi, fantastici, misteriosi, meravigliosi, incredibili, ecc. che traduce artisticamente sulla pagina e sulla tela con risultati di altissimo livello, pur nella semplicità dell’espressione. Buzzati – diversamente da Kafka – non rappresenta nelle sue opere l’incubo, la trappola e il labirinto traumatico che sono diventati il mondo e la società moderna che ci condanna e ci imprigiona per colpe che non abbiamo commesso. Buzzati, semmai, rappresenta l’autoimprigionamento, la caduta volontaria, misteriosamente volontaria, nella trappola della vita (la fortezza Bastiani col suo fantastico e misterioso deserto, che è poi il correlativo oggettivo del deserto e dell’aridità della nostra esistenza); il nostro volontario esilio dalla vita di tutti i giorni, per andare incontro a un sogno di gloria, a un destino eroico che alla vita dia, oltre che dignità, un significato. Quest’autoimprigionamento e quest’autoesilio finiscono per condannarci a trent’anni di attesa (di un grande evento e di una grande occasione che ci riscatti una volta per tutte da una vita piuttosto subita che vissuta) col risultato finale di accorgerci, con amarezza e angoscia, che il tempo che ci è stato dato non solo non era eterno come credevamo quando lo vivevamo, ma anche e soprattutto che non lo abbiamo saputo vivere. Buzzati sa benissimo che il tempo è sinonimo di vita e che chi sa vivere il tempo sa vivere la vita. E, invece, né Buzzati né il suo riflesso letterario, Drogo, lo hanno saputo vivere. «Alla vita Buzzati ha sempre dato del lei, non c’è mai entrato in pianta stabile», ha scritto efficacemente Indro Montanelli. Buzzati aveva «preso le distanze» dalla vita e come lui anche Drogo il quale, finendo per farsi dominare dal misterioso fascino della fortezza Bastiani dove la vita e il tempo scorrono in una immobilità e in una noia terrificanti, preferirà l’attesa (tutto sommato rassicurante e protettiva di fronte alle imprevedibilità della vita “oltre-deserto”) alla  vita normale di tutti gli altri uomini; preferirà aspettare tutta la vita il nulla, l’inesistente o, per meglio dire, qualcosa che si sogna e si desidera ardentemente ma che non c’è e che, perciò, non arriverà mai. E così Drogo dovrà riconoscere con se stesso che, alla fin fine, si vive e si sogna come si muore, cioè perfettamente soli, per dirla con Conrad. Ma anche che nell’attesa della morte ha sprecato la propria giovinezza e ha fatto male i conti con il tempo e con l’eternità: «Quanto tempo dinanzi, pensava. Eppure esistevano uomini…che a un certo punto (strano a dirsi) si mettevano ad aspettare la morte, questa cosa nota e assurda che non lo poteva riguardare. Drogo sorrideva, pensandoci…». Ma lui sapeva che, invece dell’eternità, aveva a disposizione «una semplice e normale vita, una piccola giovinezza umana…» che, in un «preciso momento» è destinato a finire. Di questo Drogo, cioè Buzzati è pienamente consapevole, tanto che nel racconto In quel preciso momento scrive che: «Le pagine della vita, le ore, voglio dire, i giorni astronomici e i mesi senza bisogno di stupide metafore, si succedono con grande rapidità, bisogna convenire, a vederli passare con tanta compostezza non si direbbe mai che siano nostri nemici. Vanno adagio, da gran signori. Ma non si fermano mai, i maledetti, non danno un attimo di respiro, abbiamo un bel correre avanti, predisporre, pianificare, calcoli, progetti. Siamo uomini, ahimè, e ogni tanto dobbiamo fermarci. Fermarci, e ci addormentiamo. Ma così, mentre noi stiamo fermi sul bordo della via sognando strane cose, le ore, i giorni, mesi ed anni, ci raggiungono uno per uno, con la loro abominevole lentezza ci sopravanzano, si perdono in fondo alla strada. Poi al mattino ci accorgiamo di essere rimasti indietro, ci mettiamo all’inseguimento. In questo preciso momento… finisce la giovinezza».

