Trebisacce-15/01/2023: Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del canto XXVI dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo.

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Rubrica letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Pubblichiamo qui di seguito l’analisi del canto XXVI dell’Inferno di Dante, del quale Salvatore La Moglie propone un nuovo e originale commento che è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice  Setteponti di Arezzo.

 

 

Il canto-capitolo XXVI ovvero il canto di Ulisse e della sfida dell’uomo all’impossibile. Cerchio ottavo, ottava bolgia. Ad essere puniti sono i consiglieri fraudolenti (o di frodi) che camminano avvolti in una fiamma. Il loro contrappasso (per contrasto) consiste nel fatto che come in vita ebbero la parola, la lingua facile a malconsigliare, a consigliare cioè ingannevolmente provocando anche incendi, guerre, distruzioni e violenze, così, nell’Inferno, le loro anime sono imprigionate in una fiamma e per poter parlare, devono sforzarsi a far uscire le loro parole attraverso la sua cima. Punito con Ulisse è Diomede, unito a lui in una fiamma biforcuta. A parlare con Ulisse è Virgilio, al quale racconta le sue vicissitudini fino al folle volo che condusse lui e i suoi compagni ad essere ingoiati dal mare. Dante punisce Ulisse per l’inganno del Cavallo di Troia ma lo esalta come prototipo e metafora dell’uomo che ama la conoscenza, la virtù e che comunque racchiude in sé il senso della sfida, della curiosità e del coraggio per tentare l’impossibile, per andare oltre le Colonne d’Ercole. Ulisse narra la sua odissea e il suo folle volo e Dante, in fondo, lo ama perchè lo avverte simile a lui nel folle volo che ha intrapreso nel compiere il viaggio nei Tre Regni dell’Oltremondo, viaggio che è poi la sua odissea: l’odissea dell’anima alla ricerca della felicità spirituale, dopo aver esplorato gli abissi della mente dell’uomo e la sua capacità di fare il bene o il male.

 

Godi Fiorenza, poi che se’ sì grande, che per mare e per terra batti l’ali, e per lo ‘nferno il tuo nome si spande! Tra li ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali. Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai di qua da picciol tempo di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna. E se già fosse, non sarìa per tempo: così foss’ei, da che pur esser dee! Chè più mi graverà, com più m’attempo.

Con questa durissima, ironica, sarcastica, amara e polemica invettiva (o apostrofe che dir si voglia) contro la sua amata-odiata Firenze, dove ormai regnano il caos politico e la corruzione morale, si apre il canto di Ulisse: Puoi ben godere, Firenze, poiché sei così grande, che dappertutto, per mare e per terra voli e diffondi la tua fama, e il tuo nome si spande, è conosciuto anche nell’Inferno! (Come dire: capirai che bella fama!…). Tra i ladri ho trovato cinque tuoi cittadini (di così bassa lega, nonostante appartenenti a famiglie notevoli…) per i quali provo forte vergogna (di essere un loro concittadino), e tu (certo) non ne acquisti in maggiore onore (cioè, sono per te un grande disonore). Ma se è vero (come si dice e si crede) che i sogni fatti nelle prime ore del mattino, all’alba si avverano, (allora) tu sperimenterai, fra non molto tempo, (tutto) quel (male, quelle sventure e castighi) che (la piccola città di) Prato, come tutte le più grandi (della Toscana) desiderano, augurano che ti accada (un male, una punizione, un castigo catartico, purificatore per i fiorentini). Ma se questo (male, punizione) fosse già in atto, già accaduto, non sarebbe troppo presto, sarebbe pur sempre tardi (ad esser giunto): magari fosse, visto che così sarà! poichè più invecchio e più mi peserà, mi addolorerà (vedere questo male realizzato, perché Firenze è la città che pur sempre ama).

Fanno acutamente notare Giovanni Fallani e Silvio Zennaro (nel loro commento alla Commedia edito dalla Newton Compton, 1994) che alla concezione rigida di una giustizia assoluta, quale è quella nella coscienza di Dante, fa contrasto il malaffare e l’ignominia dei suoi avversari, giudicati nell’eternità per quello che sono: ladroni; e non sono loro soltanto, ma il male è così diffuso che sembra non possa  esistere un rimedio o una via di scampo.

