Trebisacce-30/06/2018: Il cocchio alato del tempo, un romanzo di Salvatore La Moglie

 

 

Salvatore La Moglie

Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie 

Il cocchio alato del tempo, un romanzo di Salvatore La Moglie

Qui di seguito pubblichiamo il terzo capitolo del romanzo di  Salvatore La Moglie. Buona lettura.

 

III

 

 

«Il nostro destino è tragico perché siamo, irreparabilmente, individui imprigionati dallo spazio e dal tempo; ma nulla, di conseguenza, è più lusinghiero di una fede che elimina le circostanze e che dichiara che ogni uomo è tutti gli uomini e che non c’è nessuno che non sia l’universo».

 

  1. L. Borges

 

«La vita in sé è ridicola, è grandiosa soltanto nel suo significato interiore».

 

Dostoevskij

 

Mio padre cominciava a piacermi molto. Era una persona deliziosa. Con lui non ti annoiavi, il tempo passava così velocemente ed era ben speso. E il tempo bisogna spenderlo bene, è il nostro più grande capitale e non sappiamo quanto ne abbiamo a disposizione. Ci vuole intelligenza con il tempo, anche perché non sempre ci è dato di recuperarlo. Io volevo recuperarlo e, anzi, se avessi potuto acquistarne una certa quantità lo avrei fatto senza badare a spese. Pensate: se si potesse andare al mercato dei sogni a comprare il tempo! Sarebbe l’«articolo» più venduto, ognuno vorrebbe la sua fetta di eternità.

«Zia, che cos’è, secondo te, l’eternità?», le chiesi improvvisamente. Eravamo in cucina. Preparava da mangiare e, di solito, cose che mi piacevano tanto.

«E me lo chiedi così, su due piedi?», rispose e subito aggiunse: «Ora provo a darti una risposta».

Era seduta. Nella mano sinistra teneva una patata e nella destra un coltello. Li appoggiò sul tavolo. Si portò l’indice della mano destra sul mento e diresse lo sguardo verso il soffitto.

La zia era una donna di sessant’anni, ma non li dimostrava. Era ancora molto bella, col fisico asciutto che si ritrovava. I capelli se li tingeva color castano chiaro. Ricordava molto mio padre in più di una cosa.

«Per me l’eternità… Per me l’eternità è… è stare in cucina a preparare da mangiare», disse a un tratto ridendo. Risi anch’io.

«Su zia, voglio una risposta più seria…».

«Ma quella era una risposta seria», ribatté sorridendo. Quindi aggiunse:

«Io non ho mica letto tutti i libri che ha letto tuo padre o che hai letto tu…».

«Ma zia, questo non ha importanza. Dammi una risposta qualsiasi sull’eternità così come la pensi tu».

 

 

«Allora vediamo un po’… Per me l’eternità può consistere anche in un solo anno, o in un solo mese, o in un solo mese, o in un solo giorno, o in una sola ora purché siano vissuti intensamente e come vorresti tu. L’eternità può essere fatta di attimi. Può consistere nel bacio che dai alla persona che ami… Se io riesco a vivere intensamente, pienamente e felicemente anche una minima parte della mia vita l’avrò vissuta al di là del tempo e per me è quella l’eternità».

La guardai meravigliato per quella definizione che toglieva all’eternità ogni attestato di assolutezza.

«Ma zia, t sei grande! Sei grande! e sei anche tanto profonda. La tua definizione di eternità è molto bella, sai? Mi è piaciuta molto», le dissi con volto soddisfatto.

«Se però vuoi saperne di più dovrai interrogare mio fratello, cioè tuo padre. Lui è una fonte inesauribile, anche se dice sempre che dopo aver letto tanti libri si sente ignorante e che non si smette mai di imparare», disse riprendendo il suo lavoro.

La salutai e uscii fuori a fare due passi.

 

«Ciao, papà, pensavo che ti avrei trovato nello studio», dissi una volta a casa.

Stava seduto sulla poltrona verde bottiglia del salotto col gomito appoggiato sul bracciolo e la mano destra sulla guancia, come se stesse pensando.

«A caso stai pensando?», gli domandai mentre mi accomodavo sull’altra poltrona di fronte a lui.

«A tante cose», rispose brevemente.

«Scusami, papà, non volevo entrare nei tuoi pensieri…», dissi con tono compunto.

«No, no. Non ti preoccupare. È da persona profonda il cercare di entrare nei pensieri degli altri, e soprattutto quando vi si entra con delicatezza d’animo e senza secondi fini volgari», ribatté col suo tono di voce. Quella voce sicura e calda, chiara e limpida che non avrei mai potuto dimenticare. Poi riprese a parlare.

«Io, purtroppo, penso sempre. Dico ‘purtroppo’ perché non sempre pensare fa bene. Pensare può ucciderci. Il pensiero portato alle estreme conseguenze ci può condurre alla dolorosa presa di coscienza della nostra nullità. Cartesio diceva: ‘Penso, dunque sono’. Ma si potrebbe anche dire il contrario: ‘Penso, dunque non sono’…».