Se dovessimo rispondere alla domanda: che tipo di romanzo è Il deserto dei Tartari? risponderemmo che si tratta, senza alcun dubbio, di un romanzo sincronico. In verità, i romanzi possono essere considerati anche sotto l’aspetto della staticità o del movimento. Mi spiego. Ci sono romanzi diacronici, quelli cioè in cui vi è movimento, cioè vi è sviluppo nella storia raccontata e la trama è davvero complessa e anche complicata, a volte, da seguire. Poi ci sono romanzi dia-sincronici in cui, cioè, c’è il movimento, c’è lo sviluppo della storia ma ci sono anche parti, capitoli anche molto statici, quelli in cui lo scrittore si ferma, riflette, fa digressioni e porta il lettore nel passato. Infine, ci sono i romanzi sincronici che sono, appunti, quelli come Il deserto, in cui tutto è fermo, statico, senza movimento anche se il tempo della storia occupa ben trent’anni!.. E proprio per questo potremmo definirlo un “antiromanzo” più che un romanzo. Il movimento è solo apparente ma, in verità, tutto è immobile, come la vita, o meglio quella particolare forma di vita, che si svolge nella fortezza Bastiani, che sembra fuori dal tempo e dallo spazio, cioè fuori dal tempo e dal mondo “normali” degli uomini; una sorta di utopia, di non-luogo (non augéiano). Essa appare sempre più al lettore come la fortezza in cui si va a chiudere e ad autoesiliarsi dal mondo chi la vita non sa viverla e ha paura di viverla. E la vera solitudine -come scrive Pirandello in Uno, nessuno e centomila – consiste forse davvero in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce e dove dunque l’estraneo siete voi. Il forte Bastiani è pur sempre un porto sicuro in mezzo a tutte le incertezze della vita e una corazzata inespugnabile che ci protegge e difende dalle avversità di una vita e di un destino che è meglio evitare, visto che non siamo nati per saperli affrontare. Ma se la vita e il destino hanno i loro segreti e i loro misteri – pensa Drogo – anche la fortezza e il deserto li avranno. E vuole scoprirli senza mai riuscirvi. Alla fine arriverà alla conclusione che è impossibile giungere alle verità più profonde della vita e del mondo e che, probabilmente, l’uomo dovrà accontentarsi – come aveva già ammonito Dante – del quia senza mai porsi tanti perché. Il mistero resta e la “favola” di Drogo finisce con la morte, in disperata ma serena e dignitosa solitudine. Il grande nemico tartaro forse non arriverà mai ma la grande nemica – la morte – arriva, alla fine, puntuale e inesorabile a prenderci gli occhi dopo  tanti  anni  passati a cercare e ad aspettare «la grande occasione» per dare un significato alla vita. Perché, in verità, l’uomo sente di dover dare un senso alla vita, perché altrimenti essa non avrebbe senso se vissuta solo nella prospettiva finale della morte. L’uomo, dunque, avverte il bisogno di caricare in qualche modo la vita di significato, fosse pure quello apparentemente vano e insensato (proprio nell’accezione di nonsenso) dell’attesa di un momento di gloria che costituisca il risarcimento e il riscatto di tutta una vita; fosse pure  la sola attesa della morte, che implica il saper morire, il saper affrontare la fine dopo una vita senza grandi eventi e senza eroismi. Non a caso Buzzati ha lasciato detto che «la vita sarebbe una cretinata» senza lo «spavento» della morte. Uno spavento certamente doppio per chi, come Buzzati, aveva confessato di non credere in Dio e neppure nell’aldilà, premessa questa – affermava – per credere in Dio e porsi il problema stesso di Dio.