Quindi i due Poeti si allontanano dalla settima bolgia e Virgilio risale, aiutando Dante (a salire), su per le scale naturali dell’argine che prima le sporgenze rocciose (del ponte) hanno fornito per scendere (noi ci partimmo, e su per le scalee che n’avean fatte i borni a scender pria, rimontò ‘l duca mio e trasse mee); e proseguendo il cammino, la via in solitudine (senza alcuna guida), tra le sporgenze e le rocce del ponte, il piede non riesce a muoversi facilmente, ad avanzare senza l’aiuto delle mani (e proseguendo la solinga via, tra le schegge e tra’ rocchi dello scoglio lo piè sanza la man non si spedìa). Allora mi sono doluto e tuttora mi dolgo quando ricordo, rivolgo la memoria a quello che ho visto (l’intelligenza volta al male, all’inganno come nei consiglieri fraudolenti), e cerco di tenere a freno l’ingegno più di quanto sono solito fare, più del solito, affichè non accada che (nell’operare) non sia guidato dalla virtù; cosicchè, di modo che, se per il favore delle stelle o per Grazia divina mi è stato concesso il bene dell’ingegno, io stesso non me ne privi, non lo perda per colpa mia (Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, e più lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio, perché non corra che virtù nol guidi; sì che, se stella bona o miglior cosa m’ha dato ‘l ben, ch’io stessi nol m’invidi).

In effetti, però, il Dante che dice che l’ingegno umano non può andare oltre il consentito dalla Grazia di Dio perché si commetterebbe peccato di hybris, di superbia, tracotanza e di sfida alla divinità, in effetti, l’andare oltre le Colonne d’Ercole è un atto che lui ha fatto, e lo ha fatto scrivendo la Divina Commedia, in cui, nel suo folle viaggio (voluto e sorretto dalla Grazia divina), come un Dio e in nome di Dio, somministra la giustizia, le punizioni e le ricompense. Quello che la sua rettitudine gli ha impedito di commettere (e che durante l’esilio poteva commettere, visto che era uomo di corte e consigliere di uomini potenti) è stato di non usare il suo ingegno in consigli fraudolenti, in astuzie e inganni per immorali trame politiche che avrebbero cozzato con il suo alto sentire, con la sua grande moralità, la sua etica, la sua cultura e le stesse norme e principi della giusta dottrina religiosa: in una parola, con la sua coscienza.

A un certo punto, Dante ci introduce nell’ottava bolgia e lo fa proponendo due delle sue sempre splendide, calzanti e azzeccate similitudini: Quante il villan ch’al poggio si riposa, nel tempo che colui che ‘l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa, come la mosca cede a la zanzara, vede lucciole giù per la vallea, forse colà dov’e’ vendemmia ed ara; di tante fiamme tutta risplendea l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi tosto che fui là ‘ve ‘l fondo parea. E qual colui che si vengiò con li orsi vide ‘l carro d’Elia al dipartire; quando i cavalli al cielo erti levorsi, che nol potea sì con li occhi seguire, ch’el vedesse altro che la fiamma sola, sì come nuvoletta, in su salire; tal si move ciascuna per la gola del fosso, chè nessuna mostra il furto, e ogni fiamma un peccator invola: Quante lucciole vede il contadino dal luogo alto dove dimora e riposa, giù a valle, nella piana che sta in basso, dove svolge i lavori di campagna (vendemmia e ara), durante l’estate, quando il sole tiene la sua faccia a noi meno nascosta (perché la giornata è più lunga), durante il crepuscolo, quando le zanzare prendono il posto delle mosche, allo stesso modo tutta l’ottava bolgia ho visto rispendere di tante fiamme, così come io mi sono accorto non appena mi sono trovato là (sulla sommità del ponte), da dove appare il fondo della bolgia. E come il profeta Eliseo, che si vendicò con gli orsi (lanciò una maledizione contro dei ragazzi che lo avevano schernito per la sua calvize e, poi, due orsi, usciti da un bosco, ne sbranarono ben 42!) vide il carro del profeta Elia (suo maestro) nel momento di allontanarsi, quando i cavalli si impennarono, si levarono verso il cielo, tanto che non poteva seguirli con gli occhi, di modo che non vedesse altro che la sola fiamma salire in su come una nuvoletta, così (proprio come la fiamma che avvolgeva Elia e il carro) si muove per la cavità stretta della bolgia, ciascuna (fiamma), in quanto nessuna di essa mostra ciò che nasconde (cioè l’anima del dannato) e (infatti) ogni fiamma nasconde un peccatore (il concetto viene ripetuto).

Dante dice che: Io stava sovra il ponte a veder surto, sì che s’io non avessi un ronchion preso, caduto sarei giù sanz’esser urto: Io stavo sul ponte dritto, all’impiedi (e sporto in avanti per vedere la scena in basso), e se non mi fossi aggrappato a una roccia, a una sporgenza, sarei caduto giù senza esser stato spinto (se non dalla propria curiosità…). E Virgilio, che lo ha visto così intento (tanto atteso, a guardare), gli spiega che: Dentro dai fuochi son li spirti; ciascun si fascia di quel ch’elli è inceso: le anime sono dentro le fiamme; ogni anima è avvolta dalla fiamma che la arde, la brucia. E Dante: Maestro mio per udirti son io più certo; ma già m’era avviso che così fosse, e già voleva dirti: chi è in quel foco che vien sì diviso di sopra, che par surger della pira dov’Eteòcle col fratel fu miso?: Maestro mio, dopo aver udito (la tua spiegazione), sono più certo; ma già mi sembrava, avevo capito che così fosse (come avevo immaginato) e, infatti, volevo già dirtelo (ma tu sei stato più veloce e mi hai anticipato): volevo dirtelo per chiedere:  chi c’è, chi si nasconde in quella fiamma biforcuta, divisa in due punte nella parte superiore, tanto che sembra uscire, innalzarsi dal rogo dove Eteocle è stato messo col fratello (Polinice)?

Entrambi figli di Edipo e di Giocasta (che era la madre di costui…), si odiavano tanto che, uccisosi a vicenda, quando furono bruciati sulla pira, la fiamma che si produsse si divise in due, separandosi, così, anche dopo la morte.

Questa la risposta di Virgilio: Là dentro si martira Ulisse e Diomede, e così inseme alla vendetta vanno come all’ira; e dentro dalla lor fiamma si geme l’agguato del caval che fe’ la porta onde uscì de’ Romani il gentil seme. Piangevisi entro l’arte per che, morta, Deidamìa ancor si duol d’Achille, e del Palladio pena vi si porta: In quella fiamma biforcuta sono puniti, tormentati i due famosi eroi greci Ulisse e Diomede, insieme nel giusto castigo divino come insieme incorsero nell’ira di Dio che provocarono (con le loro azioni fraudolenti); e dentro la fiamma (che li avvolge) piangono, soffrono per (aver ordito) l’inganno del cavallo (di Troia) che fu la causa indiretta da cui è poi scaturito il nobile progenitore dei Romani (Enea). Dentro la fiamma si piange l’astuzia, l’inganno per cui la moglie di Achille, Deidamìa, pur morta e nel Limbo, ancora piange il marito (che l’ha abbandonata in quanto ricondotto allo spirito guerriero dai due eroi), e dentro la fiamma si piange anche il furto sacrilego della statua di Pallade (o Minerva, che rendeva imprendibile la città).

Dante esprime poi il grande desiderio di interloquire, di intervistare Ulisse, cioè lo maggior corno della fiamma antica: S’ei posson dentro da quelle faville parlar maestro, assai ten priego e ripriego, che il priego vaglia mille, che non mi facci dell’attender niego fin che la fiamma cornuta qua vegna: vedi che del disio ver lei mi piego!: Se essi possono parlare dentro quelle fiamme, maestro, assai te ne prego e ancora ti riprego, tanto che la mia preghiera valga mille, che non mi neghi di aspettare qui un poco finchè la fiamma biforcuta venga qui (dove siamo noi): come puoi vedere, per il grande desiderio (di poter parlare con lei) mi sono sporto fuori dal ponte.

Virgilio ha ben compreso l’ansia di Dante e lo asseconda: La tua preghiera è degna di molta loda, e io però l’accetto; ma fa che la tua lingua si sostegna. Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi, perché fuor greci forse del tuo detto: La tua preghiera è degna di molta lode, e pertanto, perciò la accolgo (perché ha intuito che vuol sapere da Ulisse il racconto e le ragioni del folle volo); però, fai in modo di non parlare, evita di parlare. Lascia parlare me, perché ho capito quello che tu vuoi (dire e sapere); perché essi, essendo greci, sarebbero restii, si rifiuterebbero (per la loro superbia) di parlare con te (è come se Virgilio, avendo vissuto molti secoli prima di Dante, avendo scritto un poema dedicato ad Enea e in cui si parla anche degli altri eroi greci, e avendo, quindi, più dimestichezza con il mondo greco, fosse più abilitato a conversare con i due mitici eroi immortalati da Omero e anche da lui: questa potrebbe essere la spiegazione più plausibile sul perché Dante non parla direttamente lui con i due peccatori e, infatti, le successive parole di Virgilio sembrano una conferma; resta, però, il fatto che il greco Ulisse capisce e parla la lingua latina, cioè italiana di Virgilio e di Dante; ma, della complessa finzione letteraria della Commedia, bisogna accettare anche questa…).

Il racconto di Dante sull’intervista di Virgilio a Ulisse prosegue così: Poi che la fiamma fu venuta quivi dove parve al mio duca tempo e loco, in questa forma lui parlare audivi: O voi che siete due dentro ad un foco, s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, s’io meritai di voi assai o poco quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l’un di voi dica dove per lui perduto a morir gissi:  Appena la fiamma è giunta qui, dove a Virgilio è sembrato tempo e luogo opportuni, lo si è sentito parlare in questo modo (così solenne, altamente retorico e con captatio benevolentiae): O voi che siete due anime dentro a una sola fiamma, se io, in vita, ho acquistato qualche merito presso di voi, se ho acquistato presso di voi qualche merito grande o piccolo, quando ho scritto gli alti versi (dell’Eneide), restate qui (con noi); ma uno di voi (cioè Ulisse) racconti come è andato a morire lontano (il mistero della sua fine, in un luogo lontano dal mondo degli uomini).

A rispondere è Ulisse, più famoso, e Diomede, anche se come lui fiamma antica, passa in secondo piano, sta lì come mera comparsa: Lo maggior corno della fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando pur come quella cui vento affatica; indi la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori, e disse: “Quando mi diparti’ da Circe, che sottrasse me più d’un anno là presso a Gaeta, prima che sì Enea la nomasse, né dolcezza di figlio, né la pièta del vecchio padre, né ‘l debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta, vincer poter dentro da me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto e delli vizi umani e del valore, ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola dalla qual non fui diserto. L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Marrocco, e l’isola de’ Sardi, e l’altre che quel mare intorno bagna.

Io e’ compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov’Ercule segnò li suoi riguardi, acciò che l’uom più oltre non si metta: dalla man destra mi lasciai Sibilia, dall’altra già m’avea lasciata Setta. ‘O frati’, dissi, ‘che per cento milia perigli siete giunti all’occidente, a questa tanto picciola vigilia de’ nostri sensi ch’è del rimanente, non vogliate negar l’esperienza, di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza’.

Li miei compagni fec’io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti; e volta nostra poppa nel mattino, dei remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino. Tutte le stelle già dell’altro polo vedea la notte e ‘l nostro tanto basso, che non surgea fuori del marin suolo. Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto dalla luna, poi che ‘ntrati eravam nell’alto passo, quando n’apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non aveva alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; chè della nova terra un turbo nacque, e percosse del legno il primo canto. Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque: alla quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com’altrui piacque, infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso”.

Dunque: Il corno, la punta maggiore dell’antica fiamma (perché i due sono morti da secoli), cioè Ulisse (il più famoso, più grande), comincia ad agitarsi, a muoversi emettendo dei suoni proprio come fa la fiamma quand’è agitata, mossa dal vento (vuol dire che parla con fatica); quindi, la cima della fiamma, muovendosi di qua e di là, come se a parlare fosse la lingua, comincia ad emettere parole di fuori, e dice: Quando mi sono allontanato da(lla maga) Circe (che aveva trasformato, per qualche tempo, i suoi compagni in maiali, mentre lui si era salvato per aver ingerito un’erba magica, una sorta di antidoto fornitogli dal dio Mercurio; comunque, con lei aveva vissuto nell’abbondanza del cibo e nei piaceri del sesso), (quella) Circe che mi ha tenuto presso di lei (distogliendomi dal viaggio) più di un anno a Gaeta (sul monte Circello), prima che fosse chiamata così da Enea, né la tenerezza per mio figlio (Telemaco), né (la pietas) l’amore reverente, devoto per il mio vecchio padre (Laerte), né l’amore dovuto a mia moglie Penelope, che avrebbe dovuto renderla lieta, hanno potuto vincere dentro di me l’ardente desiderio, l’amore che io avevo di diventare esperto del mondo, dei vizi, delle miserie e del valore, della virtù degli uomini; e così mi sono avventurato per il Mediterraneo (occidentale) con una sola nave e con quei pochi fedeli compagni che non mi hanno mai abbandonato. Ho visto sia il litorale europeo (fino alla Spagna) e quello africano (fino al Marocco), nonché l’isola di Sardegna e anche le altre, come la Sicilia, la Corsica, le Baleari, ecc. che quel mare bagna.

Io e i miei compagni eravamo vecchi e lenti (senza il vigore di una volta) quando siamo arrivati presso lo Stretto di Gibilterra (cioè alla fine del mondo conosciuto!), dove Ercole ha segnato, tracciato, con due Colonne, i limiti del mondo affinchè nessuno si fosse spinto oltre (per cui si diceva, appunto, che non bisognava andare oltre, non plus ultra, le Colonne d’Ercole, cioè oltre i limiti consentiti: farlo, significava sfidare Dio, commettere il peccato di hybris, di superbia, tracotanza e offesa verso la divinità): dalla mano destra ho lasciato alle spalle Siviglia, dalla sinistra ho lasciato Ceuta (sulla spiaggia africana).

‘O fratelli?’, ho detto ai miei compagni, ‘che attraverso centomila (cioè tantissimi) pericoli siete giunti fino al confine occidentale del mondo conosciuto, ora che siamo ormai a un breve periodo di vita che ci resta da vivere, non vogliate negare, impedirvi l’esperienza della conoscenza del mondo disabitato, verso occidente, seguendo il corso del Sole. Considerate la vostra origine (cioè il fatto che siete uomini): non siete stati creati per vivere come dei bruti (delle bestie prive di ragione e di sentimenti), ma per conseguire la virtù e la conoscenza, il sapere, la scienza (Ulisse cerca di toccare le corde più sensibili affinchè i suoi compagni non si neghino allo spirito di conoscenza e, con poche ma solenni e incisive parole, riesce a convincerli: pensate, con orgoglio, che siete uomini e non bestie!)

Con questo breve discorso ho reso i miei compagni così pieni di desiderio di proseguire il viaggio, che a stento, dopo le mie parole, sarei riuscito a trattenerli (se lo avessi voluto); e voltata, girata la poppa verso oriente (dove sorge il sole, con la prua verso occidente, cioè verso l’ignoto), abbiamo usato i nostri remi come se fossero ali per spiccare il nostro folle volo (la nostra temeraria impresa, non sorretta dalla Grazia divina), avanzando sempre verso sinistra (cioè verso sud-ovest). Di notte vedevo già tutte le stelle del polo antartico, australe, mentre quelle del nostro (l’artico, con la stella polare che faceva da guida) erano così basse da non vedersi, da non emergere sulla superficie del mare.

Erano passati cinque mesi (il lume sotto la luna si era illuminato, acceso cinque volte e altre cinque era stato spento, oscurato) da quando eravamo entrati nel difficile passaggio, cioè da quando avevamo intrapreso, la difficile, ardua impresa (di andare oltre le Colonne d’Ercole), quando ci è apparsa una montagna (quella del Purgatorio, sulla cui cima è il Paradiso terrestre), scura, indistinta per la distanza, e mi è sembrata tanto alta da non averne mai vista ness’un’altra così.

Noi ci siamo rallegrati (a quella vista e per la meta raggiunta), ma presto la nostra gioia si è trasformata in pianto, in dolore (allegria di naufragi, direbbe con amarezza Ungaretti…); perché dalla terra sconosciuta (e appena avvistata) è scaturito un turbine di vento, un vortice che ha colpito la prua (la parte anteriore della nave). Tre volte ha fatto girare vorticosamente la nave, insieme con le acque (lì intorno): alla quarta volta, ha fatto alzare, impennare la poppa in alto, facendola andare in giù, cioè facendola inabissare, così come è piaciuto a Dio (cioè secondo come stabilito da Dio), finchè il mare si è chiuso (come una tomba) su di noi, (finchè non siamo stati completamente ingoiati, sommersi dal mare)…

Così termina l’orgoglioso e amaro racconto di Ulisse che, per spirito di conoscenza, di curiosità, di avventura e di sfida (tipico dell’uomo occidentale) va incontro alla morte insieme ai suoi fedeli compagni, trascinati nel folle volo dopo averli carismaticamente toccati nell’orgoglio e nell’essenza stessa del nostro essere uomini che ci distingue dalle bestie: la ragione, l’intelligenza, la virtù, la curiosità, lo spirito di ricerca, la conoscenza. Le cose in cui più Dante credeva, sulla base delle quali aveva informato tutta la sua vita e per le quali sarebbe morto, proprio come il suo Ulisse, al quale si sente così vicino e simile: così fraterno. Così vicino e così fraterno anche per quanto riguarda proprio il tema della nostalgia, del nostos, della nostalgia del ritorno, cioè della sofferenza per il desiderio struggente del ritorno (impossibile) nella propria terra, in patria; una patria dalla quale si è costretti a restare lontani e, quindi, lontani anche dalle cose a noi più care (nel caso di Dante ancora più struggente in quanto da quella patria scacciato, bandito e reso, praticamente, un eslege, un criminale a cui dare la caccia per bruciarlo vivo o impiccarlo in una pubblica piazza).

Spirito prometeico, faustiano, l’Ulisse di Dante (che lui aveva conosciuto non attraverso Omero ma da altri autori classici) è un uomo moderno, tipicamente occidentale, dotato dello spirito della hybris, cioè del senso di sfida che contraddistingue, appunto, l’uomo occidentale, per cui l’esplorazione di nuove terre e nuovi mondi sarà una delle sue grandi passioni, soprattutto a partire dal XV secolo: esplorazioni e scoperte geografiche che metteranno l’Europa Occidentale al centro della Storia del mondo e come motore stesso della Storia (eurocentrismo), e che porteranno prima al Colonialismo e poi all’Imperialismo, ai grandi traffici commerciali e alle prime forme di moderne mondializzazioni fino all’esplosione della Modernità con la Rivoluzione Industriale tra Settecento e Ottocento e via discorrendo. Modernità e Rivoluzione Industriale che sono state realizzate proprio da quella classe sociale – la borghesia –  per la quale Dante non mostrava molta simpatia: una classe sociale rivoluzionaria (lo riconoscerà anche Marx, nonostante anche lui la detestasse per il fatto di mettere al centro della vita il denaro e il profitto) che era dotata di senso della hybris e fornita di tanti capitani coraggiosi che faranno la grande impresa della Rivoluzione Industriale. Ebbene, è lo spirito di Ulisse che finora ha fatto marciare il mondo: sfidare l’impossibile, sfidare i limiti imposti da Dio all’uomo e andare, con testarda e determinata convinzione, oltre le Colonne d’Ercole, oltre i limiti consentiti. È vero: nel romanzo della Commedia Ulisse e i suoi compagni sono puniti da Dio col terrificante naufragio che li fa inabissare, ma Ulisse non è sconfitto, non si pente del suo folle volo tentato per sete di sapere, di curiosità e di conoscenza, conoscenza di ciò che all’uomo è ignoto. L’uomo non è fatto per la sconfitta. Un uomo può essere distrutto ma non sconfitto, dice Ernest Hemingway ne Il vecchio e il mare. Ulisse rimane con le sue idee, orgoglioso del suo essere uomo e non bestia, consapevole della propria grandezza come uomo che (si potrebbe dire umanisticamente) mette al centro dell’esistenza l’intelligenza, la ragione e l’operare secondo virtù e in base a grandi principi, valori e ideali per cui vale la pena di vivere e di morire. E, intanto, dopo aver letto la versione dantesca dell’ultima parte della vita di Ulisse con la decisione del folle volo, dimentichiamo che lo maggior corno della fiamma antica è punito in eterno come grande realizzatore di inganni e di astuzie orribili e infami, e non possiamo non restare affascinati da un personaggio così straordinario, non possiamo non ammirarlo e pensare che, in verità, l’Ulisse di Dante è il prototipo migliore e più paradigmatico di quel microcosmo di Virtù, Razionalità, Curiosità, Intelligenza, Saggezza e Conoscenza che dovrebbe essere l’uomo nel macrocosmo in cui si trova ad esser stato heideggerianamente gettato.