«Papà, non riesco a capire…».

«Vedi, Sandro, se io mi metto a pensare che sono un essere finito, limitato che, cioè, sono condannato a morire, prima o poi, ecco che mi rendo conto della miseria della mia condizione che consiste in un destino di sofferenze e, alla fine, di annientamento. Penso, insomma, alla mia

 

 

condizione di nullità, al mio ‘non essere’ e, dunque, alla grande finzione, al grande imbroglio, alla grande beffa che è la vita».

«Aveva ragione la zia…», dissi come parlando a me stesso.

«Cosa?».

«Niente, niente… Che ho tanto da imparare, nonostante abbia una laurea…», risposi e subito aggiunsi: «Dunque, il pensiero ci porta al pensiero della morte…».

«Si, ma questo è un vecchio pensiero… Lo dissero gli antichi filosofi, come Cicerone e Seneca e, più vicino a noi, lo ribadì Montagne: filosofare, cioè pensare è apprendere a morire ma apprendere a morire vuol dire apprendere ad essere liberi. Il pensiero è libertà…».

Ci fu una breve pausa durante la quale mi venne da pensare a quanto sia bello poter parlare con un uomo intelligente.

«Sai», riprese a parlare accavallando le gambe, «molte cose sono già state dette e noi contemporanei non facciamo che ripeterle e rielaborarle. Sono convinto, tuttavia, che l’originalità esista e che l’uomo, finché ci sarà, avrà sempre qualcosa da dire. Se tutti gli uomini di cultura pensassero contemporaneamente che tutto è già stato detto e dunque non è il caso di scrivere più niente, ecco che non avremmo più libri su cui riflettere perché tanto tutto è già stato pensato e detto… Per fortuna, non sono tutti di questo parere…».

«Per fortuna…», ripetei scuotendo positivamente la testa.

Ci fu un lungo silenzio durante il quale ci guardammo negli occhi. Poi riprese a parlare.

«In verità, pensavo a tante cose quando tu sei entrato. Pensavo agli uomini e al loro destino, al male che sono costretti a sopportare durante il breve tragitto e alla brevissima felicità che è loro consentita…».

«La felicità… Già, la felicità… Ma che cos’è la felicità?».

«Mi fai una domanda semplice…», disse sorridendo e subito aggiunse:

«Sulla felicità è stato scritto tanto ed è un tema che ricorre molto sia in filovia che in letteratura. La felicità è il sogno di tutti gli uomini. Chi non vorrebbe essere felice? Eppure non lo siamo, o se lo siamo lo siamo in pochi e per poco tempo… La maggiorparte dell’umanità è infelice, anzi una buona parte ha il problema elementare del ventre: non ha di che mangiare! Altro che pensare al problema ‘metafisico’ della felicità… Se ci può servire come consolazione e renderci meno cupi, allora riflettiamo sul fatto che i veri felici sono una minoranza».

«Sul mondo prevale il dolore e, quindi, l’infelicità. Perché? È questa la domanda che mi pongo. Eppure la felicità sembra una cosa così semplice… e invece è così difficile a farsi…».

«È proprio così: tutte le cose semplici della vita sono difficili a farsi e a prevalere. L’amore, la verità, il bene la pace, la libertà, la giustizia… Tutte cose semplici ma difficili da realizzarsi su questo mondo. Vedi, figlio mio, il problema è sempre l’uomo, il suo cuore e la sua mente. L’uomo –dopo

 

                millenni di civiltà – è ancora un barbaro, un istintivo… una bestia», concluse   

                con amarezza.

«E dunque, quelli, sono grandi ideali e grandi valori che possono restare solo nella nostra testa?… L’uomo non sarà mai capace di creare, di realizzare una società, un’umanità nuova, migliore?», conclusi con agitazione.

«Non c’è riuscita nessuna filosofia, nessuna religione e nessuna ideologia. Non c’è riuscito il cristianesimo e nemmeno il comunismo…».

«Allora dobbiamo rassegnarci? Sarà sempre così? Il mondo non lo salverà nessuno?», ribattei con tono accorato.

«Forse non lo salverà nessuno, forse sarà sempre così e cambieranno solo i volti e i DNA… Ma una cosa è importante e cioè che il mondo tu lo capisca, che capisca come esso funziona, quali sono i meccanismi (il più delle volte perversi) attraverso cui esso si muove e va avanti. è importante che tu capisca quali sono le forze che ci governano e ci comandano e ci fanno muovere come automi su questa terra. Sono passati e passeranno ancora tante cose e tanti uomini su questo mondo ciascuno con i propri sogni, le proprie ambizioni, i propri dolori, i brevi momenti di gioia… La scena si ripeterà fino a quando il sole splenderà sulla terra…».

«Dunque», dissi, «quello dell’uomo è sostanzialmente un destino di sofferenza e di infelicità?».