Dicevamo, all’inizio, che il lungo lavoro di giornalista fu importante per Buzzati e si vede quando si leggono i suoi racconti e i suoi romanzi. La sua prosa è di livello “medio”, antiaccademica e lo stile si avvale di un registro linguistico, in genere, accessibile e colloquiale, con dialoghi, riflessioni e monologhi interiori che scorrono con leggerezza, senza mai rendere pesante la lettura. Buzzati vuole essere scarno ed essenziale, chiaro e telegrafico, incisivo ed efficace come in un articolo di giornale. Vuol essere chiaro e leggibile pur entro la sfera preferita del simbolico, dell’emblematico, del misterioso, del surreale, del meraviglioso e via dicendo.

Artista completo e geniale, Buzzati amava la pittura forse più della letteratura ma le due forme di espressione artistica si compenetravano felicemente. Se – come diceva – «l’optimum del giornalismo coincide con l’optimum della letteratura», anche la pittura e la letteratura finiscono per coincidere e convivere in armonia nella sua mente e nella sua anima. Infatti, una volta disse che «dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare storie». E dunque, oggi la penna e domani il pennello per narrare la vita e il suo mistero, la sua irrealtà. E in questo narrare anche visivo, con immagini fissate sulla tela, Buzzati fu certamente influenzato e affascinato dalla pittura metafisica di De Chirico, che con genialità ha mostrato gli aspetti surreali, misteriosi e inquietanti della nostra esistenza.

Nonostante il successo e i tanti premi letterari, tra i quali lo “Strega” nel ’58, Buzzati lamentò – durante un’intervista – di non essere molto stimato in Italia e anzi di sentirsi emarginato dagli intellettuali impegnati politicamente: «(…) Per il carattere prevalentemente fantastico dei miei scritti, e l’assenza di espliciti “impegni sociali”, io sono stato sempre considerato un po’ fuori gioco, ai margini della tipica corrente letteraria italiana. Fatto è che in Francia e in Germania sono stimato molto di più (…)». Oggi, però, la grandezza di Buzzati è universalmente riconosciuta e se possiamo accostarlo a un Calvino o a un Landolfi in Italia, certamente non sfigura accostato ai grandi nomi europei e non, come quelli di Kafka, Borges,  Mann e altri ancora.

Non occorre essere socialmente o politicamente impegnati per essere un grande scrittore. Certo chi segue la “corrente” è più avvantaggiato, anche perché dietro c’è poi quella chiesa o quel partito. Alla fine, alla distanza, però, la grandezza viene riconosciuta e l’”attesa”viene premiata e la vita, dalla quale Drogo come Buzzati avevano tentato la fuga richiudendosi nella fortezza Bastiani l’uno e nella redazione del Corriere l’altro, ha finito per avere un segreto e misterioso significato, proprio come il sorriso di Drogo-Buzzati di fronte alla morte. Verso la quale, alla fine, può andare incontro senza paura, consapevole che essa fa parte del destino dell’uomo ma anche del fatto che chi cerca di dare un senso alla vita – magari attraverso l’arte e la scrittura – può rinunciare ad essa ma è destinato a rimanere dopo la morte. Verso la quale, alla fine, può andare incontro senza paura, consapevole che essa fa parte del destino dell’uomo ma anche del fatto che chi cerca di dare un senso alla vita – magari attraverso l’arte e la scrittura – può rinunciare ad essa ma è destinato a rimanere dopo la morte, non dimenticando mai che esse – le si chiami pure idiozie –  sono le sole che veramente ci distinguono dalle bestie. Ecco cosa scrive nel racconto Il mago: «Le storie che si scriveranno, i quadri che si dipingeranno, le musiche che si comporranno, le stolte pazze e incomprensibili cose che tu dici, saranno pur sempre la punta massima dell’uomo, la sua autentica bandiera … quelle idiozie che tu dici saranno ancora la cosa che più ci distingue dalle bestie, non importa se supremamente inutili, forse anzi proprio per questo. Più ancora dell’atomica, dello sputnik, dei razzi intersiderali. E il giorno in cui quelle idiozie non si faranno più, gli uomini saranno diventati dei nudi miserabili vermi come ai tempi delle caverne».

 

 

Note

 

1) Cfr. Il Giornale, 13-8-1978, pag. 4.