«Vedi, il discorso sulla felicità è complesso. Fermo restando quello che abbiamo appena detto, noi possiamo essere infelici per varie ragioni. Possiamo essere infelici per colpa degli altri oppure per una nostra particolare disposizione… propensione per la malinconia e la noia, o anche perché non ci accontentiamo di quel che siamo o di quello che abbiamo. In verità, il nostro carattere può condizionarci molto sia se siamo spiriti malinconici e meditativi, sia se siamo tesi all’azione… Il malinconico è un infelice ma lo è anche chi troppo desidera e non si accontenta mai. Chi s’accontenta gode, si dice. Ma si potrebbe obiettare che può accontentarsi solo il mediocre, mentre l’uomo che vuole, l’uomo ambizioso non si potrà mai accontentare».

«E quindi è un infelice anch’egli…».

«Sì, proprio come colui che subisce la vita ripiegato sulla propria tristezza, sul male di vivere».

«C’è poi l’infelicità dovuta agli altri…».

«Sì, il male e quindi l’infelicità possono essere gli altri, con la loro stupidità o la loro malvagità. Su questo tema è stato scritto tanto ed è un tema legato alla socievolezza e alla solitudine. Se stai solo puoi evitare gli altri e perciò la possibilità che ti facciano il male. Ma se non sei capace di stare solo con te stesso, di isolarti e ti porti invece sulla strada, allora devi sapere che puoi incontrare il male e l’infelicità».

«Ma si può incontrare anche il bene e la felicità…».

 

 

«Certo, ma più raramente. Perché gli uomini sono più cattivi che buoni, purtroppo».

«Dunque, la felicità può esistere ma…».

«Diciamo che non esiste in modo assoluto ed è relativa anche nel senso che ognuno di noi può essere felice per cose diverse. Montale in una sua bellissima poesia sulla felicità, dopo aver detto quanto sia effimera ed illusoria, conclude che essa per un bambino è giocare col suo pallone, mentre l’infelicità è quando quel pallone va a finire sul tetto di una casa… Noi», concluse, «riusciamo ad essere felici per brevissimi periodi o addirittura per poche ore durante l’arco della nostra esistenza».

«La felicità dura lo spazio d’un mattino e, invece, il dolore tutta una vita… È così, vero?».

«Sì, è così», rispose con un velo di tristezza sul volto quasi pallido. Quindi concluse: «Bisogna farsene una ragione, essere capaci di accettare la realtà così com’è e cercare di saper vivere nel miglior modo possibile sapendo godere i momenti buoni e le cose buone della vita. Altrimenti non resterebbe che impazzire o soccombere».

«Ma se la vita è più brutta che bella e il mondo è quello che è, allora che senso ha vivere?».

«Vedi, la vita non è brutta, o lo è solo in parte e relativamente. Mi spiego. Se le cose ci vanno bene noi siamo contenti e amiamo la vita e la realtà che ci circonda. Se invece ci vanno male incominciamo ad essere tristi, nervosi, scontenti di tutto e di tutti e proviamo un sentimento di insofferenza. Voglio dire che è tutto relativo, a seconda di come tira il vento…».

«Se le cose stanno così», ribattei, «allora un ruolo importante lo giocano la fortuna, il caso, l’occasione, l’imprevedibile, il probabile, il possibile!…».

«Certo, Sandro, certo. La vita è fatta anche di tutte queste cose. In un solo momento e in una particolare situazione ci può accadere tutto il bene o tutto il male possibili, e perciò quel solo momento e quella particolare situazione ci possono cambiare la vita».

«Dunque, noi, solo in parte siamo gli artefici del nostro destino…».

«Sì», rispose, poi continuò: «Quanto al destino, ti confesso che ancora non so come atteggiarmi. Ci sono dei momenti in cui penso che ognuno di noi abbia come un percorso prestabilito che si compierà. Altre volte, invece, credo che sia tutto una stupidaggine, una nostra creazione mentale: non sapendo spiegarci le cose della vita, abbiamo inventato il destino…».

«Se esiste il caso, l’imprevedibile… come può esistere il destino?».

«Infatti, non può esistere. E del resto, in una visione moderna della vita, l’idea di destino non può che crollare».

«Sì, è vero», dissi e aggiunsi: «Se ci hai fatto caso, di solito, la parola ‘destino’ ha sempre una connotazione negativa. Raramente diciamo: ‘Che bel destino!’; più spesso invece: ‘Che brutto destino!’…».

 

 

«È vero», ribatté e subito continuò: «Vedi, nella vita di un uomo giocano tanti fattori, tanti elementi determinanti. Per esempio, la famiglia, la situazione economica, la cultura, l’ideologia, il carattere, la psicologia, l’intelligenza o la stupidità, la propensione al bene o al male, ecc. La vita di un uomo è il risultato di tanti fattori che concorrono».

«E la fortuna?».

«Indubbiamente, gioca un ruolo determinante. Molto lo dobbiamo al fatto di essere più o meno fortunati».

«Io penso che tutto è fortuna».

«Non proprio tutto. Ma se domani tu potessi dire di sentire il vento dalla tua parte, tanto meglio per te. Meglio essere fortunati che sfortunati, no?».

«Meglio, certo!